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Enerbrain, efficientamento energico

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Enerbrain, una start-up di Torino iniziata come 4 amici al bar, oggi si occupa di soluzioni di efficientamento energetico degli edifici attraverso sensori collegati nel cloud.

Cristina: Secondo la Commissione Energia dell’Unione Europea gli edifici consumano il 40% dell’energia totale ed emettono il 36% di CO2. Quali sono i vostri rimedi e come sono nati?

La scintilla è nata qua a Torino, nel corso di un inverno molto rigido ma con temperature variabili, in cui il nostro fisico Marco, si è domandato come potesse regolare meglio il suo impianto domestico.

Cristina: Come funziona la vostra tecnologia?

Andiamo ad installare all’interno degli ambienti dove vogliamo ricreare delle condizioni di comfort, sensori di umidità, temperatura e concentrazione di CO2, quindi per la qualità dell’aria. Ne mettiamo un numero minimo necessario per poter garantire il comfort all’interno di qualsiasi tipo di ambiente. Li posizioniamo in uno o due giorni e questi vanno a parlare direttamente con degli attuatori, un’altra parte di hardware, da installare in centrale termica. I dispositivi si parlano attraverso un’applicazione o un software e ogni 5 minuti va a regolare meglio l’impianto. In questo modo si risparmia.

Cristina: Gli impianti non li cambiate, semplicemente li rendete più efficienti.

Esatto, senza interrompere il normale funzionamento di un impianto, in due giorni andiamo ad efficientare e partiamo subito con i risparmi.

Cristina: Quali sono i risultati? Sia in termini di risparmio energetico che economico.

Il risparmio economico è proporzionale al risparmio energetico, siamo arrivati ad ottenere dei risparmi di energia termica di oltre il 30%.

Cristina: Una soluzione semplice ed efficace per edifici esistenti.

In onda 17-3-2018

Alleggerire l’impatto ambientale delle aziende

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Ero felice dopo il breve e intenso incontro con Silvio Albini. Capita raramente di parlare con un imprenditore così schietto, trasparente e audace che dice apertamente le cose come stanno (e non come vorrebbe che fossero). “La nostra è la seconda industria più inquinante al mondo dopo quella del petrolio e del carbone….” aveva esordito. Solo chi è impegnato nel fare può mettere nero su bianco in modo così diretto. Le parole sono una conseguenza, non una premessa. Infatti, poi, Albini aveva esposto alcuni dei risultati importanti raggiunti nel percorso progressivo verso la sostenibilità. Gli avrei scritto lunedì per dirgli quanto mi aveva colpito la sua visione concreta, ma la notizia della sua scomparsa mi ha preceduto. Mi chiedo perché un uomo che aveva ancora tanto da dare ci abbia dovuto lasciare. Il mio augurio è che nella sua memoria il suo disegno possa prendere forma, allargandosi in maniera organica nella lunga e complessa filiera del tessile.

Cristina: Il 50% dei tessuti e dei vestiti usati nel mondo contengono cotone. Fibra che nella sua lunga filiera dalla produzione alla lavorazione inquina tantissimo. Siamo in un’azienda che ha deciso di alleggerire il suo impatto ambientale. Quali sono gli obbiettivi che vi siete posti e i risultati che state raggiungendo?

Silvio Albini: È un processo lungo, non dimentichiamo che l’industria tessile, in tutta la sua complessità nel mondo è il secondo inquinatore del mondo in cui viviamo, dopo le industrie del carbone e del petrolio. Bisogna svolgere le proprie attività con trasparenza, bene, step by step, noi abbiamo negli ultimi anni risparmiato 8 milioni di kw/h che corrispondono a all’energia elettrica consumata da 2.700 famiglie in un anno. Poi c’è bisogno di tantissima acqua, anche li, con investimenti importanti la nuova tintoria che abbiamo fatto in questo sito in Val Seriana ci ha permesso di risparmiare 46.000 metri cubi di acqua all’anno, che corrispondono all’acqua di 10 piscine olimpioniche. C’è un uso di materie chimiche importante e qua noi abbiamo iniziato un lungo lavoro di miglioramento continuo che ogni giorno ci porta come si diceva prima.. usare meno acqua ma anche a sostituire materie chimiche che fanno un po’ meno male alla pelle o all’ambiente in cui viviamo.

Cristina: Questo processo di innovazione cosa vi sta insegnando?

Silvio Albini: Sta cominciando a premiarci veramente. Pensi che recentemente sono stato da uno dei nostri maggiori clienti Americani, abbiamo presentato la nostra esperienza dalla materia prima fino al prodotto finito. Devo dire che è stato un grande successo che ci ha permesso anche una maggiore penetrazione presso quei clienti. Dietro c’è una grande spinta dei loro consumatori finali che sono finalmente sensibili a tutto questo mondo.

