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Cristobal Jodorowsky – Lo sciamano di famiglia

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I nostri problemi? Hanno radici antiche e profonde nelle vite degli avi. La soluzione: scoprire che cosa si nasconde nell’albero genealogico.

 

“Quanto assomiglia a sua mamma”, “però il carattere è tutto del papà!”. Queste frasi fatte le sentirete con altre orecchie, se vi capita di seguire un seminario di Cristobal Jodorowsky. “Nella vita danziamo la coreografia del nostro albero genealogico”, spiega Cristobal, poi passiamo anni a cercare noi stessi. I giudizi degli altri sigillano nell’ inconscio un’idea che spesso non corrisponde alla nostra natura più intima. Ci conosciamo per come siamo conosciuti, non per come realmente siamo. Le opinioni, i concetti e le attitudini delle  persone “influenti” nella nostra vita, sono come un vestito, che, strato dopo strato, dobbiamo imparare a togliere. Con grandissimo humor e charme, il giovane Jodorowsky porta “in scena” la sua grande conoscenza dell’essere umano, appresa insieme al padre Alejandro, durante una vita di ricerca. Hanno aperto i sentieri dello psicosciamanesimo, della biogenealogia, dello studio dell’albero genealogico e della psicomagia., conclude Alejandro. E. Indagando nella vita dei loro”pazienti”, si addentrano nei meandri più remoti della loro mente. Interrogano e ascoltano, per poi “prescrivere” la cura con atti di psicomagia. “Accedere ai problemi di una persona significa entrare nella sua famiglia, penetrare l’atmosfera psicologica del suo ambiente”, scrive Alejandro Jodorowsky in “Psicomagia”, edito da Feltrinelli. “Tutti siamo marcati, per non dire contaminati, dall’universo psicomentale dei nostri antenati. Così molti individui fanno propria una personalità che non è la loro, ma che proviene da uno o più membri della loro cerchia affettiva. Nascere in una famiglia è, diciamo, essere posseduto. Questo possesso si trasmette di generazione in generazione: la persona stregata si converte in stregone, proiettando sui suoi figli ciò che prima era stato proiettato su di lei…a meno che non si acquisti coscienza della situazione e si rompa il circolo vizioso”Racconta Cristobal:“A 15 anni ero già impegnato in questo cammino, e ho avuto la fortuna che mio padre iniziasse a sperimentare su di me la sua conoscenza. Sono stato la sua cavia per ogni pratica che abbiamo incontrato: dal massaggio sciamanico alla meditazione zen. Era tutto così intenso che non volevo più andare a scuola!  Sono nato con i tarocchi di marsiglia in mano, è partita lì la ricerca di Alejandro, ma non è mai stato un interesse folcloristico. Poi è giunto allo studio dell’albero, che mi ha appessionato più di tutti. Per “guarirlo”, ha indagato il corpo metaforico (la nostra identificazione con ciò che ci circonda, contro ciò che realmente siamo,ndr.) e la psicomagia. Tutto ciò che trasmetto è risultato di esperienze vissute in prima persona, il nostro è un metodo molto concreto. Per guarire le mie ansie”, prosegue Cristobal, “dovevo lavorare su tutta la mia famiglia, conoscere gli antenati che vivono in me, dialogare con loro, aiutarli ad evolvere, perdonarli, e farmi perdonare da loro. Aprendo la mente, con la fantasia, siamo diventati un’altra famiglia, lavorando sull’albero, ci siamo trasformati. Gli antenati sono diventati miei alleati, sostenengono il mio mondo interiore, guidandomi”. Prendere consapevolezza del proprio albero apre le porte al mito che è in ciascuno di noi. Dalla famiglia, che influenza profondamente il nostro sentire, arriviamo a capirci meglio. Ci portiamo addosso un palco di rami, fitto, misterioso, ripetitivo. Lo studio della genealogia offre indizi che portano a comprendere il rapporto che abbiamo col nostro corpo, nostra unica vera casa, con le emozioni, e con la forza del nostro intelletto. Questi tre livelli dell’essere: fisico, emotivo e del pensiero, sono influenzati dalle tre generazioni che ci hanno preceduto: rispettivamente, dai genitori, i nonni e i bisnonni.

