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L’impronta idrica del cibo

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Avete mai pensato alla quantità di acqua che consumate in un giorno? Non solo l’acqua che bevete o che utilizzate in casa. Anche il cibo che mangiamo ha un’impronta idrica, si chiama acqua virtuale e spesso rappresenta più della metà del nostro consumo idrico giornaliero.
Durante l’esposizione di Broken Nature a La Triennale di Milano, ci sarà un Wonderwater Café con un menù interamente tradotto in termini di impronta idrica per ogni piatto!

Cristina: Molti di noi sono bravi a non sprecare acqua in casa, ma raramente sappiamo quanta ne consumiamo in maniera indiretta, ad esempio l’acqua che serve per produrre il nostro cibo. Wonderwater Café è un progetto itinerante che giunge al ristorante della Triennale di Milano durante l’esposizione di Broken Nature. Frutto di una collaborazione tra scienziati e designer, si traduce in un menù che illustra l’impronta idrica di ogni piatto.

Jane Withers: Non abbiamo idea delle quantità di acqua che servono per produrre il cibo. Noi mostriamo le differenze tra: fagioli coltivati in Kenya, dove irrigare le piante può voler dire sottrarre risorse idriche dalle comunità locali, e verdure stagionali e locali, irrigate con acqua piovana. Capiamo il valore dell’acqua quando, ad esempio, durante la siccità in California due anni fa, i prezzi delle mandorle sono andati alle stelle. Noi mostriamo questi sistemi idrici invisibili.

Cristina: Lei trova che i fatti scientifici debbano essere adattati per raggiungere un grande pubblico?

Jane Withers: Si, penso di sì. Noi traduciamo i dati in un linguaggio che le persone possano capire. Penso che trovare sul tavolo, al ristorante, mentre stai scegliendo cosa fare, un menu che indichi l’impronta idrica di ogni piatto, faccia la differenza. Quanto influisce sulla scelta? Se leggendo vedo che per fare la pizza marinara ha consumato 290 litri e quella con la salsiccia piccante 960 litri? Sono numeri impressionanti.

Cristina: Il primo WonderWater cafè risale al 2011. In pochi anni, insieme al progetto è cresciuta la consapevolezza del problema.

Jane Withers: I nostri partner accademici del King’s College di Londra, hanno lavorato per capire ogni ingrediente: da dove è venuto, dov’è stato acquistato e così via. Adesso sembra esserci più trasparenza, ma penso che sia interessante quanto nel 2011, sembrava tutto molto astratto, mentre ora c’è un crescente senso di urgenza. Ci stiamo rendendo conto che una delle cose più importanti che possiamo fare è di passare da una dieta carnivora ad una vegetariana o “flexitariana” – più consapevole. Le differenze sono importanti:  più di 5000 litri al giorno per una dieta a base di carne contro 2600 litri. Sono differenze palpabili. C’è crescente interesse e consapevolezza.

Cristina: Le informazioni ci sono, la gente ha sempre più voglia di sapere cosa consuma e che impatto ha. Quindi se siete ristoratori se comunque portate, al mondo, cibo in un qualche modo, offrite questa opportunità di conoscenza perché è molto importante. Occhio al futuro!

In onda 4-5-2019

Broken Nature – la Triennale di Paola Antonelli

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Paola Antonelli è la più grande fonte d’ispirazione per colmare il divario tra ciò che sappiamo e come viviamo. Broken Nature presenta una moltitudine di idee e soluzioni per diventare cittadini rigenerativi del nostro bel Pianeta. La speranza è che visitiate la Triennale tante volte, ma per chi non verrà a Milano entro l’1 settembre, brokennature.org è una fonte da consultare (anche per chi visiterà la mostra!). Grazie Paola per la tua visione e per la tenacia.

Cristina: Siamo alla Triennale di Milano, Broken Nature, un mostra internazionale e interdisciplinare che durerà fino al 1 di Settembre, che indaga il nostro rapporto con i sistemi naturali, la società umana, con il modo di vivere, produrre e consumare. É curata da una grande italiana, Paola Antonelli, che per l’occasione  è stata prestata dal MoMA di New York.  L’essenza di Broken Nature, cosa vuoi che gli spettatori si portino a casa?

Paola Antonelli: Vorrei che si portassero a casa il fatto che per essere responsabili, per vivere in modo sostenibile, per attivare questo atteggiamento ricostituente, non bisogna sacrificare l’estetica o il piacere, la sensualità o l’eleganza.

Cristina: Spesso gli individui si sentono troppo piccoli per poter avere un impatto. Tu come la vedi?