Cristina: Perché la gente vuole sapere dove nasce e come potrà finire quello che usa, soprattutto quello che porta sulla pelle, quindi chi sa raccontare questa storia con audacia e trasparenza sicuramente verrà premiato.

In onda 27-1-2018

Il green data center di EXE

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Ogni informazione generata in rete passa attraverso un data center, dove si trovano server, sistemi di archiviazione, sistemi informatici e infrastrutture di telecomunicazione. Inoltre, sono necessari impianti di controllo ambientale quali condizionamento e antincendio per garantire la sicurezza. I consumi energetici complessivi di questi centri informatici rappresentano una delle principali fonti di inquinamento del pianeta e di costo per le aziende.
In questa storia scoprirete come per abbattere l’impatto ambientale legato a tecnologie che si diffondo in rete, é necessario intervenire sull’edificio in tutte le sue parti.
Oggi Executive Service è l’unico “green” data center in sud Europa. Siamo andati a trovarli vicino a Bologna per scoprire come la tecnologia e la sostenibilità possano vivere in armonia.

CRISTINA: Sapete che 15 minuti di video in streaming online consuma la stessa energia del frigorifero di casa in 3 giorni? E che internet consuma quanto l’intera aviazione civile mondiale? Perché qualsiasi informazione che sia in tv, su un telefono,  o su internet passa per un data center. Infatti siamo nel primo green data center a zero emissioni in sud Europa, ed è in provincia di Bologna. Cosa significa un data center a zero emissioni?

Gianni Capra: Un data center a zero emissioni vuol dire che tutto il funzionamento del datacenter è basato su energia assolutamente o autoprodotta, o acquistata da un’azienda in grado di certificare la fonte rinnovabile di un certo tipo. Escludiamo ad esempio fonti rinnovabili di provenienza chippato, alghe, pellet o qualsiasi cosa che comporti combustione. Tutto ciò che alimenta i nostri server non deve causare combustione di alcun genere, quindi si escludono a priori emissioni di CO2.

Cristina: Quali sono i vantaggi per chi usa il vostra servizio?

Gianni: Riceve una certificazione reale della propria attenzione all’ambiente, in quanto la nostra certificazione di emissioni zero ci consente di emettere certificati gratuiti a tutti colori i quali portano in toto o in parte i loro schemi informativi in questo data center.

Cristina: Avete il sostegno e anche l’incoraggiamento della comunità europea.

Gianni: La comunità europea, ufficialmente ha dichiarato la propria preoccupazione nei confronti della rapida e ripida crescita dei data center, in quanto la comunità europea stessa ha individuato i data center nei massimi emettitori di CO2 nel mondo occidentale.

Cristina: E qual’è la vostra ricetta di sostenibilità in questo spazio?

Gianni: Il 50% è legno, l’intero stabile è costruito in legno. Altre scelte tecnologiche riguardano la bassa densità nei rack o armadi o scaffali, e la rinuncia totale ai dischi rigidi. Quindi tutti i nostri server utilizzano memorie allo stato solido come quelle del tuo telefonino e il raffrescamento, che per il 79% del tempo annuo è fatto con aria non condizionata.

Cristina: A che temperatura girano i vostri server?

Gianni: Noi lavoriamo fino a 29 C contro i 19-20 di un data center tradizionale.

Cristina: Grazie. Nei prossimi decenni l’intera popolazione umana sarà connessa in rete, è quindi fondamentale ridurre le emissioni dei data center. E come avete visto, è possibile.

Imballaggi intelligenti

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Gli imballaggi intelligenti sono in grado di allungare la vita di un prodotto sullo scaffale evitando l’uso di conservanti, ma é necessario che le etichette aiutino i consumatori a disitinguere le plastiche biodegradabili da quelle che vanno riciclate. È ora di chiudere il cerchio! Va educato sia il consumatore, che la filiera di raccolta.

Cosa ha spinto SAES a sviluppare questa nuova tipologia di packaging?

Lo sviluppo di un coating attivo per prolungare la shelf life nasce dalla comprensione totale della catena del valore, dal campo al consumatore, definendo i benefici in termini di costo a livello di tutta la filiera, oltre ad un intrinseco ed innegabile valore etico-sociale.

In maniera più generale il mondo del packaging è giunto ad un punto di discontinuità, il consumatore etico riesce a far leva sia sui grandi produttori alimentari sia sul legislatore; per chiudere il cerchio è necessario uno sviluppo delle soluzioni di imballaggio attivo, che richiedono competenze elevate nella sintesi dei materiali attivi e nella loro formulazione in matrici polimeriche(plastiche).

 

I Dati:

Caso 1: Coating attivo in grado di assorbire Etilene

Di quanto si allunga la shelf life di un prodotto grazie all’impiego del packaging avanzato di SAES e Metalvuoto?

