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Nadia Pinardi, la signora delle correnti marine

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Seppure siano ancora poche le donne che occupano ruoli chiave nella ricerca, le bolognesi sono pioniere. Da Laura Maria Caterina Bassi, prima scienziata ad avere una cattedra universitaria nel 1732, all’oceanografa Nadia Pinardi, che nello stesso ateneo felsineo svolge un lavoro di rilevanza strategica per comprendere i cambiamenti climatici. E non solo.

L’INTERVISTA A NADIA PINARDI SU THE GOOD LIFE ITALIA

Questa è una storia d’amore. Per la scienza, per un uomo, per il mare. È una storia di unioni tra persone, menti e discipline. Siamo alla fine degli anni Settanta quelli della crescita esponenziale della meccanica quantistica della fisica delle particelle e dei primi grandi esperimenti al Cern. Nadia Pinardi studia fisica all Università di Bologna Con Antonio Navarra e altri studenti crea un gruppo di lavoro per scoprire l’affascinante mondo dei principi primi della materia. Antonio è un “mostro” di bravura e i due hanno molto in comune. Entrambi trovano nelle scienze della Terra quella combinazione ideale tra la fisica classica e quella più avanzata. Il loro cammino di studi però si divide. Lui cambia corso e parte per la Princeton University. Diventa climatologo e studia il sistema atmosfera oceano e il cambiamento climatico globale. Pinardi completa la sua tesi sulla fisica delle particelle e si laurea cum laude ma non è soddisfatta. Incontra un suo vecchio professore e conversando con lui emerge lopportunità di lavorare con un gruppo di meteorologi e oceanografi che si è appena costituito a Colonia. Opportunità che la porta a conoscere Allan Robinson, celebrità della fluidodinamica geofisica e docente ad Harvard. È un pioniere dello sviluppo dei modelli delle dinamiche oceaniche. Così Pinardi parte per Boston dove consegue un dottorato in Scienze applicate. Oggi insegna Fisica dell’atmosfera e Oceanografia all Università di Bologna e collabora con le più importanti istituzioni del mondo. «Ancora oggi, in Italia, le discipline dell’atmosfera e dell’oceano sono relegate a scienze minori all’interno dei dipartimenti di Fisica, Ingegneria, Chimica o Scienze ambientali» racconta Pinardi sconfortata «Non hanno, come in molti Paesi, dipartimenti propri».

Pioniera delle previsioni oceaniche

L’esperienza americana allarga gli orizzonti di Nadia e di Antonio. Il loro legame diventa indissolubile anche fuori dal lavoro. Si sposano e hanno un figlio ed è grazie al marito che lei trova l’equilibrio tra il suo ruolo di madre e il percorso accademico. «È un compagno eccezionale ed è napoletano, che secondo me è il mas- simo». Stanno insieme da 40 anni e sono sposati da 31. Il figlio eredita il gene della fisica ed emula il percorso dei genitori, laureato in Fisica teorica è da poco partito per il Georgia Tech dove ha vinto una borsa di studio per un dottorato in Computer and Climate Science. Anche lui vuole avere un impatto sulla realtà. Pinardi è moglie e madre fiera e la sua missione è di unire i saperi. Le motivazioni con cui l’Università di Liegi le ha assegnato una laurea honoris causa lo scorso marzo riassumono bene il valore di un curriculum vitae lungo pagine e con centinaia di pubblicazioni. «Per i progressi della conoscenza scientifica nell’ambito delle previsioni del mare, l’applicazione di risultati scientifici ad ambiti ambientali e socioeconomici, la capacità di attrarre fondi verso la ricerca scientifica, l ‘energia e il dinamismo unici nel coinvolgere giovani studenti in progetti europei e internazionali per la ricerca avanzata». Il prestigioso ateneo belga che negli anni ha premiato Winston Churchill e Nelson Mandela conclude «Se chiedete a un oceanografo chi più di tutti abbia contribuito a dar forma al panorama europeo delle previsioni oceaniche probabilmente la risposta sarà Nadia Pinardi.»

Sempre sul campo

«Chi lavora nei laboratori e non va sul campo non capisce quanto sia difficile il mestiere dello scienziato che studia la natura e le sue componenti» spiega. Noi le verifiche delle teorie le abbiamo tutti i giorni. Quotidianamente confrontiamo i dati reali rilevati dai satelliti con quelli dei nostri modelli matematici. C’è una continua validazione dei dati teorici, come in nessun’altra scienza». Per capire meglio come si svolge il lavoro all’interno del suo dipartimento Pinardi racconta: «Il mare è difficile da scrutare. I satelliti rilevano dati sulla superficie ma sotto è diverso. Usiamo tecniche avanzatissime di robotica per poterlo campionare a 4.000 metri di profondità. L’Italia ha contribuito a costruire il sistema Copernicus per il monitoraggio dell’ambiente, che unisce dati marini e terrestri ricevuti da satellite. Io ogni giorno consulto la parte marina di Copernicus e posso vedere il livello del mare in diversi punti del Mediterraneo, la temperatura in superfiicie e la quantità di clorofilla. Poi raccolgo i dati delle boe Argo, sonde robotizzate sottomarine che stanno a una determinata profondità per 5-10 giorni e vanno alla deriva con le correnti misurando parametri quali temperatura e trasparenza dell’acqua. Questo consente di mettere in relazione ciò che si vede dal satellite con quello che avviene sotto la superficie del mare. Quindi prendo informazioni dal glider, un aliante comandato a distanza che vola su rotte prefissate raccogliendo dati. Può per esempio essere indirizzato verso una parte di mare dove ci sono emergenze o fioriture di alghe. In fine prendo tutti questi dati e li passo a un gruppo di ricercatori che ho contribuito a organizzare presso il Centro Euromediterraneo sui Cambiamenti Climatici (CMCC), che li analizza in tempo reale. Abbiamo creato un sistema per mettere in relazione i dati con i modelli e, grazie a questo confronto, correggere i modelli per migliorare le previsioni. Per essere efficaci occorre un enorme network internazionale: tanti satelliti, tante boe in tutte le parti del mondo Il mare è un fluido interconnesso, tutte le parti interagiscono tra di loro».