Paola: Non la vedo così, perché non possiamo contare soltanto sui governi, le istituzioni e arrenderci al nostro destino. Abbiamo un potere enorme che proviene anche dai social media, una persona poi diventa un gruppo, una tribù, una comunità e dopo di che se i governi vogliono avere qualsiasi efficacia devono seguire anche quello che vuole il pubblico.

Cristina: Qual’è il tempo ideale da trascorrere in questa mostra per tornare a casa veramente più nutriti?

Paola: Direi che almeno tre quarti d’ora, un’ora ce li devi mettere. Spero che tanti bambini vengano e che siano ispirati perché alla fin fine il design tra una quarantina di anni andrà come la fisica, ci sarà il design teorico e quello applicato e si trasmetteranno conoscenze a vicenda.

Cristina: E l’aspetto sociale come lo hai declinato?

Paola: Per esempio […] pensò a questo recupero di mais di speci che erano andate perdute e poi usare le barbe e la parte esterna della pannocchia per fare un’intarsio. Anche semplicemente quest’attività che il design può fare per recuperare cultura materiale che si è persa, c’è un grandissimo esempio anche di come si può utilizzare la comunità.

Cristina: Come definisci il designer del XXI secolo?

Paola: Tantissime possibilità di espressione. Per cominciare ci sono i mobili, ovviamente ci sono le auto, ci sono anche i materiali. Ci sono dei designer che progettano scenari o cercano di mostrarci quali potrebbero essere le conseguenze future delle nostre scelte di oggi. Ci sono designer di interfacce che sono per esempio lo schermo e l’interazione del bancomat. Ci sono designer che fanno bio-design, quindi si occupano anche di organismi viventi o progettano con organismi viventi. Neri Oxman e Mediated Matter Group stanno ispirando una generazione di designer che imparano a lavorare con la natura per fare oggetti ed edifici che crescono invece di essere disegnati dall’esterno. Skylar sta lavorando il governo delle Maldive per fermare l’erosione delle spiagge. Stanno tutti lavorando e avendo un grande impatto. Sono molto fiera di tutti.

Cristina: Grazie Paola. Non perdete Broken Nature.

In onda 6-4-2019

Formafantasma indaga il riciclo dei rifiuti elettronici

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Gli elementi preziosi nell’elettronica hanno tre problematiche: il danno all’ambiente nell’estrazione; la breve durata di vita dei dispositivi stessi; alla fine del loro ciclo di vita, non vengono adeguatamente riciclati. Si stima che entro il 2080, le più grandi riserve minerarie non saranno più sottoterra, ma in superficie, come lingotti o come parti di materiali da costruzione, elettrodomestici, mobili e device.
Simone Farresin e Andrea Trimarchi di Studio Formafantasma hanno condotto un’indagine ambiziosa sul riciclaggio di rifiuti elettronici con il loro progetto Ore Streams – in esposizione durante Broken Nature alla Triennale di Milano

Cristina: Questo cassetto è fatto con il case di un vecchio computer. Pensate, i rifiuti elettrici ed elettronici sono quelli che crescono più in fretta, solo il 30% però viene riciclato. Intervenire sul restante 70% è molto complesso perché complessi sono gli oggetti di cui parliamo e complicate sono le filiere.

Simone Farresin: La smontabilità degli oggetti è fondamentale, pertanto per esempio istituire un sistema di viti universale sarebbe utilissimo. Per esempio il nero dei cavi elettrici è molto difficile da riconoscere per i sistemi che vengono utilizzati per separare, i lettori ottici. Cambiare semplicemente il colore dal nero ad un colore aiuterebbe il riconoscimento dei cavi elettrici e il recupero del rame. Per di più sarebbe fondamentale istituire un sistema di etichettatura che dica all’utente, nel momento in cui compra un oggetto elettronico, quanto durerà nel tempo. Ovviamente questi oggetti vengono riciclati ma in modo un po’ più sofisticato nei nostri paesi, invece nei paesi in via di sviluppo che hanno bisogno di un codice colore che li aiuti a comprendere in modo intuitivo quali sono i componenti pericolosi per essere smontati a mano, in modo tale che il riciclo venga fatto nel modo opportuno.

Cristina: Voi avete incontrato per il vostro progetto attori lungo tutto la filiera, dove avete incontrato la maggiore resistenza?

Andrea Trimarchi: Devo dire che una delle cose più complesse in realtà è stata entrare in contatto con i produttori di elettronici. Abbiamo parlato con università, con produttori, aziende di riciclo, abbiamo parlato anche con persone che si occupano di leggi. Diciamo che quelle sono state più disponibili poi ad accoglierci, la cosa più difficile appunto è stata parlare con i produttori.