Cristobal insegna a comprendere le dinamiche che abbiamo ereditato, e a modificarle. Con una straordinaria capacità interpretativa, recita i ruoli di genitore e figlio, di marito e moglie, cogliendo a pieno i classici comportamenti che entrano in gioco. Come in “Opera Panica” la famiglia Jodorowsky  porta in scena nei teatri l’allegoria delle nevrosi quotidiane, e con grande umorismo, toccano le corde più intime di ognuno di noi, così tramite le “terapie paniche”, Alejandro e Cristobal aiutano a muovere dinamiche comporamentali fissate nel nostro inconscio. Primo passo è osservare il proprio albero: chi, in famiglia, ci assomiglia di più nel carattere? Che rapporto abbiamo con i nostri genitori? E i nostri genitori con i loro? I nonni andavano d’accordo? A questa analisi, segue l’azione dell’atto psicomagico, che viene assegnato dopo una minuziosa e scrupolosa indagine della storia personale.

Così guidata, la ricerca sugli avi svela una prospettiva nuova sugli intrecci e le dinamiche potenti che si innescano all’interno di una famiglia. Si scopre un mondo ricco di avventure e sventure, di enigmi e segreti, che sono poi le nostre lotte e le nostre conquiste.  “Sono arrivato ai lavori sull’albero e allo psicosciamanesimo perché il rapporto con mio padre e con tutta la mia famiglia era molto doloroso”, racconta Cristobal. “Ho un’ eredità artistica forte, da parte di entrambi i gentitori, e da bambino ero profondamente traumatizzato. Soffrivo così tanto che mi son detto: affronto il mio malessere o mi suicido. Strada facendo, però, ho imparato a curarmi, e oggi aiuto gli altri a risolvere le difficoltà a trovare sé stessi. Ho capito che ho una missione. Come mio padre. Faccio teatro, cinema, dipingo, e mescolo arte e conoscenza in un percorso che definisco di neo-misticismo. Quando insegno, la mia esperienza di attore è preziosa. La bellezza è una potente medicina”. Cristobal, come Alejandro, hanno allenato all’ennesima potenza la loro sensibilità artistica, lavorando con sciamani e maestri in ogni parte del mondo. Come gitani, hanno viaggiato fuori e dentro sè stessi, per codificare un linguaggio. Ora lo usano per instaurare un dialogo con l’inconscio. A differenza, però, di un’analisi interpretativa, di ragionamento, i Jodorowsky propongono l’azione. Dopo un lungo dialogo con l’interlocutore, assegnano atti di psicomagia, copioni da recitare, che superando i confini della ragione, ci portano a contatto con la nostra natura più intima. E’  un tocco di follia che scatena vera magia. Sul risvolto di copertina del libro: “La Danza della Realtà”, di cui si attende la pubblicazione in Italia, Alejandro Jodorowsky scrive:”Della realtà misteriosa, tanto vasta e imprevedibile, percepiamo solo ciò che filtra attraverso il nostro piccolo punto di vista. L’immaginazione attiva è la chiave per una visione più ampia”. I film-culto di Alejandro, quali “El Topo”  e “La Montagna Sacra”, sono saghe surreali, in cui la metafora è spesso pungente. A teatro invece, la famiglia Jodorowsky usa volentieri il veicolo della risata. Con humor le loro opere risvegliano reazioni profonde, e con il loro lavoro terapeutico, con la psicomagia, spostano l’azione sui loro interlocutori. Di fronte all’azione,   l’inconscio, soffocato dall’intelletto, reagisce con stupore. “Ogni essere umano dovrebbe fare un lavoro terpeutico su se stesso”, racconta ancora Cristobal. “Dovrebbe essere obbligatorio, imposto dal servizio sanitario nazionale, come le vaccinazioni! Servono anticorpi positivi, meta-gruppi di persone che lavorano su un più alto livello di consapevolezza“. Procedendo nel lavoro, i Jodorowsky hanno compreso quanto le caratteristiche emotive e psicologiche incidano nella genesi delle malattie.“Non sono medico, ma lavoro con medici”, spiega ancora Cristobal. “Ogni malattia, nella sua lingua, parla di qualcosa che è nascosto. Con lo studio che chiamiamo bio-genealogia, si cerca il conflitto emotivo che la causa, la difficoltà che non trova altra via d’uscita. Il corpo somatizza tutta la realtà che lo circonda, è un sistema simbolico che parla della storia attraverso i suoi diversi elementi. La collera troppo repressa, ad esempio, può causare l’ulcera, ogni “sede” del corpo vuole raccontare qualcosa. Io non guarisco dalle malattie, ma mi impegno ad indicare uno strategico percorso perché ognuno possa concretamente divenire il guaritore di sé stesso” Nell’albero ci sono diamanti, ma per trovarli bisogna potare, poi concimare. Così si diventa giardinieri della propria anima.

