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Api, sentinelle di biodiversità

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Occupandomi di sviluppo sostenibile da qualche decennio e concentrandomi su soluzioni alle nostre più grandi sfide, di tanto in tanto mi illudo che questioni trattate più volte abbiano avuto nel tempo un’evoluzione positiva. Credo nella capacità della nostra specie di evolvere verso una co-esistenza rispettosa dei sistemi vitali che ci regalano la vita, ma parlando con Andrea, l’apicoltore dal quale compro sempre il miele, che mi ha presentato Luca e Marco. Grazie a questi ragazzi dedicati appassionati e competenti, ho scoperto che gli impollinatori sono più minacciati che mai. È nata così la storia di questa settimana, e ho avuto conferma di quanto ci sia ancora da fare.
Se conoscete coltivatori di nocciole inoltrate per favore questo servizio. Dialogare con le persone dalle quali acquistiamo prodotti è fondamentale per avere un quadro più realistico dell’impatto di ogni nostra scelta.

Cristina: Oggi è la giornata mondiale della biodiversità, e l’ONU vuole portare la nostra attenzione sulla complessa dinamica che regola la vita sulla terra. La biodiversità è il nostro più grande tesoro e monitorare la sua salute è complicato. Siamo nel Cuneese per incontrare Luca, apicoltore. Luca perché le api sono le più preziose sentinelle di biodiversità?

Luca Bosco: Perché tutto ciò che arriva nell’alveare raccolto dalle api è il frutto di una sinergia tra diverse forme di vita e quindi è frutto della biodiversità dell’ambiente.

Cristina: Le vostre osservazioni cosa vi dicono?

Luca Bosco: Che la situazione delle api, e in generale degli impollinatori, è gravissima. Vediamo molto spesso episodi di morie, avvelenamenti, sui nostri alveari. Purtroppo ritroviamo nelle matrici degli alveari sia gli insetticidi che i fungicidi, sia i diserbanti. Un diserbante in particolare, la molecola glifosato, è particolarmente seria perché il ritrovamento, soprattutto nella matrice miele del nido, miele in maturazione, è un indizio preciso. La molecola che viene irrorata qui può finire ovunque, la ritroviamo nell’acqua, nell’aria, nel suolo quasi per forza perché viene irrorata sul suolo e la ritroviamo anche nel polline delle piante, nel nettare delle piante. Questo è un chiaro indizio che i filtri naturali dell’ecosistema in qualche modo si stanno degradando.

Cristina: Luca quali sono le coltivazioni che vengono più irrorate di queste sostanze ?

Luca Bosco: Qua siamo in zona di viticoltura e di corilicoltura, quindi vite e nocciolo. In questi anni grazie anche al lavoro dell’associazione degli apicoltori, i viticoltori hanno imparato a utilizzare i fitofarmaci in modo oculato, quindi senza dare un problema diretto e grave agli impollinatori. Per quanto riguarda il nocciolo invece il discorso è tutto da fare perché è una coltura nuova e in questo momento le pratiche agronomiche messe in campo lasciano parecchio a desiderare. Sono fonte di avvelenamento diretto, sono in qualche modo anche la causa di quel ritrovamento sistematico all’interno delle matrici degli alveari, soprattutto in questa zona ovviamente. A chi coltiva nocciolo si può rivolgere un appello a, in qualche modo, seguire la strada già intrapresa dai viticoltori.

Cristina: Luca state per fare delle campionature, che frequenza hanno e a cosa servono?

Luca Bosco: Hanno frequenza mensile e servono per andare a indagare l’eventuale presenza di molecole chimiche. L’esperienza ci dice che molto probabilmente ci saranno perché negli anni passati, la loro presenza è stata purtroppo molto assidua. Sappiamo che queste molecole sono dannose per l’ape, anche per la loro capacità – in qualche modo singolare – quella di depurare le matrici ambientali assorbendo nei loro corpi le molecole chimiche, a loro discapito ovviamente, ma andando a preservare soprattutto il miele. Il miele, in qualche modo, è sempre risultato pulito.

Cristina: È fenomenale. Questi dati li incrociate con altri?

Luca Bosco: Questi dati li incrociamo con altri monitoraggi che vengono effettuati nella zona, in particolare modo con quelli effettuati sul fiume Tanaro, che potete vedere proprio qui vicino, e i due monitoraggi confermano la stessa cosa, la presenza ubiquitaria delle molecole chimiche.