Il CMCC è diretto dal marito di Nadia. Insieme stanno portando l’Italia a livelli europei collaborando con il mondo intero. Le ricadute pratiche sono tante come spiega la scienziata: «Usiamo i nostri modelli previsionali quando c’è uno sversamento di petrolio, per capire dove è più probabile che si sposti nei giorni successivi all’incidente, in modo da piazzare le panne che assorbono gli idrocarburi e prevenire impatti devastanti sulle coste. Lo facciamo da oltre un decennio ed è molto più complicato di quanto sembri, perché una macchia di petrolio in mezzo al mare può teoricamente espandersi a gradi. Le informazioni che forniamo consentono un grande risparmio di risorse e una maggiore efficienza Sempre dal punto di vista ambientale, sviluppiamo modelli previsionali che indicano la presenza di alghe, per esempio quelle pericolose per la salute umana. In Italia siamo particolarmente avanzati in questo. Il nostro prossimo passo è applicare tali modelli allo studio della maricoltura off-shore: enormi gabbie in mare aperto dove il pesce è libero di muoversi e non è intrappolato, come accade negli allevamenti ittici costieri. Il Mediterraneo è molto profondo, specie nel Tirreno e nello Ionio già a chilometri dalla costa, ma bisogna convertire parte del lavoro della pesca alla maricoltura, e questo è un problema».

Il racconto di Nadia Pinardi è fluido e interconnesso come il mare che studia. Prevedere onde e correnti può ridurre il consumo di carburante delle navi e sempre in campo energetico contribuire allo sfruttamento di energie rinnovabili, quali le correnti marine o il moto ondoso. L’ultima frontiera della ricerca riguarda l’estrazione di minerali «Il fondale dell’oceano è ricco di minerali importantissimi per lo sviluppo dei computer. Le risorse terrestri sono pressoché esaurite, ma per andare a vedere cosa c’è sotto il mare bisogna conoscere le correnti in profondità, che sono fortissime. L’umanità per progredire ha bisogno di quelle risorse, ma dobbiamo gestire la loro ricerca in maniera corretta. Le nostre previsioni forniscono informazioni per ottenere risultati accettabili in relazione allo sforzo richiesto».

Il grande gigante gentile

Nell unire tecnologie e saperi non poteva mancare l’intelligenza artificiale applicata ai nuovi sistemi di osservazione satellitari della Terra e degli oceani «Sto seguendo il lavoro che si svolge a Boulder, in Colorado, dove c’è il più grande centro di studi meteorologici oceanografici americano, ho parlato con loro delle possibilità in questo settore». Le esperienze ad Harvard e a Princeton uniscono Nadia Pinardi e Antonio Navarra alla comunità americana che studia il clima della Terra anche per ciò che concerne le previsioni di eventi estremi come l’uragano Harvey che si è abbattuto sul Texas lo scorso agosto «Esiste un programma con il quale collaboriamo, allo Stevens Institute of Technology, nel New Jersey che si chiama Urban Oceanography. Da parecchi anni i nostri modelli sono in grado di prevedere con un anticipo di ore le inondazioni dovute a eventi meteorologici estremi, ma non sono molto usati. La ricerca è accurata. Adesso sono la società civile l’industria privata, i governi che la devono adottare».

Nadia Pinardi si muove sull’onda di un altro bolognese oggi semidimenticato, il conte Luigi Ferdinando Marsili ingegnere militare e scienziato vissuto a cavallo fra Sei e Settecento. Fu lui a comprendere che l’oceano ha due correnti, una in profondità che va in una direzione e una in superficie che va in quella opposta. Pinardi lo chiama il serpentone che si muove nel grande gigante gentile. Perché l’oceano è uno ed è tutto collegato. E a lui siamo indissolubilmente collegati anche noi.

Cradle to Cradle, oltre la sostenibilità

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L’INTERVISTA A MICHAEL BRAUNGART SU THE GOOD LIFE ITALIA

Se cuciniamo un piatto partendo da ingredienti mediocri sarà difficile correggerlo in corso d’opera, farlo diventare buono. Tenete in mente questa metafora: vi aiuterà a capire il significato del good design secondo Michael Braungart, teorico, con William McDonough, della filosofia produttiva che va sotto il nome di Cradle to Cradle (“dalla culla alla culla”).