Per il prodotto confezionato e refrigerato (ed esempio le fragole che troviamo al supermercato), grazie al packaging attivo che assorbe etilene si passa da una shelf life di 6-7 giorni a una shelf lifedi 10 giorni, con un incremento quindi del 40-50%

Quali sprechi possono essere evitati?

Grazie a questo packaging attivo è possibile una riduzione del food waste che va dal 4 al 10%

Quali tipi di conservanti si possono evitare grazie a questi imballaggi?

Nel caso dell’etilene non si evita l’uso di alcun conservante, ma si parla di pura estensione della shelf life.

Caso 2: Active Packaging in generale

Di quanto si potrà allungare la shelf life di un prodotto grazie all’impiego del packaging avanzato di SAES e Metalvuoto?

In funzione della tipologia di prodotto è possibile avere un’estensione della shelf life da pochi giorni per prodotti freschi (ad esempio IV gamma) fino a 6-12 mesi per prodotti a lunga conservazione (prodotti sterilizzati, prodotti da forni secchi, prodotti liofilizzati, cioccolato). In generale l’aumento percentuale di shelf life oscilla tra il 30 e il 50%

Quali sprechi possono essere evitati?

Potenzialmente l’utilizzo di imballaggio attivo potrebbe produrre un risparmio in termini di food waste pari a 100 – 150 miliardi di Euro nella sola Europa.

Quali tipi di conservanti si possono evitare grazie a questi imballaggi?

Principalmente gli antiossidanti (da E300 a E322).

Alghe: da surplus a risorsa

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A parte quando le troviamo arrotolate intorno al sushi, le alghe tendono a non piacerci. Ci infastidiscono quando nuotiamo e si ammassano sulle rive. Un gruppo di ragazzi brillanti di Taranto sta trasformando un’apparente rifiuto in risorsain collaborazione con il CNR. La soluzione di South Agro è di impiegare le macro-alghe come biostimolanti in agricoltura. Ecco come.

Cristina: Capita sempre più a bagnanti e natanti di essere infastiditi non solo dalla plastica ma anche delle alghe che proliferano nel Mediterraneo. Alcune di queste però sono una grande risorsa. In che modo diventano risorsa? Siamo nel Mar Piccolo di Taranto per parlarvi di un progetto che è stato sviluppato assieme al CNR.

Antonella Petrocelli: Noi ci occupiamo di alghe da circa 30 anni, abbiamo iniziato usandole come indicatori ambientali. Ora stiamo dragando a circa 8 metri di profondità con una rete che raccoglie sul fondo tutto ciò che incontra.

Cristina: E con questa alga sana che cosa fate?

Antonella Petrocelli: Otteniamo dei biostimolanti da utilizzare in agricoltura.

Cristina: Andiamo a vedere che cosa succede nella seconda fase, quella di trasformazione e vi racconteremo questo prodotto che proprietà ha.

Valentino Russo: In questo laboratorio la nostra startup in collaborazione con il CNR trasforma le alghe in prodotti biostimolanti utili per l’agricoltura in quanto permettono di esaltare la qualità dei suoli, migliorare la resistenza agli stress climatici ed avere piante più sane e più forti. Queste sostanze possono essere impiegate in agricoltura o negli orti di casa propria.

Cristina: Quindi è un tonificante per la terra?

Valentino Russo: Esattamente.

Cristina: Sappiamo che c’è sempre più uso di fertilizzanti, le terre sono sempre più povere. Quindi questo permette di dosare meglio.

Valentino Russo: Proprio così. L’utilizzo di un prodotto biostimolante permette una diminuzione dell’utilizzo dei fertilizzanti chimici tradizionali.

Cristina: Il processo come avviene? Come viene trasformata l’alga secca della varietà che abbiamo visto prima?

Valentino Russo: Viene macinata, poi attraverso un processo in via di brevettazione diventa un prodotto biostimolante.

Cristina: E’ la prima operazione fatta con alghe 100% italiane?

Valentino Russo: Si 100% del Mar Mediterraneo che sono assolutamente sottoutilizzate rispetto alle fantastiche caratteristiche che possiedono.

Cristina: La materia prima è abbondante e locale, il processo di trasformazione è a basso impatto, il prodotto è ecocompatibile. I protagonisti di questa storia sono giovani e stanno lanciando una campagna di crowdfunding, se volete sostenerli. Occhio al futuro.

Greg Maryniak e il “numero magico”

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Gregg Maryniak è un esperto di energie a livello mondiale. Ci parla di un “numero magico”, ovvero di un indice delle Nazioni Unite che mette in rapporto il benessere delle persone con la quantità di energia prodotta da una società. La sfida per il futuro è di continuare a produrre quella quantità senza distruggere il pianeta. Dalla Singularity University, Gregg ci racconta futuri scenari per lo stoccaggio dell’energia e lancia la sfida globale ai vari concorsi di idee per trovare soluzioni efficaci, che garantiscano un futuro più “luminoso”… in tutti i sensi.