Cristina: Perché non sono disposti ad essere parte della soluzione?

Simone Farresin: Probabilmente perché è molto complesso in questo momento investire risorse economiche per cambiare veramente le cose invece di semplicemente fare dei piccoli passi avanti che vengono usati simbolicamente come sistema pubblicitario invece che di reale interesse per il riciclo di questi prodotti.

Cristina: Voi avete una soluzione a tutte, qual è?

Andrea Trimarchi: Una delle più probabili soluzioni potrebbe essere di organizzare tavoli dove i vari attori del sistema produttivi, dai produttori di elettronica ai riciclatori e ovviamente anche designer, possano incontrarsi su queste tematiche.

Cristina: Sembra assurdo, questo non avviene già?

Andrea Trimarchi: Purtroppo no, anche in ambito legislativo spesso vengono messi insieme i riciclatori e anche i produttori, ma la maggior parte delle volte, noi designer che siamo quelli che trasformano le materie prime in oggetti, non facciamo parte di queste riunioni.

Cristina: Il design può e, in questo caso, ha un ruolo politico, lasciamoci ispirare.

In onda 30-3-2019

Tools for future-proof development

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È stato emozionante e arricchente assistere allo sviluppo di Broken Nature. Paola Antonelli ha creato un ecosistema di scienziati, ricercatori, designer, pensatori, innovatori e attivisti che si interconnettono per “promuovere l’importanza delle pratiche creative nel rilevare i legami della nostra specie con i sistemi complessi del mondo e progettare riparazioni quando necessario, attraverso oggetti , concetti e nuovi sistemi”.

Ho partecipato ai 2 simposi che hanno dato il via alla mostra di 6 mesi alla Triennale di Milano a partire dal 1 ° marzo, e ho letto, con grande piacere, i saggi pubblicati su brokennature.org, dove spesso trovo ciò che manca nella maggior parte delle indagini e discussioni su i nostri rapporti con la natura (in tutte le sue forme): un approccio olistico e integrativo. Così, quando sono stato invitata a conversare con la giovane giornalista e ricercatrice Sara D’Agati, per il sito web, mi sono sentita profondamente grata e gratificata.

Sara e io ci siamo trovate così bene che dopo un incontro di 3 ore, ne abbiamo programmato un altro. L’esperienza mi ha rassicurata. Impegnandosi in un dialogo aperto e approfondendo l’abbondanza di idee e pratiche, c’è un filo comune che può promuovere con successo una collaborazione mondiale per aiutare l’umanità a evolversi verso l’Era della Conoscenza. Abbiamo tutte le informazioni di cui abbiamo bisogno, deve solo essere organizzato ed esposto in modo organico.

Il design riguarda la comunicazione – a questo effetto Age of Entaglement di Neri Oxman è una lettura obbligata – e se possiamo fornire fatti ampiamente accessibili, offrire scelte attraverso storie, esperienze e cose che provengono dal desiderio di ripristinare, potremmo avere una possibilità . Sono onorata di avere una voce in questa arena e non vedo l’ora di imparare dal cast impressionante di personaggi che Paola sta orchestrando. Grazie! Siamo qui e siamo pronti.

Per leggere la conversazione su brokennature.org, clicca qui.

Ramuntcho Matta, Terra e Cielo per A Passo Leggero, 2014.

Jamer Hunt, designer senza confini

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Docente di Transdisciplinary Design alla New School di New York e autore di saggi sull’impatto del design nelle nostre vite, Jamer Hunt ha una formazione da antropologo. Nel 2009 ha fondato (e diretto fino al 2015) il corso di Transdisciplinary Design alla Parsons School of Design di New York. È docente all’Institute of Design a Umeå, in Svezia. Con Paola Antonelli, curatrice di Architettura e Design al MoMA ha ideato il progetto Design and Violence. Nel 2006 ha co-fondato DesignPhiladelphia e nella stessa città ha coordinato il recupero di Hawthorne Park. Il tutto con una convinzione: i problemi complessi si risolvono collettivamente.

