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Federico Faggin, la scienza della consapevolezza

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È tra i padri del microprocessore e del touch pad. Oggi, con la Fondazione Federico ed Elvia Faggin, indaga la natura della coscienza cercando di estendere il metodo scientifico per esplorare la mente.

Federico Faggin, fisico, inventore e imprenditore, è nato a Vicenza il 1° dicembre 1941, si laurea in fisica summa cum laude nel 1965 all’Università di Padova e dal 1968 risiede in California. Quell’anno, alla Fairchild sviluppa la tecnologia MOS con porta di silicio, che consente la fabbricazione dei primi microprocessori e delle memorie EPROM e DRAM, cuore della digitalizzazione dell’informazione. Diventa poi capo-progetto e designer dei primi microprocessori Intel (4004, 8008, 4040 e 8080). Nel 1974 co-fonda e dirige la Zilog, dove progetta il microprocessore Z80. Nel 1986 Faggin co-fonda e dirige Synaptics, che sviluppa i primi touch pad e touch screen. Il 19 ottobre 2010 Faggin riceve dal presidente Barack Obama la Medaglia Nazionale per la Tecnologia e l’Innovazione per l’invenzione del microprocessore e l’anno dopo fonda la Federico ed Elvia Faggin Foundation, dedicata allo studio scientifico della coscienza.

L’INTERVISTA A FEDERICO FAGGIN SU THE GOOD LIFE ITALIA 

Lo sfondo della Basilica Palladiana, in piazza dei Signori a Vicenza, non potrebbe essere più adatto. L’armonia delle forme, la cadenza regolare di archi e aperture laterali, le campate di ampiezze variabili, creano un insieme che è più potente delle singole parti. Anche la carriera di Federico Faggin è una somma di parti, un lavoro di squadra che il fisico vicentino ha concertato esercitando le virtù del leader naturale.

È stato infatti grazie ad una sinergia delle menti giuste che Faggin ha fatto nascere, nel 1971, l’Intel 4004, il primo microprocessore e una vera rivoluzione per l’informatica. Un oggetto che, a guardarlo, ha anche lui una sua armonia: i circuiti integrati creano un pattern, ed è la giusta disposizione di queste parti a garantire la potenza dell’insieme.

Federico Faggin ha 77 anni e una lunga carriera alle spalle, ma non smette di guardare avanti e oggi studia la natura della coscienza. Già nel 1986 fonda Synaptics con lo scopo di sviluppare computer capaci di auto-apprendere attraverso strutture di reti neurali. Un’intuizione che anticipava di 30 anni le ricerche nel campo dell’intelligenza artificiale. Dalla fisica Faggin ha imparato che esiste solo un mondo oggettivo fatto di materia, energia, spazio e tempo. «Se la coscienza è una proprietà del cervello, mi dicevo, deve essere possibile riuscire a fare un computer consapevole» racconta con lo sguardo intenso di un uomo che non finirà mai di indagare. «Avevo un comitato scientifico di neuroscienziati molto validi e la domanda che ponevo loro era “Qual è la differenza tra consapevolezza e cervello?” Loro rispondevano “la consapevolezza è un fenomeno del cervello”». In altre parole, non c’è differenza.

Faggin vuole capire meglio e intraprende da allora un lungo e appassionante percorso. Mette a confronto e armonizza la sua mente scientifica con l’intuizione e il suo dialogo interiore con la fenomenologia del mondo esteriore. Una ricerca di cui è parte integrante Elvia Faggin, moglie e compagna di una vita.

Nel 1992 Synaptics sviluppa un’altra invenzione destinata a cambiare il nostro modo di rapportarci alle tecnologie: il touch pad. «È nato da una sciocchezza» racconta. «Una piccola rottura di scatole. Ero nel consiglio di amministrazione di Logitech, che produceva trackball (le palline usate al posto del mouse sui primi laptop, ndr). Ma ogni paio di giorni dovevo aprirlo e pulirlo perché il grasso delle mani lubrificava la pallina. In quel periodo avevo un piccolo gruppo di ricerca e lanciai la proposta di cercare un’alternativa alla trackball ricorrendo a elettroniche a stato solido. In un paio di mesi, abbiamo inventato il touch pad che sostituì i trackball, e anche il touch screen, per il quale non esisteva ancora una piattaforma».

La rivoluzione della mente

Faggin rivoluzionerà il mondo della scienza come ha fatto con quello dell’informatica? «Il mio obbiettivo è capire, non rivoluzionare» risponde con ferma umiltà. «Dopo anni di ricerche ho vissuto un’esperienza che ha ribaltato la mia prospettiva. Era il 1990. Avevo quasi 50 anni e ho avuto un’esperienza percettiva spontanea, non indotta e brevissima, in cui mi sono sentito simultaneamente il mondo e l’osservatore del mondo. Un evento fondamentalmente diverso da quelli ordinari, in cui ci sentiamo separati dagli altri. È stata una rivelazione profonda. Ho capito che dovevo esplorare la mia consapevolezza in prima persona. Io non so se lei sia consapevole, né lei sa se lo sono io. Non possiamo provarlo scientificamente, e questo è parte del problema».

Faggin si affida allora a una psicologa transpersonale, non per rimuovere traumi, ma per capire i processi della mente e aprirsi a idee nuove. Studia, approfondisce, vive altre esperienze. «Dopo quella prima ne ho avute molte altre, come risposta a quello che cercavo. E continua a essere così. Faccio un sogno e mi sveglio con un’idea. So che sono guidato. Come sarebbe possibile, altrimenti? Non è
possibile che ci arrivi da solo. Noi siamo guidati». Il suo candore è illuminante.

Faggin ha trovato nel Diamond Approach, fondato da A. H. Almaas il metodo per indagare le molteplici dimensioni del potenziale umano attraverso un percorso che integra psicologia e spiritualità.