Cristina: Grazie Luca. Questa storia tocca tutti e 17 gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile. E noi che cosa possiamo fare? Dialogare il più possibile con apicoltori, capire le criticità del nostro territorio e proteggerlo in ogni modo possibile. Conviene a tutti. Occhio al futuro

In onda il 22-5-2021

Biova – la birra da economia circolare

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Ispirandosi agli egizi, e motivati a fare del bene, Franco Dipietro e i suoi collaboratori hanno azzeccato una ricetta doppiamente buona: utilizzano pane invenduto – e ce n’è davvero tanto, ogni giorno, nel nostro paese – facendo una birra che è veramente buona. Per trasformare un’idea in realtà, occorrono piglio imprenditoriale, accurata conoscenza delle leggi e una filiera organizzata. Loro l’hanno fatto. Aspettiamo di trovare Biova in tutta Italia e di apprezzare 20 gusti diversi.

Cristina: Facendo i volontari per recuperare avanzi di cibo da destinare ai bisognosi, un gruppo di giovani ha toccato con mano lo spreco, del pane in particolare, pensate, ogni giorno in Italia ammonta a 1.300 tonnellate. Di lì l’idea di trasformarlo. Siamo venuti a Torino per raccontare la loro storia. Buongiorno Franco, cosa fate con il pane?

Franco Dipietro: Noi recuperiamo il pane invenduto a fine giornata e lo trasformiamo in birra, 150kg di pane in 2.500 litri di birra artigianale. Questo è il nostro modo di dare nuovo valore a qualcosa che altrimenti sarebbe uno scarto.

Cristina: Come lo recuperate?

Franco Dipietro: Noi abbiamo messo a punto un nostro protocollo, lo recuperiamo a fine giornata prima che diventi tecnicamente scarto. Lo portiamo in dei centri che sono stati studiati da noi che chiamiamo proprio “del trattamento del pane”, dove lo essichiamo, lo maciniamo e lo rendiamo disponibile per essere un nuovo ingrediente. Quindi andare in questo caso a sostituire il malto d’orzo per fare della nuova birra. Oltre che recuperare un invenduto e uno scarto andiamo a risparmiare sull’utilizzo di una materia prima, fino al 30%, fino al 50% con le nostre nuove ricette che stiamo studiando di risparmio di materia prima.

Cristina: Pensate di poter produrre in tutta italia?

Franco Dipietro: È una filiera possibile, abbiamo studiato noi un modello che ci permette di replicare questa possibilità in tutta Italia. Noi cerchiamo sempre di avere dei nostri posti di raccolta vicino a dei birrifici esistenti che attiviamo, portando in giro solo le nostre ricette. Quindi riusciamo anche a non far viaggiare troppo lo scarto proprio per limitare le emissioni e i costi collegati.

Cristina: Quindi fermentate sempre localmente?

Franco Dipietro: Esattamente, produrre proprio la birra localmente nei vari birrifici che nel corso degli ultimi anni sono aumentati moltissimo in tutta Italia e lavorano anche conto terzi. Quindi possiamo andare a cuocere, si dice tecnicamente, in vari posti in Italia.

Cristina: Quindi ogni regione darà il suo gusto..

Franco Dipietro: È molto interessante perché chiaramente il pane da un gusto caratteristico alla birra, quindi a secondo della regionalità del pane, il gusto della birra cambia. Questo è anche molto divertente da provare sulla nostra birra.

Cristina: Per voi è stato proprio un cambio di vita questo..

Franco Dipietro: Molto, ci siamo accorti come il pane sia un problema molto difficile da gestire. Costa poco ed è comunque troppo anche per essere ridistribuito. In Italia si sprecano quasi due campi da calcio interi di pane ogni giorno, quindi fare qualcosa contro lo spreco alimentare è sicuramente un modo per garantirci un futuro più sostenibile.

Cristina: Questo progetto di economia circolare adempie agli SDG 12 e 13. Celebriamo questa bellissima soluzione per ridurre lo spreco alimentare con un bel brindisi! Occhio al Futuro!

In onda il 20-6-2020

Environmental Performance Index 2024

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Environmental Performance Index (EPI) è un rapporto biennale che da 25 anni viene redatto da ricercatori da ricercatori delle università di Yale e Columbia.

L’Environmental Performance Index (EPI) è un rapporto biennale che da 25 anni viene redatto dai ricercatori delle università di Yale e Columbia. La sua longevità, la metodologia rigorosa e la qualità dei dati — raccolti dai migliori enti di ricerca internazionali — fanno dell’EPI il riferimento più autorevole per analizzare e confrontare le politiche ambientali nel mondo.