L’INTERVISTA A JAMER HUNT SU THE GOOD LIFE ITALIA

Ha la tempra e il fisico del maratoneta e una mente che prospera nella diversità. Antropologo di formazione, Jamer Hunt è entrato nel mondo del design grazie a una serie di coincidenze e sta aprendo orizzonti nuovi su un mestiere che non si occupa solo più di cose ma di sistemi – industriali, territoriali, sociali – e ovunque serva analizzare problemi e concepire soluzioni. Quando nel 2009 ha creato e poi diretto il nuovo Master in Transdisciplinary Design alla Parsons’ School of Design di New York, il titolo era soggetto alle interpretazioni più disparate. “Avviare il programma è stata una grande sfida” racconta, nel giardino della Triennale, dopo una riunione del team curatoriale di Broken Nature, (marzo-settembre 2019, curatrice Paola Antonelli). “Stavamo cercando di prevedere dove andasse l’industria e se i nostri studenti avrebbero trovato lavoro. All’inizio abbiamo insistito che tutti i progetti fossero collaborativi e la ragione, in parte, era di allontanare i ragazzi dalla nozione del designer eroico. Ci sembrava che i problemi, sempre più complessi, non potessero più essere risolti da singoli, bensì collettivamente. Abbiamo verificato sul campo che più gli studenti prendevano le distanze dalla posizione egocentrica del progettista, più si consolidava il legame di gruppo, che ho sostenuto anche fuori dalle aule con cene e momenti di socializzazione. In poco tempo sono diventati solidali, aiutandosi, sostenendosi e scambiando conoscenze. Il risultato è che quando si sono laureati e sono entrati nel mondo del lavoro, si sono facilmente integrati, portando spirito di squadra e adattabilità. Assunti in aziende come designer, in breve tempo hanno contribuito a riprogettarne la cultura, raggiungendo traguardi inaspettati. Comprendendo, durante il corso, le dinamiche interpersonali, hanno maturato un’intelligenza organizzativa. Inizialmente le ambizioni e la preparazione degli studenti erano disallineati con le organizzazioni che li reclutavano. Erano giovani d’età ma maturi per sensibilità, competenza e creatività, però nessuno era disposto ad affidare pianificazioni strategiche a quadri di primo livello. Poi, qualcosa di radicale è cambiato. Organizzazioni quali la Banca Mondiale,il Governo Federale degli Stati Uniti o le scuole pubbliche a Detroit, che non avevano mai pensato di assumere designer, hanno capito che non sono solo utili per rifare l’atrio.” Con soddisfazione Hunt ha visto crescere le opportunità d’impiego per i suoi laureandi. Nel 2016, il programma è consolidato, la sinergia tra studenti e docenti produce progetti notevoli e Hunt, sentendo di non avere nulla da aggiungere, decide di prendere un anno sabbatico lasciando la direzione a Lara Penin, laureata al Politecnico di Milano. La pausa serve a lui e al suo ateneo per capire che il processo avviato è importante e che può continuare in altri corsi: “Il mio nuovo ruolo è Provost per le Iniziative Transdisciplinari – riuniamo studenti di diversi programmi e facoltà. E’ un modo di insegnare che non ha precedenti, attraverso dinamiche co-creative in cui anche i docenti impararano.”

È consueto per Hunt lavorare fuori dagli schemi. Sarà anche per questo che ha collaborato in diverse occasioni con Paola Antonelli. Il loro esperimento curatoriale Design and Violence, durato 2 anni (2013-2015), ha messo in questione il ruolo del design, del designer e del curatore gettando luce sulle nuove e sottili forme di violenza nella società contemporanea. “Abbiamo voluto mettere in discussione i valori eccessivamente ottimisti e l’idea che il design abbia creato solo cose positive”, racconta con il ritmo di chi ama esplorare le proprietà delle parole. “Può fare anche molti danni e una comunità matura dovrebbe essere in grado di avere conversazioni su questo. Portare la mostra online ha creato un’apertura sorprendente e ci sono state diverse conversazioni che hanno cambiato prospettive su ruoli e significati. Non sono mancate sorprese. Un progetto che Paola ed io postammo su come macellare umanamente il bestiame aveva generato tanti commenti e animate discussioni sull’etica di uccidere e mangiare animali. Il nostro ultimo post, sul cocktail chimico somministrato ai condannati a morte, attraverso un’intervista a un uomo che dopo 30 anni fu trovato innocente e che raccontava la sua esperienza nel braccio della morte, ebbe 3 commenti.”

Nel corso della conversazione il nesso tra la formazione di Hunt come antropologo culturale e il suo lavoro attuale appare sempre più chiaro. “Ci sono due cose che mi interessano davvero del design: poetica e politica. Progetti come Design and Violence e Broken Nature ci permettono di riflettere sull’impatto del design nel quotidiano. Sto scrivendo un libro sulla nostra incapacità di cimentarci con l’entità dei problemi nel mondo, e credo che abbiamo bisogno di modi radicalmente nuovi per affrontarli. Sono problemi a cui tutti contribuiamo, ma in maniera difficili da tracciare. Con Broken Nature speriamo di sfidare il sistema, il potere, l’agire e l’autorità che ci hanno portato dove siamo come società umana.”