Una filosofia che è diventata anche un’iniziativa concreta, l’Epea (Environmental Protection Encouragement Agency). Sono in tanti a sforzarsi di rendere prodotti e processi industriali meno dannosi per l’ambiente. Ma la posizione di Braungart è diversa: limitare i consumi e salvaguardare l’ambiente non basta.Soltanto ripartendo dalle basi, cioè dalle singole componenti degli oggetti e da come vengono assemblate, possiamo rispettare le leggi dell’ecosistema naturale di cui facciamo parte. «Sappiamo che gli equilibri della Terra sono minacciati, ma la vera innovazione richiede tempo» spiega Braungart. «Internet ha impiegato più di quarant’anni per diventare la rete che è oggi e sono trascorsi quasi 150 anni tra la Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e il suffragio femminile negli Stati Uniti. Dobbiamo essere più pazienti quando si tratta di grandi cambiamenti». Chi si occupa di sviluppo a prova di futuro (la parola “sostenibilità” è bandita dal vocabolario di Braungart) è spinto da un senso d’urgenza. «Rischiamo di spendere tutti i soldi per riparare i danni fatti e non avere più i mezzi necessari per cambiare le cose davvero. Anche considerando gli scenari peggiori e se ci comportassimo tutti come Donald Trump, almeno due miliardi di persone e due terzi delle specie sopravvivrebbero sulla Terra (le più minacciate però sono quelle che ci piacciono di più: scimmie, giraffe, tigri, elefanti).» Un’affermazione solo apparentemente paradossale. «C’è una contraddizione in natura: l’individuo non ha molta importanza, ma il collettivo sì. Con meno di mille tigri, la specie non ce la farebbe».

Visione positiva

La proposta di Braungart è considerare gli ultimi 40 anni, passati a discutere e disperarsi combattendo contro un’imminente fine del mondo, un investimento al servizio dell’innovazione futura. La sua è una narrazione propositiva e non catastrofista. L’uomo, secondo lo scienziato tedesco, può avere un impatto positivo sul pianeta, se agisce nel modo giusto. «Quando dipingiamo le cose come un dramma, enfatizziamo i problemi invece delle soluzioni. È assurdo. In parte si tratta di un fatto culturale. In Europa si fa più ricerca del necessario per capire le cause dei problemi, perché è così che si ottengono più finanziamenti. Quando poi si trovano soluzioni, si chiudono i rubinetti delle risorse economiche». Il problema, dunque, è tutto strategico. I decision makers che vogliono mettere in moto le migliori pratiche per una produzione che non impatti sulle generazioni future devono pianificare e comunicare i passi concreti che intendono fare e stabilirne le tempistiche di attuazione. E i consumatori devono essere informati in modo trasparente sui contenuti delle cose. «Partiamo dal presupposto che siamo nei guai e che lo abbiamo capito, ma mettiamo in circolo visioni positive e propositive».

Per ispirarsi è utile guardare ad altre culture. «Ultimamente ho letto alcune fiabe cinesi» racconta lo scienziato tedesco, che è un chimico di formazione. «Ho notato che non ce n’è una in cui vinca la persona più etica. Vince quella più ingegnosa». In questa cornice, cambiano anche i parametri dell’innovazione. A cominciare dal significato che diamo alla parola qualità. Un oggetto che contiene materiali tossici non può essere definito good design, anche se è una meraviglia dal punto di vista estetico. «Design significa progettazione, non creare cose belle. Se non si progettano le cose per essere buone, l’80% dei problemi che quell’oggetto crea all’uomo e all’ambiente non saranno imputabili all’uso che si fa del prodotto, ma alla sua stessa natura». Proprio come in cucina, sono gli ingredienti a fare la qualità dei piatti che cuciniamo. «Il consumatore è ormai sensibile al design problematico. Abbiamo bisogno di una nuova generazione di designer che voglia fare davvero la differenza e non limitarsi a far sembrare le cose un po’ diverse».

Ragionando a livello sistemico, l’unico che a lungo termine abbia senso, mutano i criteri di scelta degli oggetti che usiamo. Anche nel design. È un cambio di paradigma: prendere finalmente coscienza del fatto che tutto quello che viene a contatto con noi ha degli effetti. E che spesso si tratta di effetti dannosi, provocati da sostanze che potremmo evitare grazie a scelte informate. Ogni oggetto che entra nelle nostre vite ha una storia. Per scoprire se quella storia nasconde sorprese spiacevoli, il migliore alleato è la curiosità. La stessa curiosità che spinge alcuni produttori verso un design davvero good. «Penso a Stella McCartney. Lei ha una buona comprensione della qualità e dell’arte. O anche Jochen Zeitz con Puma: è stato un pioniere, ha capito che non si trattava solo di vendere scarpe». Il passaggio interessante è dal prodotto al servizio. «Se acquisti oggi un mobile per ufficio Giroflex, nel 2027 ti ricompenseranno con il 25% del prezzo di vendita e verranno a recuperare il materiale. L’azienda vende soltanto l’uso del prodotto, non la sua proprietà». Non vi vengono in mente faticose manutenzioni, traslochi, mucchi di cose che non servono più? Non dovreste più preoccuparvene e tutto quel tempo lo spenderemmo meglio. In questo film, che non è utopia ma una realtà possibile, i nostri apparecchi elettronici o addirittura gli impianti fotovoltaici sarebbero soltanto “in usufrutto”, con una data di riconsegna prefissata. Terminato il ciclo di vita di un oggetto, chi lo ha prodotto si occuperebbe di recuperare e riutilizzare le sostanze rare e preziose, far tornare in natura quelle organiche e fornirci un nuovo oggetto più aggiornato. Si avvia così il circolo virtuoso dell’economia circolare.