Nell’edizione 2024, pubblicata a inizio giugno, sono state introdotte nuove metriche per valutare la riduzione delle emissioni di gas serra (GHG), la gestione delle aree protette e la capacità degli stati di raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi e del nuovo Global Biodiversity Framework.

Il report ha valutato 180 paesi attraverso 58 indicatori suddivisi in 11 categorie, raggruppate in tre obiettivi principali:

  • mitigazione dei cambiamenti climatici (30% del punteggio),

  • salute ambientale (25%),

  • vitalità degli ecosistemi (45%).

L’Italia nel 2024: miglioramento netto, ma non basta

Nel 2024 l’Italia si è classificata al 29° posto con un punteggio di 60,3 su 100, in crescita di circa +4 punti rispetto a dieci anni fa. Un risultato in miglioramento, ma ancora inferiore alla media dei paesi occidentali comparabili, nonostante sia superiore alla media globale.

Salute ambientale: progressi costanti

Con un punteggio di 64,2, l’Italia si posiziona al 36° posto per quanto riguarda la salute ambientale, che include qualità dell’aria, accesso all’acqua potabile, metalli pesanti e gestione dei rifiuti.
Spiccano:

  • una qualità dell’aria eccellente (28° posto, 89,5 punti),

  • e risultati eccezionali nella riduzione delle emissioni di NO₂ e SO₂, dove l’Italia è prima al mondo in termini di progresso rispetto agli obiettivi.

Resta però critica la gestione dei rifiuti urbani, con un’elevata quantità prodotta pro capite e tassi di recupero inferiori alla media UE.

Ecosistemi: bene acqua e agricoltura, male pesca e biodiversità

La vitalità degli ecosistemi (62,8 punti, 36° posto) mostra segnali contrastanti.

  • L’Italia ottiene buoni risultati nella gestione delle risorse idriche e nell’efficienza agricola (soprattutto nella gestione dell’azoto).

  • Tuttavia, la situazione è preoccupante nella sostenibilità della pesca, dove il paese si piazza al 124° posto, e nella tutela della biodiversità e degli habitat naturali, con un modesto 53° posto e un peggioramento dell’indicatore legato alle specie minacciate (Red List Index).

Mitigazione climatica: lontani dagli obiettivi di Parigi

Sebbene l’EPI 2024 non fornisca un punteggio disaggregato per ogni paese in questa categoria, le analisi indicano che nessun paese al mondo — Italia inclusa — sta decarbonizzando a un ritmo sufficiente per rispettare gli obiettivi dell’Accordo di Parigi.
Il Climate Change Performance Index (CCPI) 2024, un indice complementare focalizzato esclusivamente sulle emissioni, ha collocato l’Italia al 44° posto, in netto calo rispetto al 29° posto del 2023.

I migliori al mondo

La top 5 della classifica 2024 è guidata da:

  1. Estonia

  2. Lussemburgo

  3. Germania

  4. Finlandia

  5. Regno Unito

La Danimarca, che nel 2022 era al primo posto, è ora decima. Gli Stati Uniti d’America si trovano al 34° posto, penalizzati da politiche ambientali e climatiche non sufficientemente ambiziose.

Cosa ci insegna il rapporto EPI

Consultare questo tipo di report è utile per comprendere come politiche pubbliche efficaci, investimenti in infrastrutture sostenibili, la preservazione delle risorse naturali e il coinvolgimento della società civile siano determinanti nel miglioramento delle performance ambientali.

I paesi che ottengono risultati migliori — come Estonia o Lussemburgo — presentano buone pratiche di governance, obiettivi chiari di riduzione delle emissioni, una tutela attiva della biodiversità e strumenti normativi avanzati. L’Italia, pur mostrando segni di miglioramento, ha ancora margini notevoli su cui lavorare, specialmente in tema di decarbonizzazione, biodiversità e sostenibilità ittica.

Fonti dei dati EPI

I dati dell’EPI provengono da fonti di massimo rilievo scientifico come:

  • Institute for Health Metrics and Evaluation

  • World Resources Institute

  • Potsdam Institute for Climate Impact Research

  • CSIRO

  • FAO – Food and Agriculture Organization

  • World Bank

  • Sea Around Us Project – University of British Columbia

Risorse aggiuntive

Fashion Revolution, l’insostenibilità sociale ed ambientale della moda

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È complesso in ogni ambito della vita onorare bisogni e soddisfare piaceri. Vestirsi è sia una cosa che l’altra ma per far si che il piacere dei consumatori non arrechi danni alle persone e all’ambiente occorre maggiore coscienza.