Pubblicato su Specchio – LA STAMPA

Cristobal Jodorowsky – Motivi di famiglia

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Il figlio del regista più visionario del mondo insegna “terapia genealogica”: induce così ad inscenare la proprio storia privata, fin dall’infanzia, ma anche quella degli antenati. Per sciogliere i nodi del passato, per farci vivere più liberamente il presente.

 

Cristobal Jodorowsky introduce sempre con delle barzellette i suoi seminari. Si carica di vitalità e allegria, muove il corpo con leggerezza, interpreta ogni parola con sconfinata espressività. È libero da vincoli di qualunque tipo, è svelto, si trasforma in un istante, è sempre attento. Crea, cura, comprende, stravolge, spezza, riunisce. È pura fantasia in azione. Insegna con passione la terapia forgiata col padre Alejandro: psicosciamanesimo e terapia genealogica. «Come mio padre, faccio teatro, cinema, scrivo, dipingo. Mescolo arte e conoscenza in un percorso che definirei di neomisticismo», spiega Cristobal. «Ho un’eredità artistica forte da parte di entrambi i gentitori, da bambino ne ero profondamente traumatizzato. Strada facendo ho imparato a curarmi con lo studio dell’albero genealogico e lo psicosciamanesimo. E oggi aiuto chi è in difficoltà nel trovare se stesso. Quando insegno, la mia esperienza di attore è preziosa: la bellezza è una potente medicina». Le opinioni, i concetti e le abitudini delle persone che sono “influenti” nella nostra vita sono come un vestito, che, strato dopo strato, dobbiamo imparare a toglierci. Per prendere consapevolezza della nostra nuda essenza. In realtà ci conosciamo per come siamo conosciuti, non per come realmente siamo. Ci identifichiamo nei giudizi degli altri perdendo cognizione della nostra natura più intima. Inoltre, ciò che non è stato realizzato dai nostri avi nelle generazioni precedenti si cristallizza nel nostro inconscio, e diventa il “debito familiare” che ci incastra in una continua manifestazione del passato, impedendoci di vivere liberamente il presente. La terapia genealogica insegna che il primo passaggio è comprendere l’origine di tali impedimenti e accettarli. Solo allora possiamo iniziare a forgiare il nostro destino. Curare l’albero genealogico vuol dire rivoluzionarne i concetti, trasformarlo con coraggio per andare incontro alla propria divinità interiore.