Esperimenti riusciti

C’è qualcuno che è riuscito a fare sistema con la logica Cradle to Cradle? Intanto, le aziende che hanno ottenuto la certificazione. Ma soprattutto chi, come i Paesi Bassi, sta per trasformare un intero Paese secondo i criteri “dalla culla alla culla”. «I Paesi Bassi si trovano in una situazione molto particolare» spiega Braungart. «Metà del Paese è sotto il livello del mare, quindi non hanno un atteggiamento romantico nei confronti della natura. Tutto il contrario dei tedeschi o del principe Carlo che parla di “madre terra” o “madre natura”. Con la madre ti scusi sempre, dato che la “madre” è sempre buona, per definizione». Ecco: gli olandesi da sempre vivono in un equilibrio naturale precario e ne hanno tratto le giuste conseguenze. «I Paesi Bassi hanno discusso e affrontato questi temi con sei, otto, persino dieci anni di anticipo rispetto al resto dell’Europa. Rheinhäfen, a Rotterdam, è una grande area portuale trasformata in un esperimento Cradle to Cradle». Il vecchio porto in disuso sarà oggetto di una sperimentazione per qualcosa come trent’anni, un periodo di utilizzo definito, durante il quale si pianificherà esattamente come gestire risorse, materiali, edifici. Un esperimento di design circolare che vuole trasformare un intero quartiere in un albero: un organismo che pulisce l’aria e purifica l’acqua, produce humus e ossigeno ed è anche un habitat per centinaia di specie.

Design ricostituente e piante

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Al primo Forum Mondiale sulle Foreste Urbane,

che si è tenuto a Mantova dal 28 novembre al 1 dicembre, ho avuto il piacere di moderare 2 persone che mi nutrono molto con la loro conoscenza. Paola Antonelli ha presentato Broken Nature: Takes on Human Survival, per la XXII Triennale di Milano, che dall’1 marzo 2019, animerà il capoluogo lombardo per 6 mesi. La mostra aprirà con la stanza del cambiamento, tema che ricorre in tutti i lavori della curatrice milanese, e finirà con la stanza dell’empatia e dell’amore. L’intento è di stimolare riflessioni e azioni di riparazione per stabilire un nuovo equilibrio con la natura.

Stefano Mancuso sarà il curatore della Nazione delle Piante, considerata alla stessa stregua delle altre Nazioni. Come ricorda lo scienziato, è di gran lunga la più abitata. Il 99,6% di ciò che è vivo appartiene al mondo vegetale, capace di fare la fotosintesi. Entrambi i relatori sono d’accordo che siamo avviati verso la sesta estinzione. Il ruolo del design, per Antonelli, è di aiutarci a estinguersi dignitosamente, con stile. Mancuso sorride, definendolo un approccio “dandy”. E incalza dicendo che estinguendoci dimostreremo che il nostro cervello, centrale di comando con poteri su tutto il nostro essere, non è un vantaggio dal punto di vista evolutivo. Per contro, le piante, che hanno un’intelligenza diffusa, sono molto più resilienti e adattabili.

Alla domanda: dove trovate gli stimoli più interessanti, Antonelli ha risposto: nei bambini, perché sono schietti e aperti. Mancuso, invece, ha risposto: in Giappone, perché c’è più rispetto per la natura.

Si è parlato di una necessaria integrazione tra il sapere e il sentire, ma per uomini di scienza è un terreno ancora “sospetto” e poco praticato. Mai come oggi è importante l’interdisciplinarietà.

Il potere della spazzatura

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Arthur Huang, architetto, ingegnere e CEO di Miniwiz, parla dei suoi processi e impianti per usare la risorsa più abbondate che abbiamo: la spazzatura! La macchina portatile Trashpresso, alimentata da energia solare, è stata a Milano nel Parco Sempione durante il Salone Internazionale del Mobile 2018.

PARTE I

Cristina: Oggi vi presentiamo un ingegnere che progetta impianti per la raccolta e la trasformazione dei rifiuti e pensate che ha ingegnerizzato 1200 nuovi materiali. Arthur, qual è il potere della spazzatura?

Arthur Huang: Oggi è la risorsa più abbondante. È ovunque, nei nostri oceani, nell’acqua potabile, perfino nei ghiacciai a 4.900 metri. Questa risorsa è in costante aumento e credo che dobbiamo occuparcene in modo da poter alimentare un nuovo modo di fare design e cambiare il nostro stile di vita in positivo.

Cristina: Tu te ne stai occupando. Quanti impianti avete progettato?

Arthur Huang: Abbiamo ingegnerizzato circa 1.200 nuovi processi che a loro volta, possono essere suddivisi in quattro grandi categorie di macchinari che separano e trasformano la spazzatura che buttiamo tutti i giorni, dagli imballaggi, ai bicchieri e bottiglie in plastica, fino agli scarti tessili. Attraverso i trattamenti differenziati siamo in grado di ottenere una vasta moltitudine di materiali pre-lavorati, che successivamente possono essere utilizzati in edilizia o per altre categorie di prodotto.