Cristina: Vestirsi è un bisogno primario, ma ciò che indossiamo, è spesso il risultato di pratiche insostenibili. I prezzi bassi della moda veloce hanno un costo alto per le persone che la confezionano e per l’ambiente, ma il gioco vale la candela? Un capo nuovo viene usato in media solo 7 volte!!! Servono leggi più efficaci, ma anche maggiore consapevolezza da parte dei consumatori, è dimostrato che quando siamo informati, compiamo scelte più responsabili. Marina, tu sei portavoce per l’Italia del movimento Fashion Revolution. In che modo state facendo breccia nel sistema moda?

Marina Spadafora: Fashion Revolution, che esiste dal 2013 quando crollò il Rana Plaza in Bangladesh uccidendo più di mille persone, è nato dicendo “chi ha fatto i miei vestiti? who made my clothes?”. Ci sono 70 milioni di persone che lavorano nella filiera della moda, la maggior parte non viene pagata il giusto e quindi non si può permettere di vivere in maniera decente ed è per questo che fanno lavorare anche i bambini. Quindi ci vogliono leggi molto forti, un movimento di consumatori che richieda vestiti fatti con dignità e rispettando l’ambiente. Solo con queste due forze riusciremo a cambiare l’industria della moda e avere una vera rivoluzione.

Cristina: E adesso incontriamo Matteo che è designer, attivista, educatore.

Matteo Ward: Vedi Cristina, c’è il vintage e poi c’è l’innovazione invece.

Cristina: Fammi vedere cos’hai.

Matteo Ward: Per esempio qui abbiamo capi tinti con polvere di grafite riciclata, esempi di upcycling, tinture con mattoni tritati, ecco queste sono un manifesto dei processi produttivi a ridotto impatto ambientale, ma trasformano anche un prodotto in un servizio per rispondere ad alcune tra le più pressanti e reali esigenze dell’umanità. Poi siccome non è semplicissimo, mi rendo conto, trovare tutti questi prodotti sul mercato già oggi nei negozi, esistono oramai piattaforme come questa che facilitano i consumatori la scoperta di prodotti funzionali a quello che vogliono o che gli serve, ma soprattutto allineati con i loro valori sociali ed ambientali. Basta mettere nel motore di ricerca “magliette in cotone organico” e ti vengono fuori tutti i prodotti dei vari brand che già li sviluppano in giro per il mondo.

Cristina: Fantastico. Quindi è diviso per tipo diciamo?

Matteo Ward: Per tipologia, materiale, funzionalità che ricerchi in un capo.

Cristina: Grazie Matteo. Si stima che, in questo decennio, il comparto moda e calzature crescerà dell’81%. Cresceranno però anche i consumi di risorse naturali – l’acqua usata ogni anno per fare i nostri vestiti soddisferebbe i bisogni primari di 5 milioni di persone. E aumenterà l’inquinamento – pensiamo a microplastiche, sostanze chimiche e abiti dismessi di cui solo l’1% viene riciclato. La moda sostenibile adempie agli SDG 8, 9, 10, 12 e 13. Dai sondaggi, la gente è pronta a cambiare. Facciamolo! Occhio al futuro

GAIA, la casa naturale stampata in 3D

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Questa storia aiuta a immaginare un nuovo modo di abitare – gradevole, semplice, accessibile, ecologico, sano. Un sogno possibile grazie alla perseveranza dell’architetto Tiziana Monterisi e del suo incontro con Massimo Moretti. Insieme hanno trovato il modo di utilizzare un materiale di scarto con ottime prestazioni e disponibile in quasi tutto il mondo. Grazie alla stampa 3D, viaggiano fisicamente solo gli strumenti tecnici; il progetto viaggia sul web e la materia prima si trova sul posto. Gli edifici di Rice House realizzati con Wasp sono modulari. Pensate che usare gli scarti di lavorazione del riso costa meno che smaltirli.

Cristina: Avete mai pensato di costruire una casa con materiali naturali tutti italiani? È possibile grazie alla stampa 3D e alla ricerca che oggi vi raccontiamo. Gli ingredienti sono terra cruda e scarti di lavorazione del riso che, da soli, ogni anno sarebbero sufficienti per costruire questi edifici sostenibili per l’intera popolazione italiana. Solo nel Vercellese, sono coltivati a riso 70.000 ettari e solo il 35% degli scarti sono riutilizzati. Massimo, raccontami il processo.