In pratica, il lavoro che propone Jodorowsky agisce sui quattro piani dell’essere: fisico, emotivo, creativo, intellettuale. Alla comprensione della propria genealogia, e a come ci influenza, segue poi la psicomagia. Il terapista prescrive azioni che comunicano direttamente con l’inconscio. «Nella psicoanalisi è l’intelletto che comprende dolori, conflitti e blocchi», spiega Cristobal. «Con l’obiettivo di giungere a un comportamento diverso. Ma vedo che, in molti casi, le questioni non sono pienamente risolte nemmeno dopo anni. La psicomagia invece non passa per l’intelletto, ma comunica direttamente con l’inconscio attraverso la metafora, lo muove e rimuove ciò che gli impedisce di esprimersi. Una soluzione non vale mai per tutti, ma la psicomagia è immediata, agisce alla radice dei problemi, mentre l’analisi può durare 5, 10 anni. In passato ho fatto 4 anni d’analisi e due di psicoterapia, ma simultaneamente lavoravo con la psicomagia. Capivo le dinamiche per poi trovare la soluzione attraverso gli atti. Ho imparato su me stesso ciò che applico sugli altri». Il percorso di Jodorowsky è profondamente creativo. L’immaginario è reale, per questo se mettiamo al lavoro la nostra fantasia, troppo spesso ingabbiata dalla razionalità, il fantastico destino ci verrà incontro. Fondersi nella creatività è una liberazione, ma è necessario abbandonare ogni morale nel momento della terapia genealogica.

Con umorismo e carisma, il giovane Jodorowsky porta “in scena” la sua conoscenza profonda dell’essere umano, con il padre Alejandro, pioniere dell’avanguardia teatrale cilena, messicana ed europea dalla fine degli anni ’40, fondatore e animatore del Movimento Panico negli anni ’60 con Fernando Arrabal e Roland Topor, Cristobal sperimenta sin dall’infanzia il vasto sentiero del surreale, per giungere allo studio applicato della metafora inconscia e del potere del simbolo negli aspetti più legati allo sciamanesimo. «Sono un po’ come Obelix, son caduto nella pozione quando ero piccolissimo, ma ad un certo punto mi son chiesto se volevo continuare a sondare i meandri  dell’inconscio, se ero davvero appassionato o se imitavo mio padre per essere riconosciuto. Quando sei sincero, la vocazione ti viene incontro. Così a 16 anni ho iniziato seriamente il mio cammino. Fino ad allora ero uno studente gitano, ambulante, sempre in viaggio da sciamani, psicologi, artisti. Si parlava tanto di queste cose in casa. Ho capito che Dio vive in me e vuole che io sia utile agli altri».