CRISTINA: Come crede che risolveremo il problema dell’energia a livello globale?

MARYNIAK: La più grande sfida è quella di procurarci abbastanza energia da vivere bene. C’è un indice delle Nazioni Unite, che mette in rapporto il benessere delle persone con la quantità di energia. Sotto una certa soglia non ci può essere prosperità. La sfida è di produrre quella quantità di energia senza distruggere la biosfera. Purtroppo il 93% dell’energia utilizzabile nel mondo è generata da un processo di combustione. Tra il 2005 e il 2010 la Cina ha raddoppiato la produzione di energia elettrica. Qualunque strategia adottino Europa e Stati Uniti, se India e Cina continueranno a crescere non riusciremo mai a contrastarli. Ci si chiede, al contrario, quanto manchi al raddoppio delle emissioni di carbonio, e si parla di una dozzina di anni. Di conseguenza, l’aspetto più importante per il futuro delle energie è lo stoccaggio. Quando “piove” energia dal cielo, come possiamo catturarla per poi distribuirla di notte o quando non soffia il vento? Quando si parla di stoccaggio, la maggior parte della gente pensa alle batterie. Ma le batterie sono costose. Quelle piccole che usiamo nei giocattoli e negli attrezzi portatili, costano circa mille volte di più rispetto alla corrente erogata dalle prese elettriche. Occorre una via di mezzo e ci sono già delle tecnologie interessanti a disposizione. Alcune sono di natura elettrochimica, quindi sembrano pile ma funzionano in modo radicalmente diverso. Col tempo stiamo inoltre facendo progressi, nello stoccare energia termica e vediamo, in paesi soleggiati come Spagna e Italia, impianti che catturano l’energia termica e il calore del sole. Ci sono infine nuove tecniche per comprimere l’aria quando l’energia costa poco, come durante la notte e per decomprimerla poi di giorno, attraverso l’uso di turbine. Quando si pensa al problema dell’energia, la domanda ricorrente è: “Come si può generare o convertire energia?” Ma non è il vero problema! L’anello debole della questione è lo stoccaggio. I concorsi a premio sono un potente strumento per stimolare lo sviluppo di nuove tecnologie. Se squadre di esperti da tutto il mondo potessero esprimersi e trovare valide soluzioni, dall’altra parte ci sarebbero industrie, governi, organizzazioni pronti ad adottarle. Ho fiducia che attraverso le competizioni arriveremo a forti innovazioni e il fatto è che non ci sono certezze finché non ci si prova… Quindi proviamoci!

Lasciati guidare – Intervista a Deepak Chopra

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Deepak Chopra sta iniettando pace nel mondo attraverso cicli di meditazioni guidate. In Italia è appena arrivato quello nuovo: il potere delle energie vitali.

Lei da molti anni connette l’antica conoscenza dei Veda alle tecnologie avanzate che studiano i meccanismi del cervello umano. In che modo ha potuto misurare e valutare gli effetti positivi della meditazione?

Valutiamo i benefici per la mente e per il corpo attraverso la crescita del benessere personale. Per esempio, siamo in grado di vedere marker metabolici e ormonali associati alla diminuzione delle infiammazioni nel corpo dopo la meditazione. Possiamo anche misurare l’aumento della telomerasi, enzima che preserva la lunghezza dei telomeri, strutture che supportano la salute delle nostre cellule.

Quali sono le regole d’oro per trarre massimo beneficio dalla meditazione?

La base per godere al massimo dei benefici della meditazione non è di forzare o spingere la mente concentrandosi sui pensieri o resistendoli. La meditazione è un’opportunità per la mente di essere presente e consapevole della sua stessa natura. Come dico sempre, non è un modo per chetare la mente, bensì un modo per entrare nella quiete che è già li. Per una meditazione riuscita dobbiamo semplicemente seguire la pratica con totale agio.

Come sta crescendo la massa critica attraverso le sue meditazioni guidate?

La partecipazione ai 21 giorni di meditazione è cresciuta rapidamente negli ultimi anni. A oggi più di 4 milioni di persone nel mondo vi hanno preso parte, scoprendole online, sui social media e attraverso il passa parola.

Quale area del mondo partecipa di più?

Attualmente il Nord America, ma sta crescendo la partecipazione in tutti i paesi di lingua inglese, nell’Europa Occidentale, in Australia e Nuova Zelanda.