Massimo Moretti: Quello che abbiamo studiato è esattamente un processo, come costruire a basso impatto utilizzando i materiali che sono sul posto. È inserire il sapere nella materia più umile per trasformare quella materia in un materiale utile all’edilizia, quindi l’informazione in realtà dà il valore alla costruzione. Ecco vedi, questa costruzione è fatta di terra, del luogo, paglia di riso, perché il riso è una dei materiali che si trova di più sulla faccia della terra, ed è depositata con una macchina quindi questa formazione può essere replicata indefinite volte. È una costruzione modulare può assumere, di conseguenza, qualsiasi forma e dimensione a seconda di quello che serve sul luogo. L’unica cosa che viaggia fisicamente è un container con all’interno tutto il materiale tecnico per costruire, mentre le informazioni possono viaggiare via web.

Cristina: Grazie Massimo. Tiziana, tu invece sei autrice della ricerca, qual è l’impatto ambientale complessivo di questo edificio?

Tiziana Monterisi: Quasi nullo, perché grazie proprio ai materiali che compongono il muro, l’edificio è ad energia quasi zero, è paragonabile ad una Classe A++++. Ciò vuol dire che sfrutta gli apporti passivi ma non ha bisogno né di un riscaldamento durante l’inverno, né di un impianto di condizionatore durante il periodo estivo. La muratura si equilibria e mantiene sempre costante una temperatura e un’umidità che è quello che ci fa percepire il maggior comfort interno. In particolare, proprio la lolla di riso e la paglia di riso contengono una altissima percentuale di silice, che gli permette di non marcire, di non essere attaccata dagli insetti e soprattutto, di essere durevole. Una cosa non semplice e scontata per i materiali naturali. Sarebbe facile stampare in cemento, molto più rapido ma avrebbe un impatto sull’ambiente completamente diverso. Questa casa è 100% fatta di materiali naturali quindi sostenibile al massimo, non solo per l’ambiente ma anche per l’uomo. Vedi Cristina questa è la nostra nuova sfida, abbiamo tolto il legno e la costruzione è monomaterica.

Cristina: Pensate che riutilizzare questo scarto agricolo ha un impatto inferiore che smaltirlo. È una filiera tracciabile, riduce anche le bollette quando si sta nella casa e quindi insomma è una soluzione ecologica il più possibile. Adempie a otto dei diciassette SDG: 3, 8, 9, 11, 12, 13, 15 e 17. Occhio al futuro!

In onda il 11-4-2020

Econyl, il filato di nylon rigenerato

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L’industria tessile nel suo insieme è tra i più grandi inquinatori. Però, c’è chi sta invertendo questo impatto da negativo a positivo: Aquafil, con il suo filato Econyl, produce fibre da rifiuti scarti e nuovi materiali attraverso azioni concrete di rispetto per l’economia la società e l’ambiente, lungo tutta la filiera.

Cristina: Sappiamo che l’industria tessile nel suo insieme è tra i più grandi inquinatori. Però, c’è chi sta invertendo l’impatto da negativo a positivo producendo fibre tessili da scarti, rifiuti e nuovi materiali. In quest’azienda le fabbriche sono alimentate al 100% da energie rinnovabili, si usa acqua a ciclo chiuso in ogni fase di lavorazione. Sono stati avviati protocolli ambientali lungo tutta la filiera, e attivati progetti educativi in azienda per i dipendenti e nelle scuole. Si fa ricerca su nuovi materiali da biomassa, ogni anno si riducono le emissioni di gas serra, si promuovono programmi per la tutela dei mari e per tutti i prodotti si fa l’analisi del ciclo di vita. Queste azioni, nel loro insieme, adempiono alle indicazioni di ben 8 dei 17 SDG – gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’ONU! Per ogni 10.000 tonnellate di materia prima da processo di riciclo si risparmiano 70.000 barili di petrolio e l’equivalente di 57.100 tonnellate di CO2.
Oggi vi mostriamo come vengono trasformate le reti da pesca, insieme ad altri rifiuti di nylon. Nel 2018 sono stati recuperati 78 tonnellate da ONG che operano in tutta Europa. Una volta pulite, le reti vengono trasformate chimicamente, poi il liquido diventa polimero, e il polimero si trasforma in filo. Il risultato è che sempre più filati derivano da un processo di rigenerazione. Per diventare tappeti, occhiali, borse, abiti, costumi da bagno.
Dottor Bonazzi, si può immaginare di rispondere alla richiesta di mercato di nylon solo con materiali di recupero e di riciclo?

Giulio Bonazzi: No, purtroppo no, neanche si potesse recuperare tutto il nylon, non sarebbe mai sufficiente per garantire le necessità future. Oltre a ciò è importante capire che riciclare ha un suo impatto ambientale, noi cerchiamo di farlo al meglio, ma è importante capire come si ricicla e come ridurre al massimo l’impatto durante il ciclo.