Jodorowsky insegna in Italia da un paio d’anni, tiene un numero sempre crescente di seminari. Per alcuni il lavoro è troppo intenso, ma i più audaci hanno incontrato un percorso che apre la mente, con la fantasia si sono liberati da pregiudizi, hanno trasformato nemici in alleati, hanno scoperto la propria ricchezza interiore. «Un tempo partecipavo pienamente al dolore degli altri, se ne libera parecchio nei miei seminari, poi ho capito che non serve a niente soffrire con chi soffre. Gli sciamani operano in uno stato di estasi, è con la gioia che portano le persone a uscire dal dolore». È proprio l’aspetto più legato allo sciamanesimo che differenzia il percorso di Jodorowsky da quello di altri, vedi le Costellazioni Familiari di Bert Hellinger e Veniero Galvagni Miten: «Sto studiando la costellazione familiare, la direzione è la stessa: guarire l’inconscio familiare attraverso l’azione. La teatralizzazione dell’albero è un aspetto che accomuna i due percorsi ed è finalizzata a ricostruirlo in maniera ideale nell’inconscio, però la struttura del lavoro è diversa. Il nostro è un approccio più sciamanico, partiamo dal presupposto che il cervello non riconosce la differenza tra ciò che vede negli altri e se stesso, tra i suoi avi, i loro progetti, e i propri. Dopo aver lavorato sull’albero, imparando a distinguere le proiezioni degli altri dai propri desideri, bisogna lavorare sugli archetipi, diventare buddha o un grande artista, affinché tutto l’albero sia illuminato e l’individuo sia liberato. Finché c’è un conflitto irrisolto nell’albero, ci sarà una parte di noi che lo riflette, che è goffa. L’albero va continuamente ripulito finché si giunge alla comprensione che la propria famiglia non è che un passaggio, un mezzo. Siamo figli dell’universo intero, la nostra anima nasce prima dell’umanità, prim dell’universo stesso. E quando percepisci il tuo essere infinito cambia anche la percezione dei tuoi problemi. È un grande esercizio di fantasia». “Della realtà misteriosa, tanto vasta e imprevedibile, percepiamo solo ciò che filtra attraverso il nostro piccolo punto di vista. L’immaginazione attiva è la chiave per una visione più ampia”, scrive il padre Alejandro in La danza della Realtà. Cristobal indica un percorso affinché ognuno possa concretamente diventare guaritore di se stesso: «È un processo molto creativo e privo di scontate abitudini, sono grato a mio padre perché questa strada l’abbiamo forgiata insieme. Collaboriamo tutt’ora nello sviluppo della psicomagia e io applico ciò che imparo con lui. Il nostro cognome è un alleato, uno strumento che mi permette di incontrare e aiutare molta gente. Continuano ad arrivarmi nuove opportunità per insegnare, in Italia, Spagna, Cile, Messico, Francia. È proprio vero che quando sei pronto le occasioni giungono da sole». Curare se stessi equivale a superare la paura di scoprirsi. Abbiamo mille volti, la realtà è in perenne mutazione. Jodorowsky insegna a giocare con la realtà, a esplorarsi con gioia per liberare l’energia creativa che è in ciascuno di noi: «Se immaginiamo di sparire, di rimuovere pensieri, emozioni, desideri, di lasciare che il corpo intero si dissolva, ci rendiamo conto che resta sempre qualche cosa. Resta l’essenza, energia pura. In questa dimensione possiamo visitare l’universo intero, oltre lo spazio e il tempo, ricaricare la nostra fonte. Io pratico quel che insegno. Tutti i giorni».

Pubblicato su ELLE Italia

LOV – cosmesi solida e naturale

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C’è una scelta sempre più ampia di cosmetici “naturali” che piccoli produttori stanno portando sul mercato.

Mi incuriosiscono quelli solidi perché essendo anidri, ossia privi di acqua, pesano meno nel trasporto (quindi meno emissioni di CO2), non formano batteri, quindi non necessitano di conservanti, sono ottimali per viaggiare, consentono di evitare flaconi in plastica, e sono amici della pelle. Ho scelto di provare quelli di LOV perché nascono da un’esperienza curiosa.

Ivan Caravita e il suo socio Giulio Cardano sono entrambi ingegneri aerospaziali e oggi dedicano tutte le loro energie ai prodotti che hanno sviluppato: una linea solida, naturale, biodegradabile e vegana a zero sprechi lungo tutta la filiera. Il packaging è in carta riciclabile senza pellicole plastiche.

Ivan Caravita e il suo socio Giulio Cardano sono entrambi ingegneri aerospaziali e oggi dedicano tutte le loro energie ai prodotti che hanno sviluppato: una linea solida, naturale, biodegradabile e vegana a zero sprechi lungo tutta la filiera. Il packaging è in carta riciclabile senza pellicole plastiche.

Ho scelto di provare il bagnodoccia alla camomilla, la crema solida per le mani e il disco di argilla esfoliante. Sono tutti buoni. In particolare mi piace la crema per le mani che non unge e lascia uno strato emolliente e il disco di argilla che è efficace nel rimuovere la pelle morta però non è aggressivo e facilita l’assorbimento della crema idratante.

Volendo saperne di più sulla sfida di lanciarsi in un’avventura del genere e della filiera di approvvigionamento delle materie prime, ho chiamato Ivan.

La prima domanda non poteva che essere: Perché un ingegnere aerospaziale fa prodotti cosmetici?