Intervista a Severn Suzuki

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Avevo appena messo il piede in casa, al rientro da un lungo viaggio di lavoro, e mia figlia Elena mi è corsa incontro con il computer in mano: “Mamma, devi vedere subito questo video”. Avrei voluto dire “aspetta…” ma aveva già schiacciato play. Al primo frame ho riconosciuto il volto.  Non potevo dire a Elena che conoscevo il contenuto della sua scoperta. Mi sono appoggiata allo schienale e ho ascoltato un discorso sentito tante volte.

“…perdere il mio futuro non è come perdere un’elezione o alcuni punti sul mercato azionario…”

Il mio sguardo scivolava dal volto della bambina a quello della mia ragazza.

“…sono qui per parlare a nome dei bambini che muoiono di fame…”

Sentivo la morsa allo stomaco, e ancora ora, mentre scrivo, respiro profondamente per sciogliere l’emozione.

“…ho paura di respirare l’aria perché non so che sostanze chimiche contiene….”

Reprimere un piccolo umile pianto di sincera costernazione, sarebbe stato come levare le spalle, arrendermi.

“…quando avevate la mia età – chiede la piccola Severn, rivolgendosi ai capi di stato delle 105 nazioni presenti – dovevate preoccuparvi di queste cose?…”

Dopo quei pochi, intensi minuti, il silenzio è stato un atto di spontanea riverenza.

E ora? Dopo anni di scelte – tre figli, ai quali ho promesso di fare del mio meglio per crescerli sani, sereni e forti, una nuova carriera per divulgare un messaggio di speranza a chi ama la vita e la vuole proteggere, cosa mi lasciava questo messaggio?

“Chissà dov’è oggi….”

“Ha trentatré anni”, risponde mia figlia, che ha già fatto i conti.

Severn è cresciuta in una famiglia di ambientalisti – suo padre è David Suzuki, scienziato, divulgatore e autore di 52 libri, sua madre è scrittrice. Severn ha due lauree, in Biologia a Yale e in Etno botanica alla University of Victoria in Canada. Da un anno è diventata madre.

Grazie al web, sono riuscita a raggiungerla e a raccogliere questa intervista – una parte è stata pubblicata su Sette del Corriere della Sera.

Il suo discorso del 1992 sembra scritto ieri. Come reagisce a questo?

C’è solo una frase che data il mio discorso: la nostra famiglia umana di 5 miliardi. Oggi mi stupisco ancora del fatto che non siamo riusciti a invertire la rotta. Al tempo avevo 12 anni, e pensavo che, catturando l’attenzione dei leader del mondo, essi avrebbero usato il loro potere per cambiare il corso dell’umanità. Ho creduto che avrebbero pensato ai loro figli prima di prendere decisioni importanti. Ero un’idealista.

 

Come fa a mantenere uno spirito positivo?

Se apriamo la mente e il cuore verso I problemi che affliggono gli ecosistemi e i popoli dall’altra parte del globo, è facile deprimersi. Più vado avanti più mi accorgo che non me lo posso permettere. Mettere in pratica la visione che abbiamo del mondo, sostenendo e promuovendo lo sviluppo della società alla quale aspiriamo, è importante quanto battersi contro l’ingiustizia e il danno che stiamo arrecando alle future generazioni. Se crediamo in un mondo bello, dobbiamo cercare di renderlo concreto in ogni modo possibile. Trovare la gioia è la sfida più grande, ed è una ricerca che m’ispira e mi rafforza. Significa prendere il tempo per coltivare e preparare cibo buono, significa costruire uno spirito comunitario, ricordandoci che ciò che è bene per la qualità della nostra vita fa bene anche all’ambiente. Mi ispira la forza degli altri. Sulla mia scrivania ho una frase del Dalai Lama, “Non ti arrendere mai”. Mi ricorda quali sfide e ingiustizie abbia affrontato il popolo tibetano, mi aiuta ad apprezzare tutto ciò che ho e ciò che sono libera di fare. Siamo potenti nella misura in cui ci crediamo.

 

Dove vede i cambiamenti più tangibili?

A livello locale. E’ lì che possiamo agire e vedere i risultati. Il globale è la somma del locale. Abbiamo bisogno che i governi locali e centrali sostengano i cambiamenti in atto nelle comunità. Possono farlo fissando standard di risparmio energetico, creando reti di trasporto più efficienti, incentivando i comportamenti che tutelano l’ambiente. Non è giusto che sia così difficile fare la cosa giusta; al momento le nostre società favoriscono scelte facili a basso costo che sono terribilmente dannose per l’umanità e per il pianeta.

Dei tanti progetti nei quali è impegnata, quali le permettono di raggiungere in modo efficace i suoi obiettivi?