Cristina: Che cosa significa per lei innovare? Come cittadino e come imprenditore?

Giulio Bonazzi: Innovare per me significa smettere qualcosa di vecchio per fare qualcosa di nuovo. Ad esempio bisogna ricordarsi che prima di riciclare bisogna ridurre le materie prime, riusare e poi riciclare.

Cristina: Avete già pronta una nuova famiglia di materiali?

Giulio Bonazzi: Si l’abbiamo, vogliamo produrre il nylon da fonti rinnovabili ossia da biomasse, anzi abbiamo già prodotto i primi chili.

Cristina: Che differenza c’è tra il filo derivato dal petrolio, da riciclo e da biomassa?

Giulio Bonazzi: Nessuna, i tre prodotti sono perfettamente identici ma fa una grande differenza per l’ambiente. È un bell’esempio di economia circolare.

Cristina: Grazie Dottor Bonazzi. Occhio al futuro!

In onda il 18-1-2020

effecorta, negozio sfuso

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Nel 2009 per Occhio allo Spreco, eravamo andati a Capannori, in provincia di Lucca, per raccontare una realtà pioniera – il negozio Effecorta, che vendeva prodotti locali e sfusi, ossia privi di imballaggi. Nei 10 anni trascorsi da allora, Effecorta ha aperto a Milano nel quartiere di Affori e abbiamo deciso di buttarci l’occhio.

Renato Plati, uno dei fondatori di Effecorta, dice che l’interesse al suo modello è tanto, le richieste sono addirittura quasi quotidiane e arrivano da tutta Italia. La filiera corta è importante, è nel nome stesso. Facilitano quello che è l’incontro tra il produttore e il consumatore alla ricerca un prodotto genuino e locale – il loro fulcro è l’acquisto diretto dai produttori, selezionati nel raggio di 70 km dal negozio. Alcuni prodotti, come l’olio e gli agrumi, arrivano dal centro e sud Italia, ma mantengono un rapporto diretto con chi li produce. Per Renato, filiera corta significa un solo passaggio dal produttore al consumatore finale.

“Al tempo del servizio abbiamo raggiunto oltre 400 contatti” ci racconta, “e abbiamo organizzato tanti seminari per cui le persone venivano, e potevano informasi sul modello. Pochi sono riusciti a trasformare l’idea in un negozio vero e proprio, la maggioranza si sono scontrate con la realtà economica. Quando ragioniamo su una configurazione di un negozio di 100-120 metri suggeriamo sempre un budget minimo dagli 80-100.000 euro, per far fronte a quelli che possono essere gli imprevisti dei primi anni. La possibilità di avere accesso al credito costituisce un fattore determinante per lo sviluppo e riteniamo che esistano molti bandi sia a livello regionale, che europeo e ci auspichiamo che venga fuori qualcosa anche per noi per quello che potrebbe essere lo spostamento in una zona più centrale, in uno o più punti. A Milano potremmo tranquillamente aprire in ogni zona. Un contributo all’affitto sarebbe ottimale perché è una delle voci spesa più pesanti.”

Speriamo presto di vedere negozi così in ogni quartiere.

L’impronta idrica del cibo

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Avete mai pensato alla quantità di acqua che consumate in un giorno? Non solo l’acqua che bevete o che utilizzate in casa. Anche il cibo che mangiamo ha un’impronta idrica, si chiama acqua virtuale e spesso rappresenta più della metà del nostro consumo idrico giornaliero.
Durante l’esposizione di Broken Nature a La Triennale di Milano, ci sarà un Wonderwater Café con un menù interamente tradotto in termini di impronta idrica per ogni piatto!

Cristina: Molti di noi sono bravi a non sprecare acqua in casa, ma raramente sappiamo quanta ne consumiamo in maniera indiretta, ad esempio l’acqua che serve per produrre il nostro cibo. Wonderwater Café è un progetto itinerante che giunge al ristorante della Triennale di Milano durante l’esposizione di Broken Nature. Frutto di una collaborazione tra scienziati e designer, si traduce in un menù che illustra l’impronta idrica di ogni piatto.

Jane Withers: Non abbiamo idea delle quantità di acqua che servono per produrre il cibo. Noi mostriamo le differenze tra: fagioli coltivati in Kenya, dove irrigare le piante può voler dire sottrarre risorse idriche dalle comunità locali, e verdure stagionali e locali, irrigate con acqua piovana. Capiamo il valore dell’acqua quando, ad esempio, durante la siccità in California due anni fa, i prezzi delle mandorle sono andati alle stelle. Noi mostriamo questi sistemi idrici invisibili.