Ritiri, lezioni e meditazioni, studio e pratica segnano 10 anni della vita di Faggin. Finché, nel 2008, capisce come restituire al mondo ciò che, fino a quel punto, era stato un processo personale. Cede ai giapponesi la sua ultima società, Foveon, che produce sensori per l’acquisizione di immagini. Esce dai consigli d’amministrazione di cui era membro e nel 2009 decide che vanno finanziate le ricerche sulla consapevolezza, partendo dall’ipotesi che essa sia una proprietà fondamentale della natura. Conosce studiosi in gamba che la pensano come lui, ma non trovano fondi. Perché la premessa è che la consapevolezza è solo una funzione del cervello. Per questo nel 2011 nasce la Fondazione Federico ed Elvia Faggin. «È stato Federico a volere il mio nome nella Fondazione. Non ho nessun ruolo nell’originare idee, ma quando si sveglia di notte con delle idee, mi sveglio con lui e ne parliamo. In questo senso sono molto partecipe» racconta Elvia. «Spazio e tempo sono due ossessioni di Federico: durante le nostre conversazioni cerca di incastrare i pezzi del puzzle nel suo modello filosofico-scientifico».
«La nostra dinamica Ying-Yang riflette le polarità alla base della
vita» conferma Faggin. Nella sua nuova visione, l’ambito fenomenologico, cioè lo studio dei fenomeni anche scientifici, deve unire l’aspetto intuitivo, femminile, con il maschile, razionale. La ricerca di Faggin si è spinta molto lontano dall’idea di creare un “computer consapevole”.

«La scienza e la spiritualità devono trovare un’armonia che oggi non c’è. Sono considerati due campi separati, coesistono ma non si riconoscono. Così riduciamo da un lato la nostra umanità a una macchina, e dall’altro coltiviamo un senso di superiorità riguardo alla scienza e alla materia. Dobbiamo andare oltre, se vogliamo scoprire la natura della realtà».

Un altro modo di vedere

Lo scienziato Faggin ha dunque sviluppato un diverso modo di osservare il mondo e i suoi fenomeni. «Io non posso osservare direttamente il mondo interiore di un’altra persona. Devo cercare di capirlo interpretandone i segni: le parole, il comportamento, l’insieme dell’aspetto fisico. La nostra coscienza, però, che assumo esista prima dello spazio-tempo, può percepire gli altri come se stesso». Può sembrare strano, ma, come spiega Faggin, è lo stesso tipo di contraddizione che sta alla base della fisica quantistica. «Il qubit, cioè il bit quantistico è sia zero che uno. È allo stesso tempo vero e falso. Ciò deriva dal fatto che la realtà è olistica. Non esiste una parte distinguibile dall’altra. La fisica classica è riduzionista e le sue parti sono separate e identificabili. La meccanica quantistica è olistica, e le sue parti sono i campi quantici. Questi sono identificabili, ma inseparabili: sono “parti intero”, cioè gli aspetti identificabili di un universo indivisibile. Nel modello che sto mettendo a punto, il campo quantico è solo l’aspetto fisico di una entità più vasta che chiamo “unità di consapevolezza”. L’unità di consapevolezza è un sé cosciente con un aspetto interno semantico e un aspetto esterno simbolico. I due aspetti si riflettono l’un l’altro. Come le due facce di una stessa medaglia».

La ricerca di Faggin si è spinta molto lontano dall’idea di un “computer consapevole” capace di programmarsi da solo mimando il processo decisionale dell’uomo. Oggi Faggin è giunto alla conclusione che quel tipo di calcolatore non si può progettare. «Come faccio a tradurre quello che provo in segnali elettrici o biochimici che sia, e viceversa? Percepiamo la realtà attraverso sensazioni e sentimenti, emozioni e pensieri. Che non hanno niente a che vedere con i segnali elettrici». Non è una resa della scienza: solo la conclusione che il vero “computer” da studiare è dentro di noi.

Formafantasma indaga il riciclo dei rifiuti elettronici

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Gli elementi preziosi nell’elettronica hanno tre problematiche: il danno all’ambiente nell’estrazione; la breve durata di vita dei dispositivi stessi; alla fine del loro ciclo di vita, non vengono adeguatamente riciclati. Si stima che entro il 2080, le più grandi riserve minerarie non saranno più sottoterra, ma in superficie, come lingotti o come parti di materiali da costruzione, elettrodomestici, mobili e device.
Simone Farresin e Andrea Trimarchi di Studio Formafantasma hanno condotto un’indagine ambiziosa sul riciclaggio di rifiuti elettronici con il loro progetto Ore Streams – in esposizione durante Broken Nature alla Triennale di Milano

Cristina: Questo cassetto è fatto con il case di un vecchio computer. Pensate, i rifiuti elettrici ed elettronici sono quelli che crescono più in fretta, solo il 30% però viene riciclato. Intervenire sul restante 70% è molto complesso perché complessi sono gli oggetti di cui parliamo e complicate sono le filiere.

Simone Farresin: La smontabilità degli oggetti è fondamentale, pertanto per esempio istituire un sistema di viti universale sarebbe utilissimo. Per esempio il nero dei cavi elettrici è molto difficile da riconoscere per i sistemi che vengono utilizzati per separare, i lettori ottici. Cambiare semplicemente il colore dal nero ad un colore aiuterebbe il riconoscimento dei cavi elettrici e il recupero del rame. Per di più sarebbe fondamentale istituire un sistema di etichettatura che dica all’utente, nel momento in cui compra un oggetto elettronico, quanto durerà nel tempo. Ovviamente questi oggetti vengono riciclati ma in modo un po’ più sofisticato nei nostri paesi, invece nei paesi in via di sviluppo che hanno bisogno di un codice colore che li aiuti a comprendere in modo intuitivo quali sono i componenti pericolosi per essere smontati a mano, in modo tale che il riciclo venga fatto nel modo opportuno.

Cristina: Voi avete incontrato per il vostro progetto attori lungo tutto la filiera, dove avete incontrato la maggiore resistenza?

Andrea Trimarchi: Devo dire che una delle cose più complesse in realtà è stata entrare in contatto con i produttori di elettronici. Abbiamo parlato con università, con produttori, aziende di riciclo, abbiamo parlato anche con persone che si occupano di leggi. Diciamo che quelle sono state più disponibili poi ad accoglierci, la cosa più difficile appunto è stata parlare con i produttori.