Qual è l’impatto di un cittadino quando i problemi sono di scala globale? Serve ancora riciclare quando urge ripensare a come progettiamo produciamo consumiamo e smaltiamo le nostre cose?

Quale sarà la sintesi di un team curatoriale che viene dall’Africa, l’Asia, e le Americhe su Broken Nature (Natura Rotta)? “Noi occidentali abbiamo nozioni strette su natura, cultura, umano, artificiale che devono essere trascese, contestate e ripensate,” risponde Hunt. ”E poi, Natura Rotta da chi? Cos’è la natura? Vogliamo parlare di riparazioni? Perché sottintende che ci sono crimini, e allora chi li ha commessi? Chi ne ha beneficiato? Sono questioni esplosive e il design è tradizionalmente a-politico. Microbi, procioni e maremoti che parte hanno? Cosa succede se togliamo la centralità all’uomo e lo mettiamo in competizione con l’ecosistema che crede di dominare? La natura ha molte soluzioni, dobbiamo solo ascoltarle. Ci stiamo ponendo quesiti difficili e mi affascina in questo processo trovare un equilibrio tra le riflessioni accademiche sul significato filosofo ed epistemologico di Broken Nature, il fatto che saremo in mostra tra 8 mesi (6 per chi legge!) e che la maggior parte del mondo non è interessato a quella conversazione. Nel contempo amo la poetica, il design brillante, bello, gioioso, che stupisce.” Jamer Hunt è un pensatore laterale e quando è ispirato produce inusuali associazioni d’idee. Per dare il suo meglio deve poter spaziare: “quando sono troppo occupato e concentrato sui compiti, divento meno interessante.”

Una carriera affascinante, in piena evoluzione, nata dall’incontro con un amico di un amico, Tucker B. Meister, e da una comune passione per i Simpson. Ha creato Design Philadelphia, una delle più importanti mostre del suo genere negli Stati Uniti e, ancora una volta, da un incontro casuale, è nata Hawthorne Park, area verde che ha restituito dignità a un’area disagiata della città. Ha collaborato con Sciences Po sul progetto Occupy Earth, aiutando gli studenti a capire come dare una voce e un ruolo a creature non umane per riconoscere l’importanza della natura sulla Terra.

Un uomo tanto aperto al dialogo quanto schivo  in rete e addirittura assente dai social media. Perché? “Nei primi anni 2000 quando i social iniziavano a crescere, avevo la sensazione di conoscere già abbastanza persone e non sentivo il bisogno di allargare il cerchio. La mia vita era già abbastanza complessa. Ho due figli, facevo il pendolare, avevo una comunità a New York e una a Philadelphia, quindi ho pensato di non voler aggiungere un altro strato di socializzazione. Poi, la decisione casuale di non essere iscritto a Facebook è diventata una posizione e persino un gesto politico. Piuttosto che essere l’ultimo a iscrivermi, aspetto che crolli, poi potrò essere il primo ad accedere al prossimo social media. Mi piacerebbe essere più presente su Twitter, ma mi è difficile trovare la giusta voce e il giusto tempo, l’energia e la leggerezza per progettare il mio brand personale. Ho un sito, posto su Instagram perché mi piace molto fare fotografie, ma in generale ho un rapporto strano con i social. Quando uscirà il mio libro dovrò diventare più sciolto e proattivo! Mia figlia, che ha 18 anni, può postare mille cose al giorno perché non si preoccupa del singolo contenuto, mentre io, che non lo faccio spesso, ritengo che ogni post sia importante e mi preoccupo troppo di farlo bene….”

Design ricostituente e piante

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Al primo Forum Mondiale sulle Foreste Urbane,

che si è tenuto a Mantova dal 28 novembre al 1 dicembre, ho avuto il piacere di moderare 2 persone che mi nutrono molto con la loro conoscenza. Paola Antonelli ha presentato Broken Nature: Takes on Human Survival, per la XXII Triennale di Milano, che dall’1 marzo 2019, animerà il capoluogo lombardo per 6 mesi. La mostra aprirà con la stanza del cambiamento, tema che ricorre in tutti i lavori della curatrice milanese, e finirà con la stanza dell’empatia e dell’amore. L’intento è di stimolare riflessioni e azioni di riparazione per stabilire un nuovo equilibrio con la natura.