Cristina: Lei trova che i fatti scientifici debbano essere adattati per raggiungere un grande pubblico?

Jane Withers: Si, penso di sì. Noi traduciamo i dati in un linguaggio che le persone possano capire. Penso che trovare sul tavolo, al ristorante, mentre stai scegliendo cosa fare, un menu che indichi l’impronta idrica di ogni piatto, faccia la differenza. Quanto influisce sulla scelta? Se leggendo vedo che per fare la pizza marinara ha consumato 290 litri e quella con la salsiccia piccante 960 litri? Sono numeri impressionanti.

Cristina: Il primo WonderWater cafè risale al 2011. In pochi anni, insieme al progetto è cresciuta la consapevolezza del problema.

Jane Withers: I nostri partner accademici del King’s College di Londra, hanno lavorato per capire ogni ingrediente: da dove è venuto, dov’è stato acquistato e così via. Adesso sembra esserci più trasparenza, ma penso che sia interessante quanto nel 2011, sembrava tutto molto astratto, mentre ora c’è un crescente senso di urgenza. Ci stiamo rendendo conto che una delle cose più importanti che possiamo fare è di passare da una dieta carnivora ad una vegetariana o “flexitariana” – più consapevole. Le differenze sono importanti:  più di 5000 litri al giorno per una dieta a base di carne contro 2600 litri. Sono differenze palpabili. C’è crescente interesse e consapevolezza.

Cristina: Le informazioni ci sono, la gente ha sempre più voglia di sapere cosa consuma e che impatto ha. Quindi se siete ristoratori se comunque portate, al mondo, cibo in un qualche modo, offrite questa opportunità di conoscenza perché è molto importante. Occhio al futuro!

In onda 4-5-2019

Broken Nature – la Triennale di Paola Antonelli

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Paola Antonelli è la più grande fonte d’ispirazione per colmare il divario tra ciò che sappiamo e come viviamo. Broken Nature presenta una moltitudine di idee e soluzioni per diventare cittadini rigenerativi del nostro bel Pianeta. La speranza è che visitiate la Triennale tante volte, ma per chi non verrà a Milano entro l’1 settembre, brokennature.org è una fonte da consultare (anche per chi visiterà la mostra!). Grazie Paola per la tua visione e per la tenacia.

Cristina: Siamo alla Triennale di Milano, Broken Nature, un mostra internazionale e interdisciplinare che durerà fino al 1 di Settembre, che indaga il nostro rapporto con i sistemi naturali, la società umana, con il modo di vivere, produrre e consumare. É curata da una grande italiana, Paola Antonelli, che per l’occasione  è stata prestata dal MoMA di New York.  L’essenza di Broken Nature, cosa vuoi che gli spettatori si portino a casa?

Paola Antonelli: Vorrei che si portassero a casa il fatto che per essere responsabili, per vivere in modo sostenibile, per attivare questo atteggiamento ricostituente, non bisogna sacrificare l’estetica o il piacere, la sensualità o l’eleganza.

Cristina: Spesso gli individui si sentono troppo piccoli per poter avere un impatto. Tu come la vedi?

Paola: Non la vedo così, perché non possiamo contare soltanto sui governi, le istituzioni e arrenderci al nostro destino. Abbiamo un potere enorme che proviene anche dai social media, una persona poi diventa un gruppo, una tribù, una comunità e dopo di che se i governi vogliono avere qualsiasi efficacia devono seguire anche quello che vuole il pubblico.

Cristina: Qual’è il tempo ideale da trascorrere in questa mostra per tornare a casa veramente più nutriti?

Paola: Direi che almeno tre quarti d’ora, un’ora ce li devi mettere. Spero che tanti bambini vengano e che siano ispirati perché alla fin fine il design tra una quarantina di anni andrà come la fisica, ci sarà il design teorico e quello applicato e si trasmetteranno conoscenze a vicenda.

Cristina: E l’aspetto sociale come lo hai declinato?

Paola: Per esempio […] pensò a questo recupero di mais di speci che erano andate perdute e poi usare le barbe e la parte esterna della pannocchia per fare un’intarsio. Anche semplicemente quest’attività che il design può fare per recuperare cultura materiale che si è persa, c’è un grandissimo esempio anche di come si può utilizzare la comunità.

Cristina: Come definisci il designer del XXI secolo?