Cristina: Perché non sono disposti ad essere parte della soluzione?

Simone Farresin: Probabilmente perché è molto complesso in questo momento investire risorse economiche per cambiare veramente le cose invece di semplicemente fare dei piccoli passi avanti che vengono usati simbolicamente come sistema pubblicitario invece che di reale interesse per il riciclo di questi prodotti.

Cristina: Voi avete una soluzione a tutte, qual è?

Andrea Trimarchi: Una delle più probabili soluzioni potrebbe essere di organizzare tavoli dove i vari attori del sistema produttivi, dai produttori di elettronica ai riciclatori e ovviamente anche designer, possano incontrarsi su queste tematiche.

Cristina: Sembra assurdo, questo non avviene già?

Andrea Trimarchi: Purtroppo no, anche in ambito legislativo spesso vengono messi insieme i riciclatori e anche i produttori, ma la maggior parte delle volte, noi designer che siamo quelli che trasformano le materie prime in oggetti, non facciamo parte di queste riunioni.

Cristina: Il design può e, in questo caso, ha un ruolo politico, lasciamoci ispirare.

In onda 30-3-2019

Fanghi da depurazione diventano risorsa con Bioforcetech

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Il fango da depurazione è quella frazione di materia solida contenuta nelle acque reflue urbane ed extraurbane, che viene rimossa negli impianti di depurazione durante i vari trattamenti depurativi necessari a rendere le acque chiarificate compatibili con la loro reimmissione in natura senza creare alterazioni all’ecosistema. Complessivamente, in Italia vengono prodotte circa 3.000.000 di ton/anno di fanghi da depurazione. Più o meno inquinati. Eliminarli correttamente costa una media di 150€/ton, totale sono 450.000.000 €/anno. Con il sistema di Bioforcetech, che diminuisce notevolmente il rifiuto e lo trasforma in Biochar, si può arrivare ad un risparmio del 90% . Perché riducendo il volume del 90% si riducono altrettanto tutti i costi i consumi energetici e di trasporto.

Cristina: Il problema che trattiamo oggi nasce dalle nostre fogne, riguarda la salute di tutti noi. La soluzione nasce da un gruppo di giovani italiani che hanno progettato un macchinario capace di trasformare rifiuti in risorsa.
Gli scarichi urbani, industriali e agricoli vengono raccolti in impianti che separano la parte liquida da quella solida, per poi essere trattati. La legge consente di riutilizzarne una parte in agricoltura. Nel 2017, 60 comuni lombardi si sono uniti per contestare l’uso dei fanghi da depurazione nei terreni dove cresce il cibo che mangiamo, hanno fatto ricorso al TAR e hanno vinto. La loro preoccupazione era di non poter tutelare la salute dei cittadini. La questione è divampata, generando interventi e analisi in diverse regioni italiane. Sono stati trovati elementi inquinanti elevati come idrocarburi, PFAS e altre sostanze nocive. Mangiamo cibo inquinato più di quanto pensiamo.
In seguito alla decisione dal TAR sono stati abbassati del 90% gli inquinanti ammessi nei fanghi da depurazione usati in agricoltura. Ma gli impianti non sono stati in grado di adeguarsi alle nuove norme e il sistema è entrato in crisi. Data l’emergenza, nel Decreto Genova, quello del ponte, si è inserito un aggiornamento che porta la soglia al 50% di quella iniziale. Fifty Fifty, come si suol dire! Con il rischio di continuare a mangiare cibo inquinato.
Le soluzioni ci sono, e questa che vedete è capace di depurare i fanghi direttamente dove vengono raccolti, trasformandoli in risorse pulite e nutrienti, riducendone peso e volume del 90%, usando pochissima energia esterna e producendo energia rinnovabile. Si tratta di un essiccatore biotecnologico che non usa combustione diretta, dove nella prima parte il calore emesso dalle sostanze organiche viene recuperato e diventa energia per essiccare i fanghi. Successivamente attraverso un procedimento in assenza di ossigeno i fanghi vengono portati a temperature che vanno dai 350C° ai 700C° – secondo la qualità della materia di partenza. Il prodotto che esce da questo macchinario si chiama biochar ed è altamente fertilizzante. I vostri macchinari dove li avete installati?

Matteo Longo: Abbiamo installato le nostre prime macchine negli USA, il più importante si trova a San Francisco dove trattiamo 7000 tonnellate all’anno di fanghi di depurazione. Noi le macchine le produciamo in Italia, proprio perché vogliamo lavorare con le piccole-medie imprese italiane a costruire le nostre macchine.

Cristina: Oltre ai vantaggi ecologici che abbiamo visto, quelli economici quali sono?

Matteo Longo: Quelli economici sono molto interessanti. Complessivamente, in Italia vengono prodotte circa 3.000.000 di ton/anno di fanghi di depurazione. E hanno un costo di smaltimento di circa 150€/ton (totale 450.000.000 €/anno). Con i nostri processi andremmo ad abbattere del 90% il costo proprio grazie alla diminuzione del rifiuto, che poi possiamo anche riutilizzare come ammendante per il terreno nel caso del biochar.

Cristina: Il biochar serve come materiale filtrante per bonificare acque inquinate e fumi nocivi. Può diventare un biomateriale per il design e l’architettura, filamento per le stampanti 3D e chissà …. Conviene a tutti fare i conti con la realtà. E promuovere l’economia circolare. Non solo a parole ma coi fatti.

Mirrorable, la piattaforma di riabilitazione motoria

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Circa 17 milioni di bambini nel mondo sono stati diagnosticati con paralisi cerebrale infantile, causata da una lesione al sistema nervoso centrale. Combinando la ricerca scientifica e la tecnologia, Francesca e Roberto hanno creato Mirrorable, una piattaforma di riabilitazione motoria che aiuta i piccoli pazienti a muovere le parti “offese” del corpo e a stimolare il potenziale residuo.