Stefano Mancuso sarà il curatore della Nazione delle Piante, considerata alla stessa stregua delle altre Nazioni. Come ricorda lo scienziato, è di gran lunga la più abitata. Il 99,6% di ciò che è vivo appartiene al mondo vegetale, capace di fare la fotosintesi. Entrambi i relatori sono d’accordo che siamo avviati verso la sesta estinzione. Il ruolo del design, per Antonelli, è di aiutarci a estinguersi dignitosamente, con stile. Mancuso sorride, definendolo un approccio “dandy”. E incalza dicendo che estinguendoci dimostreremo che il nostro cervello, centrale di comando con poteri su tutto il nostro essere, non è un vantaggio dal punto di vista evolutivo. Per contro, le piante, che hanno un’intelligenza diffusa, sono molto più resilienti e adattabili.

Alla domanda: dove trovate gli stimoli più interessanti, Antonelli ha risposto: nei bambini, perché sono schietti e aperti. Mancuso, invece, ha risposto: in Giappone, perché c’è più rispetto per la natura.

Si è parlato di una necessaria integrazione tra il sapere e il sentire, ma per uomini di scienza è un terreno ancora “sospetto” e poco praticato. Mai come oggi è importante l’interdisciplinarietà.

Paola Antonelli, Dal MoMA alla Casa Bianca

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È stato un onore sondare nella mente fervida ed elastica di Paola Antonelli, raccontare la sua bellissima traiettoria umana e professionale.

Ecco un profilo a tutto tondo della donna che  è stata ospite a La Casa Bianca da Barack e Michelle Obama con il Premier Matteo Renzi e una delegazione scelta per dialogare attorno alle soluzioni possibili per vincere sfide globali quali cambiamento climatico e migrazione.

L’INTERVISTA A PAOLA ANTONELLI SU THE GOOD LIFE ITALIA 

Tanti bimbi sognano di fare l’astronauta da grande, ma quanti scrivono alla NASA per chiedere come fare? A 13 anni, con la prima carie, Paola Antonelli sa che non potrà volare nello spazio. Alla sua lettera avevano risposto dicendo: continua a fare la brava, abbi cura di te, e soprattutto dei denti (le otturazioni del tempo rischiavano di esplodere con il cambio di pressione). Con i piedi per terra, e con la mente curiosa e aperta, varcherà terreni inesplorati. Figlia degli anni Settanta, anni di piombo e di appassionate battaglie, inquietudine e rabbia diventano stimoli intellettuali che plasmano il suo carattere. “Sto meglio quando ci sono problemi, quando c’è da protestare”, racconta. “Sento di avere una funzione.” Dietro al volto sorridente e lo sguardo svelto, arde un desiderio inestinguibile di rompere barriere, allargare confini e significati del design, mettere in relazione. Paola Antonelli, senior curator di Archtettura e Design e direttore di Ricerca e Sviluppo al MoMA – Museum of Modern Art di New York, sradica preconcetti e getta ponti tra i diversi saperi. Approdata 22 anni fa al prestigioso museo rispondendo a un annuncio, ama provocare con le mostre che cura nelle gallerie e online e con gli incontri che organizza invitando i più autorevoli esponenti dei diversi saperi a confrontarsi. Perché design non è più solo una bella sedia, è un crocevia in cui confluiscono tecnologia, economia, scienza e creatività.