Paola: Tantissime possibilità di espressione. Per cominciare ci sono i mobili, ovviamente ci sono le auto, ci sono anche i materiali. Ci sono dei designer che progettano scenari o cercano di mostrarci quali potrebbero essere le conseguenze future delle nostre scelte di oggi. Ci sono designer di interfacce che sono per esempio lo schermo e l’interazione del bancomat. Ci sono designer che fanno bio-design, quindi si occupano anche di organismi viventi o progettano con organismi viventi. Neri Oxman e Mediated Matter Group stanno ispirando una generazione di designer che imparano a lavorare con la natura per fare oggetti ed edifici che crescono invece di essere disegnati dall’esterno. Skylar sta lavorando il governo delle Maldive per fermare l’erosione delle spiagge. Stanno tutti lavorando e avendo un grande impatto. Sono molto fiera di tutti.

Cristina: Grazie Paola. Non perdete Broken Nature.

In onda 6-4-2019

Formafantasma indaga il riciclo dei rifiuti elettronici

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Gli elementi preziosi nell’elettronica hanno tre problematiche: il danno all’ambiente nell’estrazione; la breve durata di vita dei dispositivi stessi; alla fine del loro ciclo di vita, non vengono adeguatamente riciclati. Si stima che entro il 2080, le più grandi riserve minerarie non saranno più sottoterra, ma in superficie, come lingotti o come parti di materiali da costruzione, elettrodomestici, mobili e device.
Simone Farresin e Andrea Trimarchi di Studio Formafantasma hanno condotto un’indagine ambiziosa sul riciclaggio di rifiuti elettronici con il loro progetto Ore Streams – in esposizione durante Broken Nature alla Triennale di Milano

Cristina: Questo cassetto è fatto con il case di un vecchio computer. Pensate, i rifiuti elettrici ed elettronici sono quelli che crescono più in fretta, solo il 30% però viene riciclato. Intervenire sul restante 70% è molto complesso perché complessi sono gli oggetti di cui parliamo e complicate sono le filiere.

Simone Farresin: La smontabilità degli oggetti è fondamentale, pertanto per esempio istituire un sistema di viti universale sarebbe utilissimo. Per esempio il nero dei cavi elettrici è molto difficile da riconoscere per i sistemi che vengono utilizzati per separare, i lettori ottici. Cambiare semplicemente il colore dal nero ad un colore aiuterebbe il riconoscimento dei cavi elettrici e il recupero del rame. Per di più sarebbe fondamentale istituire un sistema di etichettatura che dica all’utente, nel momento in cui compra un oggetto elettronico, quanto durerà nel tempo. Ovviamente questi oggetti vengono riciclati ma in modo un po’ più sofisticato nei nostri paesi, invece nei paesi in via di sviluppo che hanno bisogno di un codice colore che li aiuti a comprendere in modo intuitivo quali sono i componenti pericolosi per essere smontati a mano, in modo tale che il riciclo venga fatto nel modo opportuno.

Cristina: Voi avete incontrato per il vostro progetto attori lungo tutto la filiera, dove avete incontrato la maggiore resistenza?

Andrea Trimarchi: Devo dire che una delle cose più complesse in realtà è stata entrare in contatto con i produttori di elettronici. Abbiamo parlato con università, con produttori, aziende di riciclo, abbiamo parlato anche con persone che si occupano di leggi. Diciamo che quelle sono state più disponibili poi ad accoglierci, la cosa più difficile appunto è stata parlare con i produttori.

Cristina: Perché non sono disposti ad essere parte della soluzione?

Simone Farresin: Probabilmente perché è molto complesso in questo momento investire risorse economiche per cambiare veramente le cose invece di semplicemente fare dei piccoli passi avanti che vengono usati simbolicamente come sistema pubblicitario invece che di reale interesse per il riciclo di questi prodotti.

Cristina: Voi avete una soluzione a tutte, qual è?

Andrea Trimarchi: Una delle più probabili soluzioni potrebbe essere di organizzare tavoli dove i vari attori del sistema produttivi, dai produttori di elettronica ai riciclatori e ovviamente anche designer, possano incontrarsi su queste tematiche.

Cristina: Sembra assurdo, questo non avviene già?

Andrea Trimarchi: Purtroppo no, anche in ambito legislativo spesso vengono messi insieme i riciclatori e anche i produttori, ma la maggior parte delle volte, noi designer che siamo quelli che trasformano le materie prime in oggetti, non facciamo parte di queste riunioni.

Cristina: Il design può e, in questo caso, ha un ruolo politico, lasciamoci ispirare.

In onda 30-3-2019