Cristina: Oggi vi raccontiamo la storia di una famiglia che ha saputo trasformare un’esperienza devastante,  in un’opportunità, per milioni di bambini nel mondo. Francesca e Roberto, scoprono a pochi giorni dalla nascita che il loro piccolo Mario, ha subito un ictus nel ventre della mamma o appena nato, e che questo ha impattato la parte destra del suo cervello.

Francesca Fedeli: All’inizio è stato difficile per noi accettare questa diagnosi e abbiamo cominciato a cerare medici, cercare soluzioni in giro per il mondo, ma soprattutto a studiare. In questa ricerca, nello studio, abbiamo scoperto il meccanismo dei neuroni specchio, le cellule che si attivano sia quando compiamo un un gesto, afferriamo un oggetto,  sia quando vediamo un’altra persona compiere lo stesso gesto. È da li che poi siamo partiti per Mario per cercare una soluzione che si è rivelata vincente. Infatti è riuscito ad allenare di più la parte sinistra del cervello a compensare per quella destra.

Cristina: Oggi, Francesca e Roberto, queste due persone straordinarie aiutano tantissime famiglie a migliorare la qualità delle loro vite. Circa 17 milioni di bambini nel mondo sono stati diagnosticati con paralisi cerebrale infantile, causata da una lesione precoce al sistema nervoso centrale. Combinando la ricerca scientifica e la tecnologia Francesca e Roberto, hanno creato una piattaforma di riabilitazione motoria, che si chiama Mirrorable e che aiuta i piccoli pazienti a muovere le parti “offese” del corpo e a stimolare il potenziale residuo.

Roberto D’Angelo: Per noi è cambiato tutto quando abbiamo capito una cosa molto semplice: che il modo migliore di aiutare nostro figlio era quello di aiutare tutti i bambini al mondo come lui. Abbiamo fatto disegnare un processo di riabilitazione ai bambini per i bambini stessi e l’unica cosa veramente importante per questi bambini, prima di tutto, era il gioco e la possibilità di imparare nuovi skill motori grazie ad un altro bambino come loro con le stesse condizioni. Qualche anno fa sarebbe stato impossibile ma oggi, grazie alla tecnologia, siamo riusciti a realizzare questo direttamente nelle case di questi bambini. Grazie poi all’intelligenza artificiale siamo riusciti a creare un processo altamente personalizzato sulle emozioni del singolo bambino in modo tale che ne potesse trarre il massimo del beneficio. Per darvi un’idea, in un mese di corso di magia, questi bambini hanno migliorato le proprie capacità bi-manuali di una media del 26%. Un risultato straordinario.

Cristina: La scorsa estate Mirrorable è diventato anche un Camp, e i risultati sono stati molto incoraggianti.

Francesca: I risultati del Mirrorable Camp, in via di pubblicazione, sono stati per noi entusiasmanti perché davvero siamo riusciti a dimostrare che questi bambini migliorano non soltanto dal punto di vista delle capacità bi-manuali, ma anche quelle che sono le loro abilità di apprendimento e migliorano anche gli indicatori di benessere globale, sia del bambino, che di tutta la famiglia.

Cristina: Mai come quando un problema ci tocca da vicino, possiamo diventare parte della soluzione.

In onda 23-2-2019

re3CUBE – smaltire i rifiuti medici

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re3CUBE è una tecnologia che consente di abbattere gli ingenti costi di smaltimento per i rifiuti sanitari pericolosi e di evitarne il trasporto per centinaia di km.

Cristina: Quando andiamo dal medico per curarci, produciamo spesso rifiuti infettivi o pericolosi. Sono i guanti, le garze, siringhe. Finiscono in contenitori come questi, sono volumi immensi, pensate che in un solo mesi per raggiungere i siti autorizzati per il loro smaltimento si percorre la stessa distanza che c’è tra la terra e la luna: 384.400 km. Per un costo sempre mensile di 13 milioni di euro. Siamo venuti a Tortona per raccontarvi una soluzione che elimina queste scatole, che riduce costi, inquinamento e responsabilità. Luciano in che cosa consiste il vostro dispositivo?

Luciano Scibilla: Il nostro dispositivo serve per migliorare e cambiare un po’ la gestione dei rifiuti dei piccoli produttori. I nostri clienti sono dentisti, veterinari, quelle cliniche che producono quel tipo di rifiuto che è il 180301. Con questa macchina, tutta la burocrazia si elimina perché noi sterilizziamo direttamente dove vengono prodotti e nel momento in cui la sterilizzazione è finita, cioè entro le 4 ore, il certificato arriva via email direttamente spedito dal nostro centro di controllo che monitora la macchina passo passo durante tutto il ciclo. Ha la capacità di gestire circa 1,5-2 kg di rifiuti giornalieri, nel tempo stiamo mettendo a punto macchine che hanno una produttività migliore. Siamo già pronti con una macchina da 15 kg e quindi pensiamo di poter risolvere anche le problematiche di entità più grosse. Noi trituriamo il tutto, lo sterilizziamo e lo trasferiamo in un sacchetto che poi può essere tranquillamente gettato in un contenitore assimilabile ai rifiuti urbani.

Cristina: La vostra ambizione più grande?

Luciano Scibilla: Quella di poter riuscire a servire ospedali: i piccoli e grandi ospedali pubblici ma anche quelli privati dove c’è una produzione elevatissima. Si parla di 4,500 kg al giorno e noi stiamo mettendo a punto una macchina che riesce a gestirne fino a 9,000. Questo taglierà completamente il costo di un’ospedale di almeno il 60%. Basta pensare che questo oggetto è il risultato di una scatola di 60 litri ridotta in 6 litri, quindi ridotta del 90% e poi della quale un piccolo smaltitore spendeva molto meno fino a ieri con un sistema tradizionale.

Cristina: Grazie Luciano. Lo stiamo vedendo in molti ambiti, gestire i rifiuti laddove vengono prodotti è sicuramente la migliore soluzione.