Ci incontriamo a New York, la mia città natale, la sua adottiva. E’ domenica, io sto partendo e lei è appena arrivata da un tour europeo, a conclusione di un periodo sabbatico. Ultima tappa, Copenhagen, invitata da INDEX per il lancio del primo fondo al mondo di venture capital che investirà 40 milioni di Euro nel “design che migliora la vita delle persone”. La collaborazione tra INDEX, organizzazione che ispira, educa e coinvolge persone a disegnare soluzioni per le sfide globali, con la casa di investimenti Dansk OTC, è un passo importante. Paola Antonelli, con un intervento definito illuminante, illustra come il design stia creando valore nel mondo. E lo fa spiegando le nuove tassonometrie, ossia le classificazioni dei temi, non più per argomento, ma per oggetto, bisogno, o emozione. Una lettura trasversale attorno a esperienze quotidiane, dai problemi sociali, ambientali, politici e di salute che toccano tutti noi. “E’ una soddisfazione facilitare conversazioni tra persone con esperienze e punti di vista diversi”, racconta Paola con una punta d’orgoglio. “Basta avviare il processo poi il resto accade da solo.”
Prima della Scandinavia, è stata in Svizzera, a Davos, dove da 10 anni partecipa al Word Economic Forum come esperta di design e cultural leader: “Ci confrontiamo tutto l’anno, poi, durante l’evento si lavora sodo.” Il tema, la Quarta Rivoluzione Industriale, è pane per i suoi denti. “Quest’anno ho avuto 7 ruoli diversi. Ho parlato del bio-design, quello che usa materia organica per costruire spazi e oggetti, ho moderato una presentazione sulle tecnologie digitali per la preservazione e la disseminazione dell’arte e ho animato una cena sul futuro del cibo. A Davos sono un cervello da sfruttare e conosco sempre persone straordinarie.” La galleria di personaggi è fantastica, un mix di culture, di politici, magnati, artisti, scienziati. Conosce il suo mito Fabiola Giannotti, presidente del CERN, partecipa a interventi illuminanti, come quella di Jennifer Doudna, fondatrice di Krispr, sulle nuove prospettive di cura del cancro con le terapie geniche, prova esperienze trasformanti, come quella di Realtà Virtuale di Clouds Over Sidra, girato nel campo profughi di Za’atari in Giordania dove quasi 100.000 siriani soprattutto bambini, sognano di tornare a casa.
Il viaggio a ritroso nel periodo sabbatico di Paola ci porta a Harvard, dove il semestre scorso ha insegnato States of Design presso la Graduate School of Architecture, un’indagine sui nuovi significati, le confluenze, le ambiguità e le convergenze del design. “Alla fine del corso ho cercato di distillare il lavoro in una “teoria del tutto” per il design,” spiega Antonelli. “La chiave sta nella fluidità, nel non avere idee precostituite, bensì essere capaci di adattarsi alle circostanze. Con gli studenti sono maturati concetti e idee. Ora la sfida è di trasformarli in applicazioni pratiche.”
Antonelli frequenta designer, economisti, ricercatori e imprenditori, si ciba di conoscenza ai massimi livelli del sapere, elabora e porta tutto al nostro livello, al rapporto che abbiamo con le cose. E arriviamo al luglio 2015. MIT Media Lab (di cui è membro dell’advisory board ) la invita a progettare il primo summer summit. Lei struttura il suo seminario attorno a 4 oggetti, anziché per materia. La bistecca, il bitcoin, il mattone e il telefono diventano chiave d’indagine nel nostro tempo, toccando ogni aspetto dell’esperienza umana; Knotty Objects, oggetti annodati in un groviglio di significati. “Ho capito, facendo presentazioni sul design del futuro, che il modo migliore per diventare fluidi è di cambiare le tassonomie. Creare convergenze tra le cose, in orizzontale, non in verticale. Questo approccio sta crescendo anche in accademie e musei, quale il Science Gallery di Dublino, dove le sezioni espositive ed educative sono intersecate e raggruppate attorno a esperienze invece che epoche o specialità.”
Sempre più la tentacolare, Antonelli raduna persone di paesi e ambienti diversi, stupita ogni volta dalla magia che si crea. Alla domanda su quale impatto abbia avuto il suo seminario all’MIT racconta: “Hanno deciso di reclutare 3 persone che si occupino di design e sono stata invitata a parlare a tutti i presidi delle facoltà di MIT sull’importanza del design.” La sua voce è in levare, gli occhi brillano. Paola Antonelli apre sentieri, indaga. Segue con passione il lavoro della ricercatrice Neri Oxman, architetto. La sua intuizione è geniale: cooptare la natura per costruire. Nel Padiglione della Seta, per esempio, i bachi diventano operai, creando un bio feedback che consente al progetto di avanzare sia concettualmente sia costruttivamente.
Stravolgere le regole di forma e significati è una pratica che Antonelli allena al MoMA sin dagli inizi. Per la sua prima mostra, Mutant Materials in Contemporary Design, del 1995, vuole un sito web. “Nessuno sapeva cosa rispondermi, o chi dovesse autorizzarlo,” ricorda. “Mi diedero $340 che usai per andare alla School of Visual Arts dove imparai a scrivere codici. Il sito me lo sono fatto io.” Da quel seme nasce il primo sito del Museum of Modern Art.