Buona domanda. Tutti I progetti e le campagne alle quali ho lavorato mi hanno insegnato molto. Ho conosciuto persone incredibili, e continuo a imparare. E’ stato un privilegio lavorare con il Sloth Club Japan, un gruppo di visionari che hanno come missione di rallentare il Giappone. Credono profondamente nei valori del movimento Slow Food, nato in Italia, ma trasferiscono I principi “slow” a ogni aspetto del quotidiano. Credono che stiamo correndo troppo, a danno nostro e del Pianeta. Quando sono stata in Giappone, mi hanno organizzato conferenze straordinarie – sanno mobilitare la gente e diffondere messaggi con grande efficienza. Al momento sto lavorando con un gruppo di giovani alla campagna “We Canada” per portare I nostri politici a mostrare un’autentica leadership alla Earth Summit di Rio nel 2012. E’ un gruppo di persone ispirate e piene di energia, e mi colpisce per la capacità di fare rete, di esprimere al meglio il potenziale  dei social media. Abbiamo strumenti potenti per comunicare e fare rete, dobbiamo solo rendercene conto.

 

Chiaramente il cambiamento arriva dal basso – lo vediamo in Egitto, Tunisia, in Siria. Il mondo cerca disperatamente di cambiare. Vede all’orizzonte leader capaci di condurre l’umanità sulla giusta rotta?

Il 50% della popolazione mondiale è giovane. Pensiamoci. C’è grande potenziale per una rivoluzione. Purtroppo i giovani non sono attratti dalla politica – hanno eletto Barack Obama, ma da allora non sono più andati a votare, e questo è un trend mondiale. I giovani devono prendere coscienza del potere che hanno in cabina elettorale. Dalla conferenza di Rio del 1992, 19 anni fa, mi sono impegnata nelle piazze, in TV, come scrittrice, e mi sono laureata, ma l’azione più potente resta ancora il mio discorso da dodicenne. Perché? Credo che abbia a che fare con ciò che al mondo, oggi come allora, necessita maggiormente: la voce dei giovani, la loro verità. I giovani, che hanno tutto da perdere, hanno un messaggio potente da consegnare a chi vive come se il futuro non li riguardasse. Occorre che prendano la parola e sfidino i leader del mondo ad affrontare l’ingiustizia intergenerazionale. Il cambiamento climatico è una condanna per i giovani di oggi, creata dalle generazioni passate e presenti. Nel corso della storia, gli umani hanno agito pensando al futuro, alla sopravvivenza della specie, e le tecniche di sopravvivenza più basilari oggi sono state gettate al vento, a danno dei nostri figli.

 

Dei tanti veicoli che diffondono il suo lavoro: l’editoria, il web, la radio, la TV e le conferenze, qual’è il più efficace per innescare il cambiamento?

E’ difficile misurare quanto riusciamo ad agire sulla coscienza collettiva. Cambiare il modo in cui le persone pensano e agiscono è un lavoro informe, amorfo. I media sono strumenti per parlare alle persone, e ce ne sono un’infinità, oggi, ma ciò che trasforma veramente è l’esperienza. Fare. Se la gente è testimone di un problema, se visita un luogo naturale minacciato, è più prona ad agire. Dobbiamo uscire, vedere, conoscere. Se conosciamo Ia natura, ci batteremo per lei.

 

Una vita sostenibile è fatta da un insieme di scelte, gesti, abitudini umili e semplici per chi le mette in pratica, ma per tanti, troppi, sono una soglia da superare. Chi sono I suoi modelli e come affronta la sfida di promuovere ciò che sembra tanto ovvio?

Su libri e riviste leggiamo spesso: “soluzioni facili per essere sostenibili”. Ma la transizione verso stili di vita sostenibili non è facile per molti, anche quando ha senso per la salute, per le comunità e per la qualità della vita. Portare la nostra società a promuovere e mettere in pratica stili di vita sostenibili non è semplice e nemmeno facile, ed è la grande sfida per i divulgatori – facilitare la transizione. Occorre il sostegno dei governi, per ridurre l’inquinamento, gestire l’uso dell’acqua e dell’energia, per incentivare i giusti comportamenti. Un punto di riferimento per me è Thomas Friedman. Il suo ultimo libro Il mondo è piatto è una fonte esauriente di informazioni provocatorie e d’ispirazione sulla sfida che affrontiamo.

Sulla sua fan page di facebook c’è un messaggio commovente di una ragazzina italiana di dodici anni che dice: “fino a quando ho visto il tuo discorso del 1992, pensavo che i problemi ambientali di cui sento parlare fossero recenti. Lei è diventata mamma da poco tempo – non è preoccupata per il mondo che suo figlio erediterà?”

Mio figlio ha un anno. Devo credere che erediterà un mondo che merita di essere vissuto. Ho imparato da mia madre che possiamo arrabbiarci, essere tristi, ma non dobbiamo mai perdere la fiducia. Il nostro pianeta è bellissimo, ed è onorando tanta bellezza che saremo spronati a batterci affinché non venga distrutta. Dobbiamo attingere alla nostra forza emotiva, in qualità di figli, genitori, zii, nonni, e connetterci con le sfide globali che stiamo affrontando. Dobbiamo batterci per la giustizia.