Cristina: Indossi alcuni dei tuoi nuovi materiali, puoi indicarmeli?

Arthur Huang: Questa giacca è monomateriale, senza collanti aggiuntivi, fatta di bottiglie di plastica. I pantaloni anche, sono fatti al 100 percento da bottiglie di plastica, ma al tatto sembrano lana. Le scarpe anche sono in PET riciclato. Perfino i bottoni, gli occhiali e il cinturino dell’orologio sono realizzati con mozziconi di sigaretta. Questo bottone è stato fatto con quattro mozziconi raccolti in Svizzera e in Italia e stiamo creando una nuova generazione di bottoni e altri accessori. Questi sono gli occhiali da sole..

Cristina: Quanta energia si consuma per depurare le tossine da questi materiali?

Arthur Huang: È molto più facile di quanto si creda, è per questo che abbiamo creato un macchinario portatile, per dimostrare in realtà quanta poca energia serva. Tutti i processi del macchinario sono alimentati dall’energia solare, l’aria e l’acqua vengono filtrate in un sistema interno chiuso. Si ha un risparmio energetico pari al 90%, rispetto alla materia vergine proveniente dai fondali oceanici, che viene prelevato sotto forma di petrolio e poi trasformato.

Cristina: Quindi non rimangono tossine nel bottone di mozziconi?

Arthur Huang: Abbiamo fatto dei test – non rimangono tossine nei mozziconi dopo il processo. La macchina cattura tutti i fumi in un sistema chiuso di ricircolo interno.

In onda 1-12-2018

PARTE II

Cristina: Leggiamo sui giornali che c’è più materia prima seconda di quella richiesta sul mercato, è una situazione critica e gli stoccaggi di queste materie vengono addirittura bruciati. Il tuo sistema e la tua strategia, come possono avere un impatto a livello globale?

Arthur Huang: Innanzitutto, la maggior parte dei nostri sistemi sono progettati per essere portatili. Credo che sia molto importante poter avvicinare la tecnologia di trasformazione il più possibile alla fonte di spazzatura. Uno dei maggiori problemi oggi del processo di riciclo è la contaminazione. Una volta che avviene, la materia perde di valore e la lavorazione diventa molto costosa e addirittura più dannosa per l’ambiente. Il vantaggio di raccogliere e trasformare i rifiuti in loco è di rendere la materia prima seconda disponibile in situ a ingegneri e designer.

Cristina: Nella tua esperienza quali sono gli anelli mancanti per poter fruire di queste competenze, intelligenza e soluzioni?

Arthur Huang: Il primo anello mancante è il processo di riciclo in sé. Bisogna sapere come separare i rifiuti. Questa è la prima questione. Di tutti i materiali da riciclo disponibili, qualsiasi sia la percentuale di raccolta, meno del 2 percento viene trasformato in un nuovo materiale. Dopo la raccolta differenziata corretta, bisogna sapere come lavorare i rifiuti. Servono tantissimi dati per avviare il processo, anche a seconda dell’utilizzo finale. Verrà utilizzato per fare scarpe? Una sedia, o un palazzo? Hanno specifiche diverse. Noi adesso stiamo lavorando anche sui dati. Stiamo avviando un database aperto a tutti con 1.200 nuovi materiali, frutto del nostro lavoro degli ultimi 15 anni, così che le istituzioni lo possano utilizzare come strumento educativo per giovani designer ed ingegneri, affinché prendano confidenza con questi processi. Stiamo cercando di rendere il sistema circolare.

Cristina: Qual’è il tuo sogno?

Arthur Huang: Il nostro sogno adesso è di costruire un aereo fatto interamente di spazzatura. Abbiamo comprato un vecchio aereo in Germania e l’abbiamo spedito a Taiwan, dove stiamo inventando o meglio, cercando un nuovo processo per costruire l’ala, fatta in PET riciclato.

In onda 8-12-2018

Fabbriche d’aria

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Il Prof. Stefano Mancuso dell’Università di Firenze, esperto di neurobiologia delle piante, ci parla di un progetto che aiuterebbe chi vive in città a respirare meglio!

Cristina: Parliamo tanto di ridurre l’inquinamento e intanto inquiniamo, mentre non c’è abbastanza attenzione sulla depurazione.

Stefano Mancuso: L’unica cosa che riesce ad eliminare l’inquinamento atmosferico sono le piante. Le piante quindi dovrebbero stare nelle città, nella quantità più alta possibile. Più ne mettiamo, meglio è. Non soltanto nei viali o nei parchi ecc, ma veramente coprire le città di piante e anche in queste condizioni potrebbe non bastare.

Cristina: Voi avete sviluppato un progetto..

Stefano Mancuso: Il progetto che abbiamo chiamato Fabbrica dell’Aria, prevede l’utilizzo di ex-edifici industriali dismessi, da trasformare in delle enormi serre. Devi immaginare un edificio come un cubo in cui all’interno ci sono tanti cilindri. Ogni cilindro è fatto di vetro o cristallo, o di un materiale trasparente, all’interno del quale ci stanno queste piante, diversi strati di piante e l’aria è costretta a passare attraverso tutti questi cilindri.