La tempra forgiata dai passi laterali che Antonelli deve compiere per far avanzare le sue idee, la porta, nel 2005 a curare la prima grande mostra di design nel nuovo MoMA di Roshio Taniguchi: SAFE: design takes on risk. 300 prototipi e oggetti per proteggere il corpo e la mente in situazioni di emergenza, pericolose o stressanti. “Un design che va mano nella mano con i nostri bisogni, offrendo sicurezza senza sacrificare innovazione e invenzione”. Mine Cafron, la sfera antimina di bambù, abbastanza leggera per rotolare nel vento e abbastanza pesante per far esplodere le mine, è un pezzo icona per descrivere quel design in cui si fondono senso, equilibrio e bellezza.
Con Design and the Elastic Mind, nel 2008 Antonelli esplora la mutazione dell’oggetto e il cambiamento di comportamenti e bisogni umani causati dalle tecnologie.
Definita molto strana dal New York Times, la mostra crea stupore e disagio anche alla curatrice, quando Victimless Coat un piccolo cappotto confezionato in tempo reale da cellule staminali di topi, inizia a crescere esponenzialmente. Per evitare che si deformi, sono costretti a spegnere l’incubatrice in cui è esposto. In cui vive! Uccidere il cappotto cambia così il significato dell’opera. Anche le cellule possono essere vittime.
Per sottolineare quanto il design del XXI secolo si sviluppi sempre più attorno all’interazione tra noi e le cose, sia in forma materica, che subliminale e de-materializzata, Antonelli porta al MoMA Talk to Me: Design and the Communication between People and Objects (2011) “Comunico dunque sono è l’identità del nostro tempo e delle nostre cose, scrive nel compendio alla mostra, “Oggetti e sistemi, un tempo erano pregni di eleganza formale ed efficiente funzionalità, ora devono avere anche una personalità.” Ecco che design è anche messaggio, scritto, disegnato, multimediale e multiforme. Nel museo entrano processi e sistemi, come software, quali Pitch Initiatives, una piattaforma interattiva per raccogliere e mostrare il flusso di donazioni alla campagna di Barak Obama nel 2008. Questo potente esempio di communication design visualizza il fenomeno più sorprendente della campagna: il 90% dei contributi erano da piccoli donatori. Oppure Antiwargame, videogioco online dove, nel ruolo di Presidente degli Stati Uniti, devi combattere il terrorismo senza perdere popolarità. Il design è nel sistema di elaborazione dati, nel linguaggio, e nell’interazione coi nostri cervelli e i nostri valori.
Nella meravigliosa impalcatura mentale di Paola Anotnelli, ogni idea resta e si sviluppa nel tempo. Sarà pubblicato a breve un suo saggio Do Humans Dream of Robotic Seals? Gli umani sognano foche robotiche? La curiosità di indagare meglio la comunicazione uomo-oggetto la porta in Giappone (sempre durante il suo sabbatico!) da Maholo Uchida,curatrice del Miriakan, il museo nazionale di scienze nuove e innovazione a Tokyo. Due donne appassionate di tech e design, attraversano la Uncanny Valley quel campo in cui si studia l’interazione uomo-robot. L’attrazione diventa repulsione quando riconosciamo l’artificiale troppo simile a noi, ma ciò accade a livelli diversi, secondo le culture. Quella giapponese abbraccia più spontaneamente la robotica, mentre noi occidentali, scrive Antonelli nel saggio, “preferiamo interfacce funzionali e addomesticabili, che siamo certi, resteranno al loro posto. Vogliamo imparare da loro, ma vogliamo essere serviti.”
Il twitter name di Paola Antonelli è curiousoctopus, e non potrebbe essere più azzeccato. E’ proprio una piovra curiosa, e incuriosisce. Parlando del potere della bellezza, un segno di rispetto per l’essere umano e uno strumento efficace per comunicare e connettere le persone, fa l’esempio di Windmap, la mappa interattiva dei venti di Fernanda Viégas e Martin Wattenderg, pionieri della data visualization e analytics. Che tu abbia 3 o 85 anni capisci come girano i venti. E’ immediato e bellissimo da vedere.
Lo spazio in queste pagine non basta a racchiudere il vasto universo di Paola Antonelli, ma sul web potrete seguire il filo del suo ricco e stimolante discorso, dai Salons, a esperimenti curatoriali quali Design and Violence, mostra e simposio per aggiornare la nostra comprensione della violenza. Nell’anteprima della sua pagina Wikipedia leggiamo Lombard ancestry. Dunque finiamo a Milano, che si appresta a ospitare il Salone del Mobile (12-17 aprile). Anche qui, da sempre, lei è di casa.
“Doverebbe diventare la settimana del design. Il mobile, da solo, non ha abbastanza futuro. Vedo l’opportunità di creare un polo di comunicazione che ancora non esiste e che abbracci anche la città, non solo per esporre ma anche per progettare insieme. Sedie o mobili belli ne vedo pochi all’anno, mentre esempi di bio-design o commiunication design mi emozionano continuamente”, conclude.
Definita da Art Review una delle 100 persone più influenti nel mondo delle arti, c’è da darle retta. Anche perché crede nella Sesta Estinzione, ma merita elevare la reputazione dell’essere umano lasciando una buona impressione a chi arriverà dopo di noi.