 

Lei, in qualità di biologa e ambientalista, interpreta i recenti disastri naturali, da Katrina agli tsunami, come un “campanello d’allarme” che la natura cerca di dare all’uomo?

Quando l’urragano Katrina colpì New Orleans pensai: “il mondo occidentale dovrà svegliarsi e affrontare I cambiamenti climatici.” Verrebbe da pensare che anche la possibilità più remota che l’uomo abbia contribuito a un disastro di tale portata, avrebbe fatto riflettere gli americani. Di fatto, il “campanello d’allarme” non ha inciso in maniera significativa sulla legislazione riguardo ai cambiamenti climatici. Mi chiedo cosa occorre per svegliare l’umanità. Molti parlano di “giustizia climatica” o “razzismo ambientale”, alludendo al fatto che i più poveri sopportano maggiormente gli impatti sociali del degrado ambientale. La società è palesemente ingiusta? Il pensiero mi fa venire i brividi e minaccia la mia fiducia che le persone abbiano un innato senso di giustizia, a favore dei più deboli. La devastazione causata dagli tsunami serve come promemoria per tutti noi, ci ricorda Il crudo potere del mondo naturale, che merita rispetto.

 

In qualità di biologa e etno-biologa, quali sono I fatti che la preoccupano maggiormente e che richiedono azioni immediate?

Andando per mare e per terra con gli anziani nativi, mi ha sconvolto scoprire che le risorse alimentari alle quali attingevano da bambini oggi sono contaminati. In diverse aree che abbiamo visitato, molti cibi non sono più commestibili a causa dell’inquinamento. Non mi aspettavo un dato simile, e mi ha rattristato molto. C’è un bagaglio prezioso nel sapere degli anziani. In passato non sono stati raccolti molti dati di riferimento per quanto riguarda la salute degli ecosistemi prima dello sviluppo esponenziale degli ultimi decenni, ed è così che la memoria degli anziani diventa basilare.

Quali sono i sentimenti suoi e della sua famiglia riguardo all’energia nucleare?

Ho sempre pensato all’energia nucleare come a un patto con il diavolo.

 

Come calcola la sua impronta ecologica?

Ci sono diversi siti per farlo online; ridurre il proprio impatto è un esercizio importante per capire come vivere in modo più ecologico.

 

Dove vive?

Sull’arcipelago di Haida Gwaii . “Isole delle persone”, a nord ovest dalla costa del Canada.

 

In questi giorni lei è in Europa. Perché?

Sto visitando mia sorella che studia in Inghilterra, e approfittiamo dell’occasione per presentare mio figlio ai suoi parenti britannici.

 

A cosa sta lavorando ora?

Alla salvaguardia dell’idioma Haida, che oggi è parlato solo da un gruzzolo di anziani. E’ la lingua di mio marito e ora di mio figlio, e vogliamo mantenerla viva. Questo sarà possibile grazie agli anziani dai quali la stiamo imparando. Sto anche lavorando alla campagna We CANada in vista del summit di Rio nel 2012. Il governo canadese sta lasciando una pessima eredità ambientale – sono imbarazzata. Sono portavoce del gruppo canadese “Girls in action” per promuovere autostima e opportunità positive per giovani donne, e sono presidente di consiglio della David Suzuki Foundation (la fondazione del padre, ndr).

Il mestiere più importante che svolgo ora è di crescere un bimbo sano e forte.

I funghi di Mogu

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La natura continua a sorprenderci – e quando a decifrare i suoi segreti sono menti aperte e creative, succedono cose molto interessanti. Come quella che vi raccontiamo oggi. Mogu (precedentemente Mycoplastha una storia che parte dalle radici dei funghi e finisce nelle nostre case.

CRISTINA: I cicli naturali si basano sulla trasformazione, la materia organica quando muore diventa cibo per il nuovo che nasce. Una nuova famiglia di materiali si ispira a questo principio. Buongiorno Maurizio, chi sono i genitori di questa famiglia che andremo a scoprire?

MAURIZIO MONTALTI: I capostipiti di questo processo sono due, da un lato abbiamo i funghi. In questo caso stiamo osservando un fungo che è commestibile, stiamo osservando quelli che si mettono anche in tavola, ma il nostro reale protagonista è la radice, il corpo radicale dei funghi, ovvero il micelio. Il micelio che osserviamo crescere sull’altro genitore, ovvero gli scarti. Scarti agricoli, scarti industriali, dalla filiera agroindustriale o del settore manifatturiero, in questo caso ad esempio diversi tipi di paglia. Questo è il luogo in cui avviene il processo di incontro tra fungo e scarto. Vediamo alcuni dei nostri collaboratori operare e disporre un materiale che è già stato fatto crescere precedentemente in alcuni stampi che daranno vita a un prodotto finito.