In onda 3-2-2019

RI-generation, elettrodomestici circolari

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L’Italia nel 2017 ha raggiunto un tasso di ritorno complessivo dei RAEE del 41,19%, un risultato che dovrà essere incrementato per raggiungere il target europeo pari al 65% della media dell’immesso del triennio precedente entro il 2019. Gli elettrodomestici oramai sono fatti per essere sostituiti e non per durare, il progetto RI-generation è un esempio di economia circolare

Cristina: La maggior parte delle cose che usiamo nasce da un modello di economia lineare, ossia è fatto per essere sostituito e non per durare. Questo genera sprechi ed inquinamento e sappiamo che così non si può continuare. Mimando la natura dove tutto si rigenera e ricordando il buonsenso dei nostri nonni, nasce l’economia circolare, che oggi vi raccontiamo attraverso la storia di una lavatrice.

Riccardo Bertolino: Noi intercettiamo i grandi elettrodomestici: lavatrici, lavastoviglie, frigoriferi e cucine che vengono rottamati. Hanno un grandissimo valore ancora, classi energetiche dalla classe A o superiori e non vi immaginate il valore che questi prodotti hanno ancora perché il vostro credere comune è che quando la lavatrice si rompe non conviene più ripararla.

Cristina: Quindi hanno superato la garanzia ma hanno meno di 5-7 anni.

Riccardo Bertolino: Esatto. Noi comunque rigeneriamo un prodotto di classe energetica ancora attuale ai giorni nostri.

Cristina: Come funziona il processo?

Riccardo Bertolino: Noi abbiamo creato delle collaborazioni con i logistici che lavorano per conto della grande distribuzione e consegnano a casa vostra il prodotto nuovo, a costo zero ritirano il prodotto vecchio. Prima che venga buttato dentro ai cassoni per essere triturati, noi li selezioniamo valutando appunto la classe energetica, marca e modello. L’elettrodomestico viene portato nei nostri laboratori per una rigenerazione che non è una semplice riparazione, ma è anche sostituzione dei componenti usurati e un processo di sanificazione e un intervento di pulizia estetica del prodotto.

Cristina: Alla fine quanto costerà questo elettrodomestico?

Riccardo Bertolino: Lo rivendiamo con una garanzia di un anno, a prezzo meno della metà del nuovo. Il prodotto venduto ha anche degli upgrade, sistemi anti-allagamento, anti calcare e volendo facciamo anche una personalizzazione grafica per il cliente dietro richiesta. Questo consente da un rifiuto, avere un prodotto quasi come fosse un pezzo unico.

Cristina: Non rigenerate solo gli elettrodomestici ma anche le esperienze e il sapere delle persone che lavorano qui.

Riccardo Bertolino: L’Italia è stata la culla produttiva degli elettrodomestici ma molte aziende hanno delocalizzato all’estero, le persone rimangono con forti competenze tecniche che noi usiamo.

Cristina: Grazie Riccardo. Questi prodotti rigenerati si trovano online, purtroppo però con l’IVA al 22%, in Svezia si paga l’IVA al 10% per i prodotti rigenerati e speriamo che questo succeda molto presto anche in Italia. Occhio al futuro

In onda 26-1-2019

Rosalba Bonaccorsi, la cacciatrice di alieni

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“La passione per la vita nello spazio è sempre stata in me. L’ho scoperta appena ho cominciato a pensare.”

L’INTERVISTA A ROSALBA BONACCORSI SU THE GOOD LIFE ITALIA

La maggior parte di noi lo spazio lo sogna. Rosalba Bonaccorsi, astrobiologa, lo pensa, lo studia e lo racconta. Ricercatrice presso il SETI Institute – Search for Extra Terrestrial Intelligence – in cooperazione con Nasa Ames, e membro del Carl Sagan Center for the Study of Life in the Universe, Bonaccorsi cerca la vita su altri pianeti. In particolare, su Marte. Mestiere che la porta a essere imprenditrice, esploratrice, educatrice. Conduce una vita estrema, fatta di notti a scrivere proposalsnel suo piccolo laboratorio-studio a Nasa Ames, nel cuore della Silicon Valley, e di osservazioni e analisi dei sedimenti sul campo, nella Death Valley, luogo definitohigh fidelity, ossia molto simile a quello del pianeta rosso. Ma anche high intensity,per via delle forti escursioni termiche. Oggi i suoi risultatisono un importante tassello di un programma che alletta molti ricercatori e imprenditori: la conquista di un pianeta abitabile.

Raggiungo la ricercatrice bergamasca (ormai quasi californiana) al telefono. Per lei è mezzanotte, mattino per noi.  Mi sento un impostore, seppure sia stata lei a fissare l’appuntamento. “Tranquilla, ho tutto il tempo che occorre, e quando finiamo la nostra conversazione, scriverò”, mi rassicura. Skype non è accessibile nella zona high security dove risiede. Nel raggio di un chilometro dal suo ufficio, ci sono tecnologie tra le più avanzate al mondo.

Il 2015 è stato un anno importante per la ricerca della vita su Marte. “Grazie alle immagini più definite dei satelliti, sappiamo che c’è acqua”, racconta con un picco di emozione. Questa conferma dà una valenza nuova alla sua ricerca.

Ho conosciuto Rosalba lo scorso anno, per raccontare il suo progetto Lunar Plant Growth, nato in collaborazione con Chris McKay, un mito della Planetary Science. Insieme, hanno costruito un modulo capace di far germogliare semi di pomodoro e basilico sulla luna. Mentre cerca un passaggio per la magica scatoletta su un volo spaziale destinato al nostro satellite naturale, per testarla, McKay tenta di convincere Google a partecipare all’impresa. Tra un ciak e l’altro della nostra video-intervista, Rosalba mi aveva raccontato della sua vera missione: trovare segni di vita su Marte. Oggi parliamo di questo. “Da anni conduco le mie ricerche nella Death Valley (Deserto del Mojave, California), tra i posti più caldi della terra. Il mio sito di osservazione è nel Cratere Ubehebe, luogo fragile e prezioso. Per i  Timbisha Shoshone, i nativi della zona, è Valle della Vita, l’ombelico del mondo, centro della Creazione. Mi addentro nella conca millenaria con un senso di infinita connessione al cosmo e con l’entusiasmo per le scoperte scientifiche all’orizzonte. Devo conoscere tutto di lei per conoscere Marte. L’area presenta molti aspetti Marziani: i crateri sono coperti da ceneri vulcaniche e contengono depositi argillosi in pozze lacustri di breve durata. Tali pozze si formano in seguito a sporadiche ma violentissime piogge, proprio come plausibilmente accadde su Marte qualche miliardo di anni fa.”