Avevo bisogno di un’esperienza che mi avvicinasse all’umano! Poi, la voglia di creare qualcosa di mio e di etico, pur sempre con metodo scientifico, perché quella è la mia formazione. Chiedendomi quali problemi nel mondo potessi essere in grado di affrontare, la prima risposta è stata: la plastica. Per due anni e mezzo abbiamo studiato, raccogliendo informazioni tecniche, poi abbiamo sviluppato e testato i prodotti e così è nata LOV. 

I vostri ingredienti sono tutti italiani?

Gli oli essenziali per le profumazioni, sì – ad esempio l’olio essenziale di bergamotto è calabrese e quello di limone siciliano. Non usiamo profumi sintetici. Le altre materie prime di base –  burri e oli, no. L’olio di mandorle e l’aloe vera arrivano dall’Ungheria perché il nostro fornitore ritiene che abbiano il miglior rapporto qualità prezzo. 

Ci sono ingredienti che potrebbero essere italiani se avessero una filiera garantita e un prezzo competitivo?

Si. Per esempio l’olio essenziale di bergamotto calabro costa 128 euro al kg, mentre dall’Inghilterra costa 69 euro al kg. Per quale motivo il prodotto italiano deve costare di più di quello importato?  

È un problema che riguarda tante filiere. Siete tornati dal fornitore calabrese a dirgli che vorreste comprare da loro ma chiedete prezzi più competitivi? 

Si, è sceso con il prezzo, anche se non al livello degli inglesi, però abbiamo tenuto duro preferendo il prodotto italiano. Per gli ingredienti di base, invece, usiamo prodotti certificati ma non italiani. Il burro di murumuru viene dal Brasile, perché vogliamo materie prime naturali in grado di dare un beneficio cosmetico. Sui capelli le donne brasiliane lo usano puro, ha una proprietà proteica molto simile al capello e ristabilisce gli equilibri minacciati da smog o trattamenti. 

Tutte le vostre filiere di approvvigionamento sono certificate?

Si. Le materie prime in Europa devono essere assenti di metalli pesanti, cruelty free, e non possono essere da agricoltura intensiva. 

Questo vale anche per la cosmesi più industriale? O solo quella “naturale”?

La legge europea impone a tutte le aziende cosmetiche di essere cruelty free e non avere elementi cancerogeni e mutageni all’interno dei propri prodotti. Quando si costituisce un’azienda cosmetica, ci si iscrive al portale europeo CPMCC – dove abbiamo dovuto dichiarare tutti i nostri ingredienti, come anche al Ministero della Salute, con documentazioni di circa 200 pagine per prodotto! Però alcune multinazionali testano prodotti all’estero dove la ricerca sull’animale  è concessa e poi importano il prodotto dicendo che è cruelty-free. Il mondo legislativo della cosmetica è enorme. l’Europa si adatta agli aggiornamenti italiani perché siamo i più stringenti sui limiti dei metalli pesanti assieme alla Germania. Allo stesso tempo ci sono prodotti che spesso superano i limiti, smentiti solo attraverso un’analisi di controllo dietro segnalazioni. 

Il vostro impatto lo avete misurato? 

Test per le certificazioni, non ancora. Dai nostri calcoli stimiamo che  la crema mani – 40g – equivale a un tubetto di crema di 75 ml, e dura più di 5 mesi seguendo i nostri consigli per l’uso, ovvero dare una buona passata sulla zona da idratare. Quanto ai prodotti per capelli, sempre seguendo i nostri consigli, dura quasi due mesi – con 30 lavaggi ogni due giorni, mentre un flacone da 250ml di prodotto dura circa un mesetto. E non ci sono imballaggi di plastica da smaltire.

Nel vostro primo anno di attività avete raggiunto i vostri obiettivi?

Purtroppo no, il mercato è difficile e la fatica di farci conoscere è altissima. Le vendite ancora non coprono i costi. Siamo voluti essere “officina cosmetica”, seguendo un iter burocratico pressoché infinito e abbiamo dovuto finanziare tutto noi. Il 97% della nostra clientela sono donne. Detto tra noi l’uomo si laverebbe anche con lo Svelto! È vero che convincere le persone a cambiare routine non è facile. È un settore complicato con una concorrenza elevata. 