CRISTINA: E dopo questa fase cosa avviene?

MAURIZIO MONTALTI: Successivamente il prodotto viene fatto uscire dallo stampo e come step successivo si termina il processo di colonizzazione per altri 3-4 giorni. Una volta che questo processo è arrivato al termine e si è raggiunto il risultato desiderato, questo prodotto semi-finito viene processato meccanicamente. Il fugo è responsabile per la degradazione di tali materie naturalie allo stesso tempo agisce come colla naturale creando un’unica materia compatta.

CRISTINA: Quali prodotti state coltivando?

MAURIZIO MONTALTI: Piastrelle, pavimenti resilienti, piuttosto che elementi fonoassorbenti caratterizzati da alte performance di tipo tecnico.

CRISTINA: Questa, ad esempio, è una parete fonoassorbente, tattilmente straordinaria: molto morbida e bellissima da vedere. È stata progettata assieme al Politecnico di Milano. Queste sono bellissime da vedere e ancora una volta da toccare, potrebbero diventare piastrelle. Mentre queste sono già piastrelle. Il vantaggio della ricerca di questi giovani startupper è che unisce la componente estetica, funzionale ed ecologica, perché sono prodotti 100% fatti dalla natura e che potranno tornare in natura. Occhio al futuro.

La lana Sarda che ripulisce il mare dagli idrocarburi

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Vedere una spugna assorbire un liquido ci affascina. Ora immaginate che la spugna sia ricavata da scarti industriali, addirittura rifiuti speciali, e il liquido in questione sia acqua di mare inquinata da idrocarburi. Ma non finisce qui perché la spugna contiene anche dei microrganismi in grado di digerire gli oli restituendo acqua pulita. Da questa intuizione speciale dell’imprenditrice della blue economy Daniela Ducato nasce Geolana. Il diportista attento la troverà in molti porti e anche nelle sentine.

Cristina: Circa 150 milioni di persone vivono sulle coste del Mar Mediterraneo, scaricando in acqua rifiuti di ogni genere, da quelli industriali a quelli civili. Pensate che secondo le Nazioni Unite sono 100/150 mila tonnellate solo gli idrocarburi. Per fortuna c’è ci si occupa di questo con soluzioni innovative. Buongiorno Daniela, cos’è questo?

Daniela Ducato: E’ un tessuto di lana di pecora realizzato in industria con il pelo corto e che diventerebbe un rifiuto speciale smaltito a caro prezzo ambientale ed economico e invece noi lo trasformiamo in risorsa speciale.

Cristina: E lo vediamo lì?

Daniela Ducato: Esatto e non è decorativo. È un tessile che è stato creato a doc per catturare velocemente molti inquinanti, soprattutto gli oli e gli idrocarburi petrolchimici. E fatto in modo speciale per acchiappare, e quindi per ospitare, tutti quei microrganismi utili che sono in acqua e che hanno il compito di metabolizzare e digerire questi inquinanti restituendoci acqua pulita.

Cristina: Un kilo di lana quanto assorbe?

Daniela Ducato: Tra i 10 e i 14 kili quindi immaginiamo quanto può essere utile e importante creare una gestione sostenibile e responsabile dei porticcioli turistici con un elemento rinnovabile che finito di vivere ritorna a essere mare fecondo.

Cristina: La vostra soluzione si sta diffondendo facilmente nei porti e nei mari?

Daniela Ducato: Sì, per una volta non abbiamo il problema della burocrazia intricata, anzi c’è stata anche una velocità nelle pratiche. Siamo contenti di questa facilità e di questa consapevolezza anche nelle amministrazioni pubbliche. Chi naviga sa che anche in sentina, nel vano motore, si accumulano tanti inquinanti: oli, idrocarburi… Noi abbiamo trovato una soluzione mangia petrolioanche per questa problematica. Come vedete qui ci sono già diversi assorbitori, alcuni sono stati impregnati e stanno biodegradando gli idrocarburi, l’altro è appena stato messo e inizierà tra poco il suo lavoro di biodegradazione.

Cristina: Daniela, spieghi perché questa l’abbiamo al collo?

Daniela Ducato: L’abbiamo al collo e per fortuna non in mare, perché altrimenti vorrebbe dire un piccolo disastro: un grande versamento in mare. Serve proprio per gestire i versamenti visibili e inquinanti. E’ fatto sempre di lana, con un interno di sughero che consente il galleggiamento.

Cristina: La materia prima, la lavorazione e l’innovazione tecnologica sono al 100% sarde, speriamo che questa soluzione si sparga a macchia d’olio. Occhio al futuro!