Cristina: L’aria entra inquinata ed esce..

Stefano Mancuso: E quando esce è completamente purificata. Attualmente stiamo cercando di rendere realizzabile questo progetto nella città di Prato. Prato è una città che, se non erro, dovrebbe essere intorno ai 150 o 200.000 abitanti e avrà necessità per purificare l’intera quantità di aria della città, di quattro di questi edifici. Quindi anche da un punto di vista, non solo funzionale, ma estetico, saranno dei luoghi molto belli. Non bisogna appunto immaginarli come dei depuratori, bisogna immaginarli come degli edifici che contemporaneamente sono in grado di depurare l’aria di una città, ma allo stesso tempo sono dei luoghi che si potranno vivere. Le persone dovranno entrare in questi luoghi, questi luoghi dovranno poter essere luoghi di socializzazione, quello che vuoi! Delle librerie, dei bar, dei ristoranti, di tutto. La qualità dell’aria è talmente buona che addirittura la carica batterica viene abbassata, quindi è un’aria più pura in tutti i sensi.

Cristina: Salgono le endorfine, e tutti quegli ormoni che ci fanno stare bene e quindi non solo fa bene alle città, non solo fa bene all’aria, ma fa bene anche a noi. Che meraviglia, grazie Stefano. Occhio al futuro

In onda 27-10-2018

La tecnologia satellitare che riduce gli sprechi idrici

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La media nazionale delle perdite idriche è del 39,1%. Il Responsabile Acquedotto di HERA, l’Ing. Emidio Castelli, ci spiega come la tecnologia satellitare può ridurre notevolmente questa percentuale nel nosto paese.

Cristina: La rete idrica italiana perde quasi il 40% della sua portata, oggi ci occupiamo di questo e di qualche soluzione. Voi avete circa il 10% in meno rispetto alla media nazionale di perdite nella rete idrica. Come avete conseguito questo risultato?

Emidio Castelli: Investendo e ragionando su diverse tecnologie che possono aiutare a ridurre le perdite. Dalle tecnologie di telecontrollo di porzioni di rete a sistemi acustici per individuare possibili perdite di rete sul campo e recentemente anche con l’introduzione di sistemi satellitari e monitoraggio del terreno. Si tratta di un sistema che fa un analisi spettrometrica del terreno, individuando possibili punti con presenza di acqua, correlate attraverso un algoritmo con la nostra rete acquedottistica, ci individua delle zone dove potrebbero esserci delle perdite

Cristina: Quante perdite avete identificato e riparato?

Emidio Castelli: Negli ultimi tre anni abbiamo individuato 2.400 perdite circa, e 214 di queste attraverso la tecnologia satellitare. Si tratta di perdite occulte che possono avere poca dispersione, ma prolungata nel tempo. L’attività svolta ci ha consentito di recuperare circa 750.000 metri cubi di acqua, l’equivalente di circa 450 milioni di bottiglie d’acqua.

Cristina: Sulla gestione della rete fognaria qual è la visione?

Emidio Castelli: Il servizio idrico è un servizio integrato che parte dalla potabilizzazione dell’acqua per portare l’acqua nelle case dei cittadini fino al riutilizzo delle acque da sistemi di fognatura e depurazione. Bisogna sempre più ragionare con quelli che possono essere strumenti di riutilizzo, anche diretto, delle acque e avere una visione di economia circolare della risorsa idrica.

Cristina: Diciamo che purtroppo non è né prodotta né distribuita in maniera l’acqua. Ci sono certe zone che ne hanno tantissima e altre zone che sono aride.

Emidio Castelli: È importante lavorare investendo, sia nelle interconnessioni delle reti, ovvero quello di mettere in comunicazione reti e acquedotti diversi, sia lavorare sulla realizzazione di bacini di accumulo che acconsentano di poter avere l’acqua accumulare la quando dove non ce n’è bisogno, per poterla ridistribuire quando c’è una criticità idrica.

Cristina: A partire dall’accumulo sui tetti delle case ad esempio..

Emidio Castelli: Anche a livello domestico, utilizziamo l’acqua potabile per degli usi che delle volte non sono prettamente necessari.

Cristina: Grazie. Torniamo a recuperare l’acqua come la usavano i nostri nonni e usiamola con responsabilità. Occhio al futuro

In onda 6-10-2018

Un viaggio nel futuro con Cristina Pozzi

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Vi gira la testa quando pensate agli scenari del futuro di lavoro, società e famiglia? Ecco un breve viaggio con Cristina Pozzi, autrice di 2050. Guida (fu)turistica per viaggiatori nel tempo. Cristina è anche fondatrice di Impactscool, che porta nelle scuole e università italiane percorsi di formazione per essere pronti ai grandi cambiamenti in corso.

Cristina: Quali sono i cambiamenti che ci aspettano nei prossimi anni? Cristina tu sei imprenditrice sociale e scrittrice e hai fatto un viaggio nel futuro, che cosa hai visto?

Cristina Pozzi: Sicuramente il futuro che ho visto nel 2050 è un futuro dove cambia l’ambiente in cui noi viviamo perché il nostro pianeta, ahimè, per effetto del riscaldamento globale sarà soggetto a tantissimi cambiamenti, però anche lo stesso concetto di ad esempio famiglia, potrebbe essere messo in dubbio, cambiare, evolversi, per effetto di evoluzioni della genetica. Per esempio già oggi si possono fare figli con tre genitori andando ad utilizzare il materiale genetico di tutti e tre, si fa già in Inghilterra.