Qual è la principale innovazione scientifica che avete portato nello sviluppo dei vostri prodotti?

Utilizzare tensioattivi di origine naturale, vegetale. Il tensioattivo è quel componente chimico che permette di togliere lo sporco. Di solito le big usano chimici da laboratorio, che consentono di avere margini molto alti. Noi sfruttiamo l’innovazione: è stato inventato il tensioattivo dalla noce di cocco, che mantiene la naturalezza e biodegradabilità. Per noi è stato fondamentale, ci ha permesso di unire il potere schiumogeno mantenendo un grado di delicatezza. 

Siete una Società Benefit? 

La burocrazia necessaria lo rendeva difficile. Al momento siamo una srl normale, ma l’etica non ce la toglie nessuno. 

Bravi, coraggiosi. Buona fortuna.

A Passo Empatico – Una conversazione con Giacomo Rizzolatti

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Erano anni che sognavo di incontrare il professor Rizzolatti.

La sua scoperta dei neuroni specchio è un passo importante per l’umanità, conferma che siamo naturalmente interconnessi, capaci di sentire gli altri come noi stessi, e ha dato per la prima volta un fondamento scientifico alle dinamiche dell’empatia.

Disegno di Ramuntcho Matta

La conversazione che segue è stata pubblicata in italiano nel mio quarto libro A passo leggero, che esplora l’empatia come motore di  cambiamento positivo. Il professor Rizzolatti e il suo team dell’Università di Parma hanno scoperto il meccanismo specchio nel 1995.

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I neuroni specchio sono cellule cerebrali che si attivano sia quando si compie un’azione (mangio un cioccolatino) sia quando la si osserva compiuta da un altro (ti guardo mentre mangi un cioccolatino). Non solo: rispondono all’obiettivo di tale azione e all’intenzione, che si riflette a livello motorio (mentre ti guardo prendere il cioccolatino mi si attivano i muscoli della bocca prima che tu la apra). I neuroni specchio fanno sì che io senta ciò che sente l’altro. L’esperimento, reso possibile grazie alla scoperta della risonanza magnetica che ci permette di misurare in tempo reale l’afflusso del sangue alle varie aree del cervello, parte dalle scimmie e riesce a dimostrare che negli umani viene rispecchiata perfino la qualità dell’azione che si osserva. Il nostro cervello, in sostanza, produce una sorta di simulazione virtuale dell’azione altrui, e questo offre una nuova comprensione sul principio di emulazione che è alla base dell’apprendimento.

Professore, la sua scoperta sembra avere rivoluzionato il campo delle neuroscienze, e non solo…

Forse è capitata in un momento in cui si avvertiva il bisogno di un cambiamento, dando una base scientifica a qualcosa che la gente sentiva.

Come nasce il nome “neuroni specchio”?

Sa che non lo so? è una di quelle cose misteriose… Credo che l’abbiamo usato a un certo punto in laboratorio. Non so com’è venuto fuori, onestamente. È nato da solo. (ride) Non abbiamo pensato, come potrebbe fare un giornalista, a un marchio di successo. Comunque è stata una fortuna perché è piaciuto molto. È come chiamare una macchina Panda… Funziona.

Credevo che si riferisse allo stadio dello specchio teorizzato da Lacan, la fase in cui il bambino osservandosi nello specchio capisce di essere “io”…

No, non ci avevamo pensato.

Intorno alla sua scoperta, l’economista Jeremy Rifkin ha costruito la teoria dell’Empathic Society, e il neuroscienziato Vilayanur Ramachandran ha scritto che i neuroni specchio saranno per la psicologia quello che il DNA è stato per la biologia.

Rifkin ama i nostri dati, ma non l’ho mai incontrato. Ramachandran è un personaggio unico, uno scienziato creativo, comunicatore come nessun altro!sentirlo parlare, guardi… è magico! nei congressi abbiamo talvolta sessioni di dieci minuti in cