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L’enorme potenziale dei miceti

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La degradazione del suolo è un problema molto importante, la cui causa principale è l’inquinamento da parte di metalli pesanti, oli o idrocarburi che rendono inutilizzabili circa 340mila siti in tutta Europa.
Alla Mycotheca dell’Università di Torino sono conservati oltre 6.000 ceppi di miceti (funghi), provenienti da tutto il mondo. Rappresenta una delle più importanti banche di biodiversità fungina in Italia, dove studiano l’enorme potenziale di questa specie. In collaborazione con il progetto europeo LIFE Biorest, si stanno occupando del biorisanamento di 18 ettari a Fidenza.

Parte I

Cristina: Siamo alla Mycotheca di Torino che fa parte del Dipartimento di Scienza della Vita e Biologia dei Sistemi per raccontarvi quanto sono potenti ed efficaci i funghi. State lavorando ad un importante progetto con l’Unione Europea, ce lo racconta?

Prof.ssa Giovanna Cristina Varese: Certo, si tratta del progetto Life Biorest, volto alla depurazione di siti contaminati. La contaminazione del suolo è un problema enorme a livello mondiale ed europeo. Per darvi un numero, in Europa ci sono più di 200.000 siti contaminati, meno del 20% in questo momento sono diciamo trattati. Il progetto si svolge nel comune di Fidenza, è uno dei cosiddetti SIN, quindi i siti più contaminati in Italia. Abbiamo selezionato una serie di microrganismi, nel nostro caso funghi, per la loro spiccata capacità di degradare inquinanti.

Cristina: Come funziona questa depurazione?

Prof.ssa Giovanna Cristina Varese: Questo funghi li abbiamo isolati, fatti crescere dandogli da mangiare esclusivamente i contaminanti di questo suolo come ad esempio il pirene, il naftalene e fenantrene, poi abbiamo dimostrato come questi funghi si sono così adattati all’ambiente contaminato che preferiscono mangiare questo tipo di inquinante piuttosto che molecole come il glucosio. Li abbiamo selezionati poi per la capacità di poter crescere su substrato a basso costo, perché uno dei problemi più importanti è di far vivere e vegetare i microrganismi nel suolo. Quindi i microrganismi selezionati per le loro capacità degradative vengono poi miscelati al suolo e attraverso un sistema di questo genere vengono poi creati dei grossi cumuli di circa 1 tonnellata di suolo che viene mantenuto in condizioni controllate di temperature e umidità per un periodo che va dai 3 ai 6 mesi. L’utilizzo di questo microrganismi permette di degradare una quantità molto maggiore di inquinanti e di abbreviare i tempi di trattamento, riducendo quindi anche i costi del trattamento stesso.

Cristina: Su questo terreno poi si potranno edificare case, si potrà vivere in modo sano?

Prof.ssa Giovanna Cristina Varese: Questo processo prevede anche una rivegetazione, quindi l’Università Cattolica di Piacenza sta selezionando una serie di piante che siano ben adattate a questi suoli. Nel momento in cui la popolazione vedrà che i microrganismi prima hanno degradato la maggior parte degli inquinanti e che le piante si accrescono su questo suolo, avrà la percezione visiva che il sito è stato veramente pulito in modo definitivo. L’area è molto vasta, di circa 18 ettari, e a causa dei bombardamenti che ci furono durante la seconda guerra mondiale gli inquinanti si spingono fino a 28 metri di profondità, quindi un volume di suolo da trattare veramente enorme.

Cristina: Quando decreterete i primi risultati?

Prof.ssa Giovanna Cristina Varese: I risultati che abbiamo ottenuto fino ad adesso nelle prove preliminari sono assolutamente positivi.

Parte 2

Cristina: Siamo tornati alla Mycotheca di Torino perché qui c’è la più importante collezione di ceppi di funghi d’Italia. Stanno lavorando a tantissime applicazioni, veramente strategiche per il nostro futuro, ma la cosa più interessante ancora è che di questo regno, perché così sono classificati i funghi, si conosce solo il 10%. Quali altre virtù ci vuole raccontare su questa importante popolazione di organismi?

Prof.ssa Giovanna Cristina Varese: I funghi, oltre che essere bellissimi sono bravissimi e li stiamo utilizzando per studiare la degradazione di tantissimi contaminanti. Un esempio molto recente è la degradazione delle materie plastiche, ci sono tanti tipi di materie plastiche anche le cosiddette bioplastiche quelle biodegradabili in realtà non sono completamente biodegradabili, la normativa si sta evolvendo nel tempo ma diciamo che ad oggi una plastica per essere biodegradabile deve avere il 40% di materiale biodegradabile che diventerà il 50% il prossimo anno il 60% nel 2020. Questo vuol dire che noi dobbiamo favorire questa degradazione, selezionando dei microrganismi in grado di degradare proprio queste materie plastiche e quindi di favorire il loro utilizzo anche in processi come quelli del compostaggio. Stiamo lavorando anche sulle microplastiche in mare, ci sono dei progetti europei per isolare ed identificare microrganismi associati a questo ambiente acquatico ed anche in questo caso per identificare i microrganismi e gli enzimi coinvolti in questa degradazione.

Cristina: Poi c’è anche tutta una classe di sostanze chimiche che non sono proprio favorevoli per la nostra salute di cui vi state occupando.

Prof.ssa Giovanna Cristina Varese: Si in effetti per rimanere nell’ambito acquatico, in questo momento si parla tanto dei cosiddetti interferenti endocrini, sono migliaia da molecole presenti a bassissime concentrazioni nelle nostre acqua. Parliamo di microrganismi a nanogrammi che possono avere degli impatti sulla salute delle persone. Facendo un esempio, lo sviluppo sessuale precoce nei bambini oppure l’obesità infantile. Ovviamente sono ancora cose che devono essere dimostrate in modo certo in campo medico ma insomma il pensiero comune è che quelle molecole presenti nell’ambiente abbiano un ruolo non indifferente. I funghi sono bravissimi nel degradare queste sostanze e quindi a ridurre la tossicità dei reflui civili e dei reflui industriali.

Cristina: Alcuni sono molto promettenti anche in ambito farmaceutico e di cosmetica.

Prof.ssa Giovanna Cristina Varese: Assolutamente si, i funghi producono milioni di metaboliti secondari che hanno attività farmacologiche e quindi ad esempio stiamo studiando le possibilità di coltivare alcuni funghi per produrre nuove molecole ad attività antibatterica, antivirale o con attività antitumorale. In particolare i funghi e, se vogliamo, i funghi provenienti dagli ambienti marini sono in questo momento tra gli organismi più studiati al mondo per la produzione di queste molecole.

Cristina: E poi concludiamo con il piacere di mangiarli. Non ci sono solo i porcini ma..

Prof.ssa Giovanna Cristina Varese: Probabilmente i funghi sono il cibo del futuro attraverso la produzione delle cosiddette micoproteine. Cibo ideale per eccellenza, ricco di proteine, con poche calorie, ricco di fibre e privo di colesterolo.

Cristina: Un universo da scoprire. Occhio al futuro.

In onda 16 e 23-2-2019

Tools for future-proof development

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È stato emozionante e arricchente assistere allo sviluppo di Broken Nature. Paola Antonelli ha creato un ecosistema di scienziati, ricercatori, designer, pensatori, innovatori e attivisti che si interconnettono per “promuovere l’importanza delle pratiche creative nel rilevare i legami della nostra specie con i sistemi complessi del mondo e progettare riparazioni quando necessario, attraverso oggetti , concetti e nuovi sistemi”.

Ho partecipato ai 2 simposi che hanno dato il via alla mostra di 6 mesi alla Triennale di Milano a partire dal 1 ° marzo, e ho letto, con grande piacere, i saggi pubblicati su brokennature.org, dove spesso trovo ciò che manca nella maggior parte delle indagini e discussioni su i nostri rapporti con la natura (in tutte le sue forme): un approccio olistico e integrativo. Così, quando sono stato invitata a conversare con la giovane giornalista e ricercatrice Sara D’Agati, per il sito web, mi sono sentita profondamente grata e gratificata.

Sara e io ci siamo trovate così bene che dopo un incontro di 3 ore, ne abbiamo programmato un altro. L’esperienza mi ha rassicurata. Impegnandosi in un dialogo aperto e approfondendo l’abbondanza di idee e pratiche, c’è un filo comune che può promuovere con successo una collaborazione mondiale per aiutare l’umanità a evolversi verso l’Era della Conoscenza. Abbiamo tutte le informazioni di cui abbiamo bisogno, deve solo essere organizzato ed esposto in modo organico.

Il design riguarda la comunicazione – a questo effetto Age of Entaglement di Neri Oxman è una lettura obbligata – e se possiamo fornire fatti ampiamente accessibili, offrire scelte attraverso storie, esperienze e cose che provengono dal desiderio di ripristinare, potremmo avere una possibilità . Sono onorata di avere una voce in questa arena e non vedo l’ora di imparare dal cast impressionante di personaggi che Paola sta orchestrando. Grazie! Siamo qui e siamo pronti.

Per leggere la conversazione su brokennature.org, clicca qui.

Ramuntcho Matta, Terra e Cielo per A Passo Leggero, 2014.

RI-generation, elettrodomestici circolari

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L’Italia nel 2017 ha raggiunto un tasso di ritorno complessivo dei RAEE del 41,19%, un risultato che dovrà essere incrementato per raggiungere il target europeo pari al 65% della media dell’immesso del triennio precedente entro il 2019. Gli elettrodomestici oramai sono fatti per essere sostituiti e non per durare, il progetto RI-generation è un esempio di economia circolare

Cristina: La maggior parte delle cose che usiamo nasce da un modello di economia lineare, ossia è fatto per essere sostituito e non per durare. Questo genera sprechi ed inquinamento e sappiamo che così non si può continuare. Mimando la natura dove tutto si rigenera e ricordando il buonsenso dei nostri nonni, nasce l’economia circolare, che oggi vi raccontiamo attraverso la storia di una lavatrice.

Riccardo Bertolino: Noi intercettiamo i grandi elettrodomestici: lavatrici, lavastoviglie, frigoriferi e cucine che vengono rottamati. Hanno un grandissimo valore ancora, classi energetiche dalla classe A o superiori e non vi immaginate il valore che questi prodotti hanno ancora perché il vostro credere comune è che quando la lavatrice si rompe non conviene più ripararla.

Cristina: Quindi hanno superato la garanzia ma hanno meno di 5-7 anni.

Riccardo Bertolino: Esatto. Noi comunque rigeneriamo un prodotto di classe energetica ancora attuale ai giorni nostri.

Cristina: Come funziona il processo?

Riccardo Bertolino: Noi abbiamo creato delle collaborazioni con i logistici che lavorano per conto della grande distribuzione e consegnano a casa vostra il prodotto nuovo, a costo zero ritirano il prodotto vecchio. Prima che venga buttato dentro ai cassoni per essere triturati, noi li selezioniamo valutando appunto la classe energetica, marca e modello. L’elettrodomestico viene portato nei nostri laboratori per una rigenerazione che non è una semplice riparazione, ma è anche sostituzione dei componenti usurati e un processo di sanificazione e un intervento di pulizia estetica del prodotto.

Cristina: Alla fine quanto costerà questo elettrodomestico?

Riccardo Bertolino: Lo rivendiamo con una garanzia di un anno, a prezzo meno della metà del nuovo. Il prodotto venduto ha anche degli upgrade, sistemi anti-allagamento, anti calcare e volendo facciamo anche una personalizzazione grafica per il cliente dietro richiesta. Questo consente da un rifiuto, avere un prodotto quasi come fosse un pezzo unico.

Cristina: Non rigenerate solo gli elettrodomestici ma anche le esperienze e il sapere delle persone che lavorano qui.

Riccardo Bertolino: L’Italia è stata la culla produttiva degli elettrodomestici ma molte aziende hanno delocalizzato all’estero, le persone rimangono con forti competenze tecniche che noi usiamo.

Cristina: Grazie Riccardo. Questi prodotti rigenerati si trovano online, purtroppo però con l’IVA al 22%, in Svezia si paga l’IVA al 10% per i prodotti rigenerati e speriamo che questo succeda molto presto anche in Italia. Occhio al futuro

In onda 26-1-2019

“Running the Numbers” di Chris Jordan

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Uscire dal vortice di abitudini tanto comode quanto dannose è una grande sfida, ma come tutti i cambiamenti, è più faticoso pensarli che affrontarli. Lo sa bene Chris Jordan che, sulla soglia dei 40 anni lascia l’avvocatura. La cultura del consumismo, difesa da avvocato, diventa il soggetto dell’artista di Seattle. Appassionato al lavoro di Andreas Gursky e Richard Misrach, studia il banco ottico, attratto dalla qualità suprema dei dettagli. Come un archeologo post-moderno esplora porti, zone industriali, discariche, fotografa “on location” e in studio. Più si addentra, più vede con chiarezza le contraddizioni, la confusione, l’assurdità di quella che definisce “un’apocalisse al rallentatore”.

Di fronte alle sue fotografie è impossibile restare indifferenti. Le opere di Jordan sono testimonianze concrete di un crescente degrado, coreografato e interpretato con grande sensibilità artistica. La collezione di immagini stupefacenti, da lontano seducono l’occhio; da vicino ingaggiano la mente e colpiscono il cuore.

“Io faccio parte di una comunità di pensatori, artisti e scienziati consapevoli di quanto l’attuale modello di consumo non sia più sostenibile, ma siamo ai margini della società; al centro c’è una potentissima macchina controllata da industrie, aziende e politici che vive in negazione e non percepisce quanto gli effetti del consumismo siano devastanti, non solo per la natura ma per la psiche umana”, spiega Jordan.

Running the Numbers, e Running the Numbers II, in italiano, Diamo i Numeri, sono due serie nate nel 2006 e tutt’ora in corso, che visualizzano le dimensioni grottesche dei nostri consumi attraverso fedeli rappresentazioni di dati e statistiche. Una voracità collettiva di cui nessuno vuol essere responsabile.

“La gente si diverte a scoprire gli strati molteplici delle mie immagini”, dice Jordan. “Durante le mostre s’informa, s’indigna, si entusiasma, ma la motivazione delle persone è come un colpo di remo: crea un piccolo mulinello che pian piano s’allarga poi sfuma e sparisce nella corrente.”

Sappiamo che stiamo distruggendo il pianeta ma i comportamenti non cambiano. Se l’effetto cumulativo dei consumi non è sostenibile, solo la coscienza di ciascuno può valutare il peso dei danni che produce, dando rilevanza all’impatto delle semplici azioni quotidiane.

Nadia Pinardi, la signora delle correnti marine

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Seppure siano ancora poche le donne che occupano ruoli chiave nella ricerca, le bolognesi sono pioniere. Da Laura Maria Caterina Bassi, prima scienziata ad avere una cattedra universitaria nel 1732, all’oceanografa Nadia Pinardi, che nello stesso ateneo felsineo svolge un lavoro di rilevanza strategica per comprendere i cambiamenti climatici. E non solo.

L’INTERVISTA A NADIA PINARDI SU THE GOOD LIFE ITALIA

Questa è una storia d’amore. Per la scienza, per un uomo, per il mare. È una storia di unioni tra persone, menti e discipline. Siamo alla fine degli anni Settanta quelli della crescita esponenziale della meccanica quantistica della fisica delle particelle e dei primi grandi esperimenti al Cern. Nadia Pinardi studia fisica all Università di Bologna Con Antonio Navarra e altri studenti crea un gruppo di lavoro per scoprire l’affascinante mondo dei principi primi della materia. Antonio è un “mostro” di bravura e i due hanno molto in comune. Entrambi trovano nelle scienze della Terra quella combinazione ideale tra la fisica classica e quella più avanzata. Il loro cammino di studi però si divide. Lui cambia corso e parte per la Princeton University. Diventa climatologo e studia il sistema atmosfera oceano e il cambiamento climatico globale. Pinardi completa la sua tesi sulla fisica delle particelle e si laurea cum laude ma non è soddisfatta. Incontra un suo vecchio professore e conversando con lui emerge lopportunità di lavorare con un gruppo di meteorologi e oceanografi che si è appena costituito a Colonia. Opportunità che la porta a conoscere Allan Robinson, celebrità della fluidodinamica geofisica e docente ad Harvard. È un pioniere dello sviluppo dei modelli delle dinamiche oceaniche. Così Pinardi parte per Boston dove consegue un dottorato in Scienze applicate. Oggi insegna Fisica dell’atmosfera e Oceanografia all Università di Bologna e collabora con le più importanti istituzioni del mondo. «Ancora oggi, in Italia, le discipline dell’atmosfera e dell’oceano sono relegate a scienze minori all’interno dei dipartimenti di Fisica, Ingegneria, Chimica o Scienze ambientali» racconta Pinardi sconfortata «Non hanno, come in molti Paesi, dipartimenti propri».

Pioniera delle previsioni oceaniche

L’esperienza americana allarga gli orizzonti di Nadia e di Antonio. Il loro legame diventa indissolubile anche fuori dal lavoro. Si sposano e hanno un figlio ed è grazie al marito che lei trova l’equilibrio tra il suo ruolo di madre e il percorso accademico. «È un compagno eccezionale ed è napoletano, che secondo me è il mas- simo». Stanno insieme da 40 anni e sono sposati da 31. Il figlio eredita il gene della fisica ed emula il percorso dei genitori, laureato in Fisica teorica è da poco partito per il Georgia Tech dove ha vinto una borsa di studio per un dottorato in Computer and Climate Science. Anche lui vuole avere un impatto sulla realtà. Pinardi è moglie e madre fiera e la sua missione è di unire i saperi. Le motivazioni con cui l’Università di Liegi le ha assegnato una laurea honoris causa lo scorso marzo riassumono bene il valore di un curriculum vitae lungo pagine e con centinaia di pubblicazioni. «Per i progressi della conoscenza scientifica nell’ambito delle previsioni del mare, l’applicazione di risultati scientifici ad ambiti ambientali e socioeconomici, la capacità di attrarre fondi verso la ricerca scientifica, l ‘energia e il dinamismo unici nel coinvolgere giovani studenti in progetti europei e internazionali per la ricerca avanzata». Il prestigioso ateneo belga che negli anni ha premiato Winston Churchill e Nelson Mandela conclude «Se chiedete a un oceanografo chi più di tutti abbia contribuito a dar forma al panorama europeo delle previsioni oceaniche probabilmente la risposta sarà Nadia Pinardi.»

Sempre sul campo

«Chi lavora nei laboratori e non va sul campo non capisce quanto sia difficile il mestiere dello scienziato che studia la natura e le sue componenti» spiega. Noi le verifiche delle teorie le abbiamo tutti i giorni. Quotidianamente confrontiamo i dati reali rilevati dai satelliti con quelli dei nostri modelli matematici. C’è una continua validazione dei dati teorici, come in nessun’altra scienza». Per capire meglio come si svolge il lavoro all’interno del suo dipartimento Pinardi racconta: «Il mare è difficile da scrutare. I satelliti rilevano dati sulla superficie ma sotto è diverso. Usiamo tecniche avanzatissime di robotica per poterlo campionare a 4.000 metri di profondità. L’Italia ha contribuito a costruire il sistema Copernicus per il monitoraggio dell’ambiente, che unisce dati marini e terrestri ricevuti da satellite. Io ogni giorno consulto la parte marina di Copernicus e posso vedere il livello del mare in diversi punti del Mediterraneo, la temperatura in superfiicie e la quantità di clorofilla. Poi raccolgo i dati delle boe Argo, sonde robotizzate sottomarine che stanno a una determinata profondità per 5-10 giorni e vanno alla deriva con le correnti misurando parametri quali temperatura e trasparenza dell’acqua. Questo consente di mettere in relazione ciò che si vede dal satellite con quello che avviene sotto la superficie del mare. Quindi prendo informazioni dal glider, un aliante comandato a distanza che vola su rotte prefissate raccogliendo dati. Può per esempio essere indirizzato verso una parte di mare dove ci sono emergenze o fioriture di alghe. In fine prendo tutti questi dati e li passo a un gruppo di ricercatori che ho contribuito a organizzare presso il Centro Euromediterraneo sui Cambiamenti Climatici (CMCC), che li analizza in tempo reale. Abbiamo creato un sistema per mettere in relazione i dati con i modelli e, grazie a questo confronto, correggere i modelli per migliorare le previsioni. Per essere efficaci occorre un enorme network internazionale: tanti satelliti, tante boe in tutte le parti del mondo Il mare è un fluido interconnesso, tutte le parti interagiscono tra di loro».

Il CMCC è diretto dal marito di Nadia. Insieme stanno portando l’Italia a livelli europei collaborando con il mondo intero. Le ricadute pratiche sono tante come spiega la scienziata: «Usiamo i nostri modelli previsionali quando c’è uno sversamento di petrolio, per capire dove è più probabile che si sposti nei giorni successivi all’incidente, in modo da piazzare le panne che assorbono gli idrocarburi e prevenire impatti devastanti sulle coste. Lo facciamo da oltre un decennio ed è molto più complicato di quanto sembri, perché una macchia di petrolio in mezzo al mare può teoricamente espandersi a gradi. Le informazioni che forniamo consentono un grande risparmio di risorse e una maggiore efficienza Sempre dal punto di vista ambientale, sviluppiamo modelli previsionali che indicano la presenza di alghe, per esempio quelle pericolose per la salute umana. In Italia siamo particolarmente avanzati in questo. Il nostro prossimo passo è applicare tali modelli allo studio della maricoltura off-shore: enormi gabbie in mare aperto dove il pesce è libero di muoversi e non è intrappolato, come accade negli allevamenti ittici costieri. Il Mediterraneo è molto profondo, specie nel Tirreno e nello Ionio già a chilometri dalla costa, ma bisogna convertire parte del lavoro della pesca alla maricoltura, e questo è un problema».

Il racconto di Nadia Pinardi è fluido e interconnesso come il mare che studia. Prevedere onde e correnti può ridurre il consumo di carburante delle navi e sempre in campo energetico contribuire allo sfruttamento di energie rinnovabili, quali le correnti marine o il moto ondoso. L’ultima frontiera della ricerca riguarda l’estrazione di minerali «Il fondale dell’oceano è ricco di minerali importantissimi per lo sviluppo dei computer. Le risorse terrestri sono pressoché esaurite, ma per andare a vedere cosa c’è sotto il mare bisogna conoscere le correnti in profondità, che sono fortissime. L’umanità per progredire ha bisogno di quelle risorse, ma dobbiamo gestire la loro ricerca in maniera corretta. Le nostre previsioni forniscono informazioni per ottenere risultati accettabili in relazione allo sforzo richiesto».

Il grande gigante gentile

Nell unire tecnologie e saperi non poteva mancare l’intelligenza artificiale applicata ai nuovi sistemi di osservazione satellitari della Terra e degli oceani «Sto seguendo il lavoro che si svolge a Boulder, in Colorado, dove c’è il più grande centro di studi meteorologici oceanografici americano, ho parlato con loro delle possibilità in questo settore». Le esperienze ad Harvard e a Princeton uniscono Nadia Pinardi e Antonio Navarra alla comunità americana che studia il clima della Terra anche per ciò che concerne le previsioni di eventi estremi come l’uragano Harvey che si è abbattuto sul Texas lo scorso agosto «Esiste un programma con il quale collaboriamo, allo Stevens Institute of Technology, nel New Jersey che si chiama Urban Oceanography. Da parecchi anni i nostri modelli sono in grado di prevedere con un anticipo di ore le inondazioni dovute a eventi meteorologici estremi, ma non sono molto usati. La ricerca è accurata. Adesso sono la società civile l’industria privata, i governi che la devono adottare».

Nadia Pinardi si muove sull’onda di un altro bolognese oggi semidimenticato, il conte Luigi Ferdinando Marsili ingegnere militare e scienziato vissuto a cavallo fra Sei e Settecento. Fu lui a comprendere che l’oceano ha due correnti, una in profondità che va in una direzione e una in superficie che va in quella opposta. Pinardi lo chiama il serpentone che si muove nel grande gigante gentile. Perché l’oceano è uno ed è tutto collegato. E a lui siamo indissolubilmente collegati anche noi.

Cradle to Cradle, oltre la sostenibilità

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L’INTERVISTA A MICHAEL BRAUNGART SU THE GOOD LIFE ITALIA

Se cuciniamo un piatto partendo da ingredienti mediocri sarà difficile correggerlo in corso d’opera, farlo diventare buono. Tenete in mente questa metafora: vi aiuterà a capire il significato del good design secondo Michael Braungart, teorico, con William McDonough, della filosofia produttiva che va sotto il nome di Cradle to Cradle (“dalla culla alla culla”).

Una filosofia che è diventata anche un’iniziativa concreta, l’Epea (Environmental Protection Encouragement Agency). Sono in tanti a sforzarsi di rendere prodotti e processi industriali meno dannosi per l’ambiente. Ma la posizione di Braungart è diversa: limitare i consumi e salvaguardare l’ambiente non basta.Soltanto ripartendo dalle basi, cioè dalle singole componenti degli oggetti e da come vengono assemblate, possiamo rispettare le leggi dell’ecosistema naturale di cui facciamo parte. «Sappiamo che gli equilibri della Terra sono minacciati, ma la vera innovazione richiede tempo» spiega Braungart. «Internet ha impiegato più di quarant’anni per diventare la rete che è oggi e sono trascorsi quasi 150 anni tra la Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e il suffragio femminile negli Stati Uniti. Dobbiamo essere più pazienti quando si tratta di grandi cambiamenti». Chi si occupa di sviluppo a prova di futuro (la parola “sostenibilità” è bandita dal vocabolario di Braungart) è spinto da un senso d’urgenza. «Rischiamo di spendere tutti i soldi per riparare i danni fatti e non avere più i mezzi necessari per cambiare le cose davvero. Anche considerando gli scenari peggiori e se ci comportassimo tutti come Donald Trump, almeno due miliardi di persone e due terzi delle specie sopravvivrebbero sulla Terra (le più minacciate però sono quelle che ci piacciono di più: scimmie, giraffe, tigri, elefanti).» Un’affermazione solo apparentemente paradossale. «C’è una contraddizione in natura: l’individuo non ha molta importanza, ma il collettivo sì. Con meno di mille tigri, la specie non ce la farebbe».

Visione positiva

La proposta di Braungart è considerare gli ultimi 40 anni, passati a discutere e disperarsi combattendo contro un’imminente fine del mondo, un investimento al servizio dell’innovazione futura. La sua è una narrazione propositiva e non catastrofista. L’uomo, secondo lo scienziato tedesco, può avere un impatto positivo sul pianeta, se agisce nel modo giusto. «Quando dipingiamo le cose come un dramma, enfatizziamo i problemi invece delle soluzioni. È assurdo. In parte si tratta di un fatto culturale. In Europa si fa più ricerca del necessario per capire le cause dei problemi, perché è così che si ottengono più finanziamenti. Quando poi si trovano soluzioni, si chiudono i rubinetti delle risorse economiche». Il problema, dunque, è tutto strategico. I decision makers che vogliono mettere in moto le migliori pratiche per una produzione che non impatti sulle generazioni future devono pianificare e comunicare i passi concreti che intendono fare e stabilirne le tempistiche di attuazione. E i consumatori devono essere informati in modo trasparente sui contenuti delle cose. «Partiamo dal presupposto che siamo nei guai e che lo abbiamo capito, ma mettiamo in circolo visioni positive e propositive».