Cristina: E come faremo ad aumentare le nostre capacità cognitive?

Cristina Pozzi: Potremo farlo in tanti modi, sia dal punto di vista chimico con medicine che si stanno già studiando che possono aumentare la nostra attenzione ad esempio, si anche con le cosiddette neurotecnologie che invece possono essere veri e propri impianti tecnologici o caschetti da indossare che sono in grado di aumentare la nostra creatività

Cristina: E se non sono a portata di tutti come costi?

Cristina Pozzi: Potrebbero essere a beneficio solo di alcuni. Probabilmente non vogliamo vedere una società dove solo alcune persone possono essere più intelligenti, più di successo sul lavoro o avere accesso a determinate cure, più sani. Per chi non se lo può permettere potrebbero esserci scenari dove addirittura si può ottenere una tecnologia in cambio però di essere soggetti a pubblicità, magari continue, in modo da poterlo avere gratuitamente.

Cristina: Pure cedendo i propri dati del DNA?

Cristina Pozzi: Assolutamente si, quello potrebbe diventare una vera e propria fonte di reddito, addirittura quasi uno dei tanti lavori che ci troveremo a svolgere perché molto probabilmente non svolgeremo un solo lavoro ma tanti contemporaneamente.

Cristina: E i mestieri di oggi spariranno. Quali sono quelli che secondo te rimarranno o nasceranno e saranno strategici?

Cristina Pozzi: Sicuramente trovandoci immersi in una realtà cambiata in pochissimo tempo e che facciamo fatica a comprendere, magari anche per la presenza di robot attorno a noi in qualunque situazione, la figura dello psicologo che ci può aiutare nel gestire il passaggio, sarà centrale.

Cristina: Secondo te c’è la formazione giusta per compiere questo viaggio verso il futuro?

Cristina Pozzi: Per ora no, il consiglio che do sempre è quello di imparare a essere curiosi e imparare ad imparare.

Cristina: Coniugando quindi i nostri naturali talenti e le nostre capacità intellettuali, di cuore, creative e la volontà. Occhio al futuro

In onda 29-9-2018

La pittura purificante di Airlite

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Airlite ha sviluppato una pittura che purifica l’aria e può essere utilizzata sia in interni che esterni. Neutralizza gli odori, i batteri e previene le muffe. Respinge la polvere e lo sporco e riduce l’inquinamento atmosferico.

Cristina: Non stiamo tutti meglio quando l’aria è leggera? Oggi vi raccontiamo di una tecnologia che ci consente di respirare meglio. Buongiorno Massimo, di che si tratta?

Massimo Bernardoni: È una pittura che contiene varie tecnologie. Riesce a purificare l’aria, riesce ad eliminare i batteri dalla superficie, le muffe, rimane più pulita nel tempo ed elimina anche gli odori. Noi eliminiamo gli inquinanti trasformandoli in sali, questa è una nanotecnologia, e poi ci sono altre tecnologie che non sono nano, che eliminano i batteri, le muffe ed eliminano la possibilità di sporcarsi le pareti con lo smog.

Cristina: Quindi i famosi baffi del calorifero?

Massimo Bernardoni: I famosi baffi dei caloriferi, gli angoli scuri… chiaramente nel tempo noi siamo molto più performanti.

Cristina: È completamente a base di minerali? Sono sostanze di origine petrolifera?

Massimo Bernardoni: Non abbiamo sostanze di origine petrolifera, è minerale, tant’è vero che quando si applica non ha odore.

Antonio Cianci: Con questa tecnologia dipingere una strada di 150 metri, a destra e a sinistra, equivale a piantare un bosco grande come un campo da calcio. Questo perché 12 metri riescono a ridurre l’inquinamento prodotto in un giorno da un’automobile.

Cristina: Assorbe anche particolato?

Antonio Cianci: In modo indiretto. Il particolato è generato dagli ossidi di azoto per sintesi fotochimica, noi ne abbassiamo i livelli e lo riduciamo in modo sensibilmente notevole.

Cristina: Ha anche la capacità di abbattere i consumi energetici. In che modo?

Antonio Cianci: Abbiamo la meravigliosa capacità di riflettere la componente calda della luce solare, quindi dipingendo la parete con questo prodotto si riesce a ridurre fino a 30 gradi la temperature in superficie. In questo modo minor calore passa all’interno e ho meno bisogno di usare riscaldamento o raffreddamento per condizionare la nostra stanza.

Cristina: Invece internamente avete una tecnologia che lavora quasi all’opposto? Creando una sorta di manto protettivo ma traspirante?

Antonio Cianci: La pittura è traspirante, permette quindi il passaggio di tutte le componenti senza creare ristagno e quelle brutte bolle che portano le muffe all’interno delle abitazioni, condizionando in effetti la stanza in modo naturale.

Cristina: In quanti colori esiste questa pittura?

Antonio Cianci: 180 colori. Devo dire che architettonicamente ha una resa molto bella, simile a quelle delle pitture decorative, permette anche finiture di lusso.