Come un detective, cerca indizi di vita cellulare, micro-algale, capace di risvegliarsi per tempi brevissimi. Cogliere l’attimo è conoscenza, esperienza e intuizione. E’ partire, pronti a sopportare prove fisiche estreme: “Quando scendo nel cratere durante i giorni più caldi (48 C) o quando risalgo nelle notti più oscure e fredde, (-16 C) mi sento veramente su Marte! Il più grande pericolo, lì, è la disidratazione. Il corpo umano a 45° C e 1% di umidità perde 1 litro di acqua salata l’ora (siamo fatti di acqua di mare!) che deve essere reintegrato con elettroliti. Come un’astronauta, devo calcolare quanta acqua portare. La minaccia di ipotermia e morte sono i limiti della mia attività esplorativa. Poi, devo essere pronta ad affrontare tempeste di sabbia e bombe d’acqua. Il mio veicolo, una sedandel 2000, è la mia capsula di sopravvivenza, e i miei amici Ranger, le guardie del parco, sono i miei grandi alleati.”

I depositi lacustri che Rosalba osserva sono molto simili a quelli scoperti nel Gale Craterdal Rover Curiosity, il robot atterrato sul pianeta rosso nel 2012. Ma la notizia bomba arriva il 26 settembre 2015, quando il Mars Science Labdella Nasa annuncia: risolto il mistero di Marte. Ricorrenti Slope Linae (RSL)confermano che scorre acqua. Le RSLsono striature di sali sulle pendici di alcuni crateri, resi evidenti dalle immagini ad alta definizione del satellite Mars Reconaissance Orbiter. Dal flusso regolare di dati, gli studiosi hanno visto che le striature appaiono e aumentano nelle stagioni calde e svaniscono in quelle fredde.

Rosalba spiega l’implicazione rivoluzionaria: “Nei periodi di acqua liquida su Marte, si ipotizza che la vita microbica possa riprodursi, crescere e tornare dormiente.  E’ esattamente ciò che osservo nel deserto: una vita effimera, nascosta, criptica, che usa brevissimi intervalli per manifestarsi.”

Al rientro dalle escursioni, Bonaccorsi incrocia dati raccolti su Marte e in altri luoghi sulla Terra che hanno caratteristiche simili, come il deserto di Atacama, in Perù, sul quale sta scrivendo un paper. “Quando lì piove, il deserto fiorisce, segno che non solo i microbi possono risvegliarsi, ma anche alcuni semi. Sul nostro pianeta, in zone molto aride dove sembra che non ci sia vita, si dimostra che invece basta poca acqua per ridestarla. Il Sacro Graal sarebbe di trovare su un pianeta cellule vive, o molecole prodotte da cellule viventi.”

La tentazione di chiederle un’opinione su Il Sopravvissuto (The Martian), il film del 2015 diretto da Ridley Scott con Matt Damon, è irresistibile. Mark Watney è un’astronauta che viene abbandonato su Marte dal suo equipaggio, che lo crede morto. “E’ molto realistico in termini di progetti della Nasa”, racconta, “meno per quanto riguarda le condizioni di sopravvivenza di Watney (Matt Damon). Nel deserto provo emozioni ed esperienze simili, anche se posso respirare senza il casco. Il 2015 ha regalato un altro bel film agli appassionati di fantascienza, Interstellar. “Va guardato diverse volte – c’è dramma, scienza, e fisica quantistica, difficile da capire anche per uno scienziato.”

Avere le idee chiare sin da piccoli non guasta, ma non è detto che avere successo sia più facile. Rosalba Bonaccorsi ha fatto molta strada per arrivare fino alla Nasa. Un passo che, da ragazza le sembrava “improbabile”, un posto che ha conquistato con perseveranza e umiltà. Rosalba non ha scienziati in famiglia. Figlia unica, da bambina è attratta dal cielo stellato, e vuole capire come funzionano le cose. Smonta la sveglia meccanica della nonna, osserva, rimonta, ma non funzionerà più. La nonna s’infuria ma Rosalba non si arrende e continua a sperimentare di nascosto con insetti, semi e rocce che polverizza per magiche pozioni colorate.

Crescendo si sente diversa: “Ero una nerd ma non mi vergognavo affatto”. Lascia Bergamo per l’Università, a Milano, dove s’iscrive a Scienze Naturali. Si laurea con una tesi sui delfini del Mar Ligure e una sottotesi in geologia, sui sedimenti marini e le carote del Mar Mediterraneo Orientale che servono per verificare i cambiamenti climatici avvenuti 5 milioni di anni fa. Primo mentore è la Professoressa Maria Bianca Cita, “Una forza della natura. Quello che ho imparato con lei mi ha catapultato verso il dottorato di ricerca all’Università di Trieste”, racconta Rosalba con un picco di piacere. Un percorso difficile. A suo tempo, ai dottorati si accedeva solo se scelti da un professore, “ E io non ero stata scelta. Ho dovuto partecipare a 22 concorsi e ce l’ho fatta solo perché mancava un candidato.”  Quanti sono pronti a tanto impegno per raggiungere un obiettivo? Rosalba dovrebbe tenere un corso sulla perseveranza.  A Trieste studia i sedimenti marini dell’Antartide, che, per vie traverse, la porta all’astrobiologia, perché l’Antartide è un “analogo” per Marte.