Per ispirarsi è utile guardare ad altre culture. «Ultimamente ho letto alcune fiabe cinesi» racconta lo scienziato tedesco, che è un chimico di formazione. «Ho notato che non ce n’è una in cui vinca la persona più etica. Vince quella più ingegnosa». In questa cornice, cambiano anche i parametri dell’innovazione. A cominciare dal significato che diamo alla parola qualità. Un oggetto che contiene materiali tossici non può essere definito good design, anche se è una meraviglia dal punto di vista estetico. «Design significa progettazione, non creare cose belle. Se non si progettano le cose per essere buone, l’80% dei problemi che quell’oggetto crea all’uomo e all’ambiente non saranno imputabili all’uso che si fa del prodotto, ma alla sua stessa natura». Proprio come in cucina, sono gli ingredienti a fare la qualità dei piatti che cuciniamo. «Il consumatore è ormai sensibile al design problematico. Abbiamo bisogno di una nuova generazione di designer che voglia fare davvero la differenza e non limitarsi a far sembrare le cose un po’ diverse».

Ragionando a livello sistemico, l’unico che a lungo termine abbia senso, mutano i criteri di scelta degli oggetti che usiamo. Anche nel design. È un cambio di paradigma: prendere finalmente coscienza del fatto che tutto quello che viene a contatto con noi ha degli effetti. E che spesso si tratta di effetti dannosi, provocati da sostanze che potremmo evitare grazie a scelte informate. Ogni oggetto che entra nelle nostre vite ha una storia. Per scoprire se quella storia nasconde sorprese spiacevoli, il migliore alleato è la curiosità. La stessa curiosità che spinge alcuni produttori verso un design davvero good. «Penso a Stella McCartney. Lei ha una buona comprensione della qualità e dell’arte. O anche Jochen Zeitz con Puma: è stato un pioniere, ha capito che non si trattava solo di vendere scarpe». Il passaggio interessante è dal prodotto al servizio. «Se acquisti oggi un mobile per ufficio Giroflex, nel 2027 ti ricompenseranno con il 25% del prezzo di vendita e verranno a recuperare il materiale. L’azienda vende soltanto l’uso del prodotto, non la sua proprietà». Non vi vengono in mente faticose manutenzioni, traslochi, mucchi di cose che non servono più? Non dovreste più preoccuparvene e tutto quel tempo lo spenderemmo meglio. In questo film, che non è utopia ma una realtà possibile, i nostri apparecchi elettronici o addirittura gli impianti fotovoltaici sarebbero soltanto “in usufrutto”, con una data di riconsegna prefissata. Terminato il ciclo di vita di un oggetto, chi lo ha prodotto si occuperebbe di recuperare e riutilizzare le sostanze rare e preziose, far tornare in natura quelle organiche e fornirci un nuovo oggetto più aggiornato. Si avvia così il circolo virtuoso dell’economia circolare.

Esperimenti riusciti

C’è qualcuno che è riuscito a fare sistema con la logica Cradle to Cradle? Intanto, le aziende che hanno ottenuto la certificazione. Ma soprattutto chi, come i Paesi Bassi, sta per trasformare un intero Paese secondo i criteri “dalla culla alla culla”. «I Paesi Bassi si trovano in una situazione molto particolare» spiega Braungart. «Metà del Paese è sotto il livello del mare, quindi non hanno un atteggiamento romantico nei confronti della natura. Tutto il contrario dei tedeschi o del principe Carlo che parla di “madre terra” o “madre natura”. Con la madre ti scusi sempre, dato che la “madre” è sempre buona, per definizione». Ecco: gli olandesi da sempre vivono in un equilibrio naturale precario e ne hanno tratto le giuste conseguenze. «I Paesi Bassi hanno discusso e affrontato questi temi con sei, otto, persino dieci anni di anticipo rispetto al resto dell’Europa. Rheinhäfen, a Rotterdam, è una grande area portuale trasformata in un esperimento Cradle to Cradle». Il vecchio porto in disuso sarà oggetto di una sperimentazione per qualcosa come trent’anni, un periodo di utilizzo definito, durante il quale si pianificherà esattamente come gestire risorse, materiali, edifici. Un esperimento di design circolare che vuole trasformare un intero quartiere in un albero: un organismo che pulisce l’aria e purifica l’acqua, produce humus e ossigeno ed è anche un habitat per centinaia di specie.

Mai troppo piccoli per fare una differenza

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Mentre Greta Thunberg viene candidata al Nobel per la Pace noi ci prepariamo a scioperare per il clima il 15 marzo insieme a cittadini di tutto il mondo. Questa ragazza è riuscita a movimentare le masse come nessun altro. Chissà se Severn Suzuki che parlo’ ai leader del mondo nel 1992 al Summit per il Clima di Rio de Janeiro, avesse avuto internet e i social media. La popolazione mondiale nel frattempo è raddoppiata, insieme ai problemi che collettivamente stiamo causando alla società e all’ambiente.

Al termine del COP24, ci rimangono le tristi conseguenze. Non sono state concordate risoluzioni coraggiose per attuare l’agenda fissata durante il COP21. La Polonia, paese ospitante, ha detto forte e chiaro fin dall’inizio, che non è pronta a rinunciare al carbone. Un tappeto rosso per i “dinosauri” e i paesi petroliferi che hanno rapidamente detto “me too”, #notready. L’esito della conferenza, con oltre 20.000 ospiti provenienti da 150 paesi, ha rispecchiato questo stato d’animo. Gli Stati Uniti, l’Arabia Saudita, il Kuwait e la Russia non hanno accolto il nuovo Rapporto dell’IPCC come documento di riferimento, limitandosi a mettere una nota di “apprezzamento” e invitando i paesi a intraprendere “azioni appropriate”.

Il clima della conferenza è stato purtroppo coerente con l’aumento globale di produzione e uso del carbone, come Somini Sengupta ha recentemente scritto sul New York Times. È stato fatto un piccolo progresso sul rule-book che governerà il monitoraggio di riduzione delle emissioni e il contenimento dei gas serra – ma le questioni principali sono state rinviate al prossimo anno. Con il passare delle settimane, è cresciuto lo sgomento tra i rappresentanti degli Stati Insulari, colpiti dagli effetti dei cambiamenti climatici. I paesi più sviluppati non hanno mostrato un impegno coeso nel raggiungere il Green Climate Fund, $100 miliardi entro il 2020 per aiutare i paesi vulnerabili a prepararsi al peggio.

Gli eroi del COP24, ancora una volta sono stati i giovani attivisti. Le parole della quindicenne Greta Thunberg risuonano negli animi di chi ha a cuore la qualità di vita delle prossime generazioni e non può restare a braccia conserte.

Dopo aver ascoltato Greta, ho guardato (come ho fatto spesso, nel corso dei decenni) il discorso di Severn Cullis Suzuki al Rio Earth Summit del 1992. Da allora la popolazione mondiale è quasi raddoppiata. Vi invito a guardarlo.

Se queste due giovani donne, belle e audaci, non riescono a darci uno scossone, chi lo farà?

E se questo testo, scritto nel 1992, suona come un déja-vu, significa che è tempo di agire.

“La Conferenza di Rio ha messo in risalto le questioni ambientali nell’agenda politica. Ha messo in chiaro le domande, anche se non ha dato tutte le risposte e ha informato un’intera generazione di politici, funzionari governativi, industriali e cittadini sui problemi. Inoltre, ha ribadito la richiesta di cooperazione internazionale in ambito ambientale, presentata per la prima volta volta nel 1972. “

Design ricostituente e piante

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Al primo Forum Mondiale sulle Foreste Urbane,

che si è tenuto a Mantova dal 28 novembre al 1 dicembre, ho avuto il piacere di moderare 2 persone che mi nutrono molto con la loro conoscenza. Paola Antonelli ha presentato Broken Nature: Takes on Human Survival, per la XXII Triennale di Milano, che dall’1 marzo 2019, animerà il capoluogo lombardo per 6 mesi. La mostra aprirà con la stanza del cambiamento, tema che ricorre in tutti i lavori della curatrice milanese, e finirà con la stanza dell’empatia e dell’amore. L’intento è di stimolare riflessioni e azioni di riparazione per stabilire un nuovo equilibrio con la natura.

Stefano Mancuso sarà il curatore della Nazione delle Piante, considerata alla stessa stregua delle altre Nazioni. Come ricorda lo scienziato, è di gran lunga la più abitata. Il 99,6% di ciò che è vivo appartiene al mondo vegetale, capace di fare la fotosintesi. Entrambi i relatori sono d’accordo che siamo avviati verso la sesta estinzione. Il ruolo del design, per Antonelli, è di aiutarci a estinguersi dignitosamente, con stile. Mancuso sorride, definendolo un approccio “dandy”. E incalza dicendo che estinguendoci dimostreremo che il nostro cervello, centrale di comando con poteri su tutto il nostro essere, non è un vantaggio dal punto di vista evolutivo. Per contro, le piante, che hanno un’intelligenza diffusa, sono molto più resilienti e adattabili.

Alla domanda: dove trovate gli stimoli più interessanti, Antonelli ha risposto: nei bambini, perché sono schietti e aperti. Mancuso, invece, ha risposto: in Giappone, perché c’è più rispetto per la natura.

Si è parlato di una necessaria integrazione tra il sapere e il sentire, ma per uomini di scienza è un terreno ancora “sospetto” e poco praticato. Mai come oggi è importante l’interdisciplinarietà.

Il potere della spazzatura

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Arthur Huang, architetto, ingegnere e CEO di Miniwiz, parla dei suoi processi e impianti per usare la risorsa più abbondate che abbiamo: la spazzatura! La macchina portatile Trashpresso, alimentata da energia solare, è stata a Milano nel Parco Sempione durante il Salone Internazionale del Mobile 2018.

PARTE I

Cristina: Oggi vi presentiamo un ingegnere che progetta impianti per la raccolta e la trasformazione dei rifiuti e pensate che ha ingegnerizzato 1200 nuovi materiali. Arthur, qual è il potere della spazzatura?

Arthur Huang: Oggi è la risorsa più abbondante. È ovunque, nei nostri oceani, nell’acqua potabile, perfino nei ghiacciai a 4.900 metri. Questa risorsa è in costante aumento e credo che dobbiamo occuparcene in modo da poter alimentare un nuovo modo di fare design e cambiare il nostro stile di vita in positivo.

Cristina: Tu te ne stai occupando. Quanti impianti avete progettato?

Arthur Huang: Abbiamo ingegnerizzato circa 1.200 nuovi processi che a loro volta, possono essere suddivisi in quattro grandi categorie di macchinari che separano e trasformano la spazzatura che buttiamo tutti i giorni, dagli imballaggi, ai bicchieri e bottiglie in plastica, fino agli scarti tessili. Attraverso i trattamenti differenziati siamo in grado di ottenere una vasta moltitudine di materiali pre-lavorati, che successivamente possono essere utilizzati in edilizia o per altre categorie di prodotto.

Cristina: Indossi alcuni dei tuoi nuovi materiali, puoi indicarmeli?

Arthur Huang: Questa giacca è monomateriale, senza collanti aggiuntivi, fatta di bottiglie di plastica. I pantaloni anche, sono fatti al 100 percento da bottiglie di plastica, ma al tatto sembrano lana. Le scarpe anche sono in PET riciclato. Perfino i bottoni, gli occhiali e il cinturino dell’orologio sono realizzati con mozziconi di sigaretta. Questo bottone è stato fatto con quattro mozziconi raccolti in Svizzera e in Italia e stiamo creando una nuova generazione di bottoni e altri accessori. Questi sono gli occhiali da sole..

Cristina: Quanta energia si consuma per depurare le tossine da questi materiali?

Arthur Huang: È molto più facile di quanto si creda, è per questo che abbiamo creato un macchinario portatile, per dimostrare in realtà quanta poca energia serva. Tutti i processi del macchinario sono alimentati dall’energia solare, l’aria e l’acqua vengono filtrate in un sistema interno chiuso. Si ha un risparmio energetico pari al 90%, rispetto alla materia vergine proveniente dai fondali oceanici, che viene prelevato sotto forma di petrolio e poi trasformato.

Cristina: Quindi non rimangono tossine nel bottone di mozziconi?

Arthur Huang: Abbiamo fatto dei test – non rimangono tossine nei mozziconi dopo il processo. La macchina cattura tutti i fumi in un sistema chiuso di ricircolo interno.

In onda 1-12-2018

PARTE II

Cristina: Leggiamo sui giornali che c’è più materia prima seconda di quella richiesta sul mercato, è una situazione critica e gli stoccaggi di queste materie vengono addirittura bruciati. Il tuo sistema e la tua strategia, come possono avere un impatto a livello globale?

Arthur Huang: Innanzitutto, la maggior parte dei nostri sistemi sono progettati per essere portatili. Credo che sia molto importante poter avvicinare la tecnologia di trasformazione il più possibile alla fonte di spazzatura. Uno dei maggiori problemi oggi del processo di riciclo è la contaminazione. Una volta che avviene, la materia perde di valore e la lavorazione diventa molto costosa e addirittura più dannosa per l’ambiente. Il vantaggio di raccogliere e trasformare i rifiuti in loco è di rendere la materia prima seconda disponibile in situ a ingegneri e designer.

Cristina: Nella tua esperienza quali sono gli anelli mancanti per poter fruire di queste competenze, intelligenza e soluzioni?

Arthur Huang: Il primo anello mancante è il processo di riciclo in sé. Bisogna sapere come separare i rifiuti. Questa è la prima questione. Di tutti i materiali da riciclo disponibili, qualsiasi sia la percentuale di raccolta, meno del 2 percento viene trasformato in un nuovo materiale. Dopo la raccolta differenziata corretta, bisogna sapere come lavorare i rifiuti. Servono tantissimi dati per avviare il processo, anche a seconda dell’utilizzo finale. Verrà utilizzato per fare scarpe? Una sedia, o un palazzo? Hanno specifiche diverse. Noi adesso stiamo lavorando anche sui dati. Stiamo avviando un database aperto a tutti con 1.200 nuovi materiali, frutto del nostro lavoro degli ultimi 15 anni, così che le istituzioni lo possano utilizzare come strumento educativo per giovani designer ed ingegneri, affinché prendano confidenza con questi processi. Stiamo cercando di rendere il sistema circolare.

Cristina: Qual’è il tuo sogno?

Arthur Huang: Il nostro sogno adesso è di costruire un aereo fatto interamente di spazzatura. Abbiamo comprato un vecchio aereo in Germania e l’abbiamo spedito a Taiwan, dove stiamo inventando o meglio, cercando un nuovo processo per costruire l’ala, fatta in PET riciclato.

In onda 8-12-2018

Fabbriche d’aria

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Il Prof. Stefano Mancuso dell’Università di Firenze, esperto di neurobiologia delle piante, ci parla di un progetto che aiuterebbe chi vive in città a respirare meglio!

Cristina: Parliamo tanto di ridurre l’inquinamento e intanto inquiniamo, mentre non c’è abbastanza attenzione sulla depurazione.

Stefano Mancuso: L’unica cosa che riesce ad eliminare l’inquinamento atmosferico sono le piante. Le piante quindi dovrebbero stare nelle città, nella quantità più alta possibile. Più ne mettiamo, meglio è. Non soltanto nei viali o nei parchi ecc, ma veramente coprire le città di piante e anche in queste condizioni potrebbe non bastare.

Cristina: Voi avete sviluppato un progetto..

Stefano Mancuso: Il progetto che abbiamo chiamato Fabbrica dell’Aria, prevede l’utilizzo di ex-edifici industriali dismessi, da trasformare in delle enormi serre. Devi immaginare un edificio come un cubo in cui all’interno ci sono tanti cilindri. Ogni cilindro è fatto di vetro o cristallo, o di un materiale trasparente, all’interno del quale ci stanno queste piante, diversi strati di piante e l’aria è costretta a passare attraverso tutti questi cilindri.

Cristina: L’aria entra inquinata ed esce..

Stefano Mancuso: E quando esce è completamente purificata. Attualmente stiamo cercando di rendere realizzabile questo progetto nella città di Prato. Prato è una città che, se non erro, dovrebbe essere intorno ai 150 o 200.000 abitanti e avrà necessità per purificare l’intera quantità di aria della città, di quattro di questi edifici. Quindi anche da un punto di vista, non solo funzionale, ma estetico, saranno dei luoghi molto belli. Non bisogna appunto immaginarli come dei depuratori, bisogna immaginarli come degli edifici che contemporaneamente sono in grado di depurare l’aria di una città, ma allo stesso tempo sono dei luoghi che si potranno vivere. Le persone dovranno entrare in questi luoghi, questi luoghi dovranno poter essere luoghi di socializzazione, quello che vuoi! Delle librerie, dei bar, dei ristoranti, di tutto. La qualità dell’aria è talmente buona che addirittura la carica batterica viene abbassata, quindi è un’aria più pura in tutti i sensi.

Cristina: Salgono le endorfine, e tutti quegli ormoni che ci fanno stare bene e quindi non solo fa bene alle città, non solo fa bene all’aria, ma fa bene anche a noi. Che meraviglia, grazie Stefano. Occhio al futuro

In onda 27-10-2018