Cristina: Cosa succede quando metti insieme due italiani ingegnosi, uno più tecnico, l’altro più imprenditoriale, giovani nello spirito ma con esperienza? Spaccano.

In onda 5-5-2018

Enerbrain, efficientamento energico

By ecology, sdg 13, sdg 7, sdg 9, technology

Enerbrain, una start-up di Torino iniziata come 4 amici al bar, oggi si occupa di soluzioni di efficientamento energetico degli edifici attraverso sensori collegati nel cloud.

Cristina: Secondo la Commissione Energia dell’Unione Europea gli edifici consumano il 40% dell’energia totale ed emettono il 36% di CO2. Quali sono i vostri rimedi e come sono nati?

La scintilla è nata qua a Torino, nel corso di un inverno molto rigido ma con temperature variabili, in cui il nostro fisico Marco, si è domandato come potesse regolare meglio il suo impianto domestico.

Cristina: Come funziona la vostra tecnologia?

Andiamo ad installare all’interno degli ambienti dove vogliamo ricreare delle condizioni di comfort, sensori di umidità, temperatura e concentrazione di CO2, quindi per la qualità dell’aria. Ne mettiamo un numero minimo necessario per poter garantire il comfort all’interno di qualsiasi tipo di ambiente. Li posizioniamo in uno o due giorni e questi vanno a parlare direttamente con degli attuatori, un’altra parte di hardware, da installare in centrale termica. I dispositivi si parlano attraverso un’applicazione o un software e ogni 5 minuti va a regolare meglio l’impianto. In questo modo si risparmia.

Cristina: Gli impianti non li cambiate, semplicemente li rendete più efficienti.

Esatto, senza interrompere il normale funzionamento di un impianto, in due giorni andiamo ad efficientare e partiamo subito con i risparmi.

Cristina: Quali sono i risultati? Sia in termini di risparmio energetico che economico.

Il risparmio economico è proporzionale al risparmio energetico, siamo arrivati ad ottenere dei risparmi di energia termica di oltre il 30%.

Cristina: Una soluzione semplice ed efficace per edifici esistenti.

In onda 17-3-2018

Il green data center di EXE

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Ogni informazione generata in rete passa attraverso un data center, dove si trovano server, sistemi di archiviazione, sistemi informatici e infrastrutture di telecomunicazione. Inoltre, sono necessari impianti di controllo ambientale quali condizionamento e antincendio per garantire la sicurezza. I consumi energetici complessivi di questi centri informatici rappresentano una delle principali fonti di inquinamento del pianeta e di costo per le aziende.
In questa storia scoprirete come per abbattere l’impatto ambientale legato a tecnologie che si diffondo in rete, é necessario intervenire sull’edificio in tutte le sue parti.
Oggi Executive Service è l’unico “green” data center in sud Europa. Siamo andati a trovarli vicino a Bologna per scoprire come la tecnologia e la sostenibilità possano vivere in armonia.

CRISTINA: Sapete che 15 minuti di video in streaming online consuma la stessa energia del frigorifero di casa in 3 giorni? E che internet consuma quanto l’intera aviazione civile mondiale? Perché qualsiasi informazione che sia in tv, su un telefono,  o su internet passa per un data center. Infatti siamo nel primo green data center a zero emissioni in sud Europa, ed è in provincia di Bologna. Cosa significa un data center a zero emissioni?

Gianni Capra: Un data center a zero emissioni vuol dire che tutto il funzionamento del datacenter è basato su energia assolutamente o autoprodotta, o acquistata da un’azienda in grado di certificare la fonte rinnovabile di un certo tipo. Escludiamo ad esempio fonti rinnovabili di provenienza chippato, alghe, pellet o qualsiasi cosa che comporti combustione. Tutto ciò che alimenta i nostri server non deve causare combustione di alcun genere, quindi si escludono a priori emissioni di CO2.

Cristina: Quali sono i vantaggi per chi usa il vostra servizio?

Gianni: Riceve una certificazione reale della propria attenzione all’ambiente, in quanto la nostra certificazione di emissioni zero ci consente di emettere certificati gratuiti a tutti colori i quali portano in toto o in parte i loro schemi informativi in questo data center.

Cristina: Avete il sostegno e anche l’incoraggiamento della comunità europea.

Gianni: La comunità europea, ufficialmente ha dichiarato la propria preoccupazione nei confronti della rapida e ripida crescita dei data center, in quanto la comunità europea stessa ha individuato i data center nei massimi emettitori di CO2 nel mondo occidentale.

Cristina: E qual’è la vostra ricetta di sostenibilità in questo spazio?

Gianni: Il 50% è legno, l’intero stabile è costruito in legno. Altre scelte tecnologiche riguardano la bassa densità nei rack o armadi o scaffali, e la rinuncia totale ai dischi rigidi. Quindi tutti i nostri server utilizzano memorie allo stato solido come quelle del tuo telefonino e il raffrescamento, che per il 79% del tempo annuo è fatto con aria non condizionata.

Cristina: A che temperatura girano i vostri server?

Gianni: Noi lavoriamo fino a 29 C contro i 19-20 di un data center tradizionale.

Cristina: Grazie. Nei prossimi decenni l’intera popolazione umana sarà connessa in rete, è quindi fondamentale ridurre le emissioni dei data center. E come avete visto, è possibile.