Maggio 1995. Durante il terzo e ultimo anno, Rosalba legge un inserto per uno stage alla Nasa sulla rivista Nature. Pur non avendo sponsor, fa domanda. 10 settimane interamente spesate nell’istituto di ricerca più ambito al mondo le sembrano un sogno. La prendono. Non ci può credere, ma dopo l’emozione della vittoria, il rifiuto. Al Biosphere 2, in Arizona, dove negli anni 70 si fecero i primi esperimenti di isolamento umano, (poi campus universitario), dicono di non avere tempo per seguire un altro studente. Il disguido, se così lo vogliamo chiamare, getta Rosalba nella disperazione più buia. La direttrice del programma presso la Nasa, Lynn Margulis, le scrive dispiaciuta per l’accaduto. Passata la bufera emotiva, la giovane e ambiziosa ricercatrice pensa: “se sono stata scelta una volta solo per quello che so fare, se la mitica Margulis (una delle mogli di Carl Sagan, ha sfiorato il Nobel e ha lavorato alla teoria Gaia con James Lovelock) ha preso il tempo per scrivermi, posso farcela di nuovo.”

Per farsi conoscere e per creare contatti con ricercatori interessati a sponsorizzare il suo post dottorato, viaggia per convegni, portando il suo lavoro sull’Antartide. Nel frattempo, l’arrivo di internet semplifica le procedure. Così incontra i suoi “cavalieri di Nasa Ames” come li chiama lei. Dopo il primo triennio, Rosalba trova fondi per continuare, ma fare ricerca pura è sempre più difficile, così integra le sue risorse economiche collaborando con il Death Valley National Park e organizzando seminari. Ora sta preparando con loro la quarta edizione del Mars Fest. Suona hippy, ma è un evento serio, che avrà particolare rilevanza nel 2016 perché ricorre il centenario del National Park Service.

Rosalba sogna di andare su Marte?

“Tempo fa ero frustrata di essere nata troppo presto per arrivarci – a meno che non venga rapita dai Marziani! Oggi, però, mi rendo conto che quando sono nel cratere della Death Valley mi sento su Marte. Non poterci andare per davvero non mi mancherà troppo.”

Il suo sogno a occhi aperti è di continuare la sua ricerca senza affanni e di essere d’ispirazione alle nuove generazioni per creare un mondo più pacifico. “La scienza non è solo un fine, è anche un mezzo per condividere con i nostri compagni umani, per scambiare conoscenza. Vorrei sviluppare modelli educativi, lavorare un po’ in Europa, fare da ponte tra diverse culture e luoghi nel mondo. Mi avvicino a questo con Spaceward Bound Project, che quest’anno mi porterà in India. Andremo nei villaggi a parlare di astrobiologia e faremo ricerca sull’Himalaya per studiare i ghiacciai, i deserti di alta quota e le sorgenti geotermali, insieme a colleghi indiani, australiani, neozelandesi e americani.”

Una persona così impegnata, audace e intensa non accetta compromessi nemmeno quando si tratta di relazioni sentimentali. “La vita romantica c’è stata e ci sarà”, commenta. Fiera di essere donna in un mondo di uomini, tra un impegno e l’altro trova anche il tempo per scrivere qualche verso.

Da “Reti di Luce”:

Geme e dispera la Potenzialita’ Inespressa,
che forse altrove, dispone e ricrea
una Rete di luce,
In un altro Universo.

Robots and us, un viaggio in Giappone

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Questo è un assaggio di un viaggio in Giappone dove ho potuto incontrare scienziati e designer che stanno sviluppando i robot del futuro.

ROBOT: Sono molto felice.

CRISTINA: Ti senti mai solo?

ROBOT: Sì, la notte mi sento solo. Mi sento solo.

SHIGURE: Gli esseri umani hanno sempre un po’ di tensione nei confronti del prossimo, mentre gli androidi sono molto più semplici. Sono robot, e gli uomini si fidano più di un robot che di un’altra persona. Questo robot ha l’obiettivo di controllare gli anziani. Kobian può realizzare espressioni a tutto corpo e anche soltanto espressioni facciali. Penso che i robot addetti alla comunicazione con l’uomo saranno parte fondante della nostra società tra non più di dieci anni. Lo scopo di questo robot è di monitorare l’ambiente, in particolare zone disastrate, come Fukushima.

Il potere della spazzatura

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Arthur Huang, architetto, ingegnere e CEO di Miniwiz, parla dei suoi processi e impianti per usare la risorsa più abbondate che abbiamo: la spazzatura! La macchina portatile Trashpresso, alimentata da energia solare, è stata a Milano nel Parco Sempione durante il Salone Internazionale del Mobile 2018.

PARTE I

Cristina: Oggi vi presentiamo un ingegnere che progetta impianti per la raccolta e la trasformazione dei rifiuti e pensate che ha ingegnerizzato 1200 nuovi materiali. Arthur, qual è il potere della spazzatura?

Arthur Huang: Oggi è la risorsa più abbondante. È ovunque, nei nostri oceani, nell’acqua potabile, perfino nei ghiacciai a 4.900 metri. Questa risorsa è in costante aumento e credo che dobbiamo occuparcene in modo da poter alimentare un nuovo modo di fare design e cambiare il nostro stile di vita in positivo.

Cristina: Tu te ne stai occupando. Quanti impianti avete progettato?

Arthur Huang: Abbiamo ingegnerizzato circa 1.200 nuovi processi che a loro volta, possono essere suddivisi in quattro grandi categorie di macchinari che separano e trasformano la spazzatura che buttiamo tutti i giorni, dagli imballaggi, ai bicchieri e bottiglie in plastica, fino agli scarti tessili. Attraverso i trattamenti differenziati siamo in grado di ottenere una vasta moltitudine di materiali pre-lavorati, che successivamente possono essere utilizzati in edilizia o per altre categorie di prodotto.

Cristina: Indossi alcuni dei tuoi nuovi materiali, puoi indicarmeli?

Arthur Huang: Questa giacca è monomateriale, senza collanti aggiuntivi, fatta di bottiglie di plastica. I pantaloni anche, sono fatti al 100 percento da bottiglie di plastica, ma al tatto sembrano lana. Le scarpe anche sono in PET riciclato. Perfino i bottoni, gli occhiali e il cinturino dell’orologio sono realizzati con mozziconi di sigaretta. Questo bottone è stato fatto con quattro mozziconi raccolti in Svizzera e in Italia e stiamo creando una nuova generazione di bottoni e altri accessori. Questi sono gli occhiali da sole..

Cristina: Quanta energia si consuma per depurare le tossine da questi materiali?

Arthur Huang: È molto più facile di quanto si creda, è per questo che abbiamo creato un macchinario portatile, per dimostrare in realtà quanta poca energia serva. Tutti i processi del macchinario sono alimentati dall’energia solare, l’aria e l’acqua vengono filtrate in un sistema interno chiuso. Si ha un risparmio energetico pari al 90%, rispetto alla materia vergine proveniente dai fondali oceanici, che viene prelevato sotto forma di petrolio e poi trasformato.

Cristina: Quindi non rimangono tossine nel bottone di mozziconi?

Arthur Huang: Abbiamo fatto dei test – non rimangono tossine nei mozziconi dopo il processo. La macchina cattura tutti i fumi in un sistema chiuso di ricircolo interno.

In onda 1-12-2018

PARTE II

Cristina: Leggiamo sui giornali che c’è più materia prima seconda di quella richiesta sul mercato, è una situazione critica e gli stoccaggi di queste materie vengono addirittura bruciati. Il tuo sistema e la tua strategia, come possono avere un impatto a livello globale?

Arthur Huang: Innanzitutto, la maggior parte dei nostri sistemi sono progettati per essere portatili. Credo che sia molto importante poter avvicinare la tecnologia di trasformazione il più possibile alla fonte di spazzatura. Uno dei maggiori problemi oggi del processo di riciclo è la contaminazione. Una volta che avviene, la materia perde di valore e la lavorazione diventa molto costosa e addirittura più dannosa per l’ambiente. Il vantaggio di raccogliere e trasformare i rifiuti in loco è di rendere la materia prima seconda disponibile in situ a ingegneri e designer.

Cristina: Nella tua esperienza quali sono gli anelli mancanti per poter fruire di queste competenze, intelligenza e soluzioni?

Arthur Huang: Il primo anello mancante è il processo di riciclo in sé. Bisogna sapere come separare i rifiuti. Questa è la prima questione. Di tutti i materiali da riciclo disponibili, qualsiasi sia la percentuale di raccolta, meno del 2 percento viene trasformato in un nuovo materiale. Dopo la raccolta differenziata corretta, bisogna sapere come lavorare i rifiuti. Servono tantissimi dati per avviare il processo, anche a seconda dell’utilizzo finale. Verrà utilizzato per fare scarpe? Una sedia, o un palazzo? Hanno specifiche diverse. Noi adesso stiamo lavorando anche sui dati. Stiamo avviando un database aperto a tutti con 1.200 nuovi materiali, frutto del nostro lavoro degli ultimi 15 anni, così che le istituzioni lo possano utilizzare come strumento educativo per giovani designer ed ingegneri, affinché prendano confidenza con questi processi. Stiamo cercando di rendere il sistema circolare.

Cristina: Qual’è il tuo sogno?

Arthur Huang: Il nostro sogno adesso è di costruire un aereo fatto interamente di spazzatura. Abbiamo comprato un vecchio aereo in Germania e l’abbiamo spedito a Taiwan, dove stiamo inventando o meglio, cercando un nuovo processo per costruire l’ala, fatta in PET riciclato.

In onda 8-12-2018

Tooteko, dispositivo per non vedenti

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Un progetto di tesi di laurea diventato realtà. Serena Ruffato, CEO di Tooteko, ci racconta come funziona il loro dispositivo, che permette ai non vedenti di vivere le opere d’arte, toccandole. Deborah Tramentozzi, esperta tiflologa non vedente, condivide con me la sua esperienza di una statua del Canova.

Cristina: Siamo a Roma in uno spazio che oggi è un ristorante, ma un tempo ero lo studio di Antonio Canova. Siamo qui per raccontarvi di un’applicazione tecnologica che è anche un’importante esperienza umana. Serena, come funziona l’applicazione che avete creato?

Serena Ruffato: La tecnologia combina audio e tatto per permettere a tutti, anche i non-vedenti, di poter toccare le opere d’arte. Funziona con questo anello, che è un lettore di sensori speciali NFC che andiamo a posizionare nelle opere d’arte e attraverso il tatto riconosce i sensori e trasmette via smartphone una informazione audio.

Cristina: Annegare nelle opere significa che lavorate con delle copie

Serena: Assolutamente, prendiamo l’opera originale, la selezioniamo, la scansioniamo, la riproduciamo con la stampa 3D e poi applichiamo i nostri sensori.

Cristina: Deborah, raccontaci come sei attrezzata per vivere questa esperienza e cosa ti comunica

Deborah Tramentozzi: Sono attrezzata attraverso questo anello, che ha al suo interno un’antenna. Questa antenna comunica con un tag che è posto qui sulla statua, che io adesso con un dito toccherò. Nel momento in cui io lo metto sul tag, l’anello emette una vibrazione e comunica con lo smartphone. Il quale farà partire un’audioguida. Adesso ve lo dimostro in modo pratico. Questa tecnologia, collegando i due sensi che uso particolarmente, che sono il tatto e l’udito, mi permette di una visione, a me piace chiamarla così, dell’opera d’arte senza alcun filtro. Io primo vengo da un ambiente artistico, quindi ho vissuto visite guidate però sempre attraverso il filtro di un’altra persona, che prima che io potessi vedere l’opera d’arte mi dava un’idea. In questo modo invece sono io e la mia persona, il mio carattere, che si fa un’idea propria dell’opera d’arte, e posso letteralmente vedere come ognuno di voi. Questo penso che sia un regalo grandissimo perché dare al non vedente l’indipendenza e la libertà di scegliere di poter entrare in un museo, che è una cosa a tutti secondaria, per me è veramente una frontiera che potrebbe avere dell’impossibile. Ti chiedo di fare una cosa, se tu chiudi gli occhi faccio partire io il prossimo tag e tocco con te la statua, che ne pensi?

Cristina: Assolutamente volentieri, grazie. È emozionante, perché mi consente anche di entrare in una sorta di risonanza empatica con l’esperienza di Deborah. Speriamo che questo progetto consenta a più persone possibili di vivere l’arte  in questo nuovo modo.

In onda 17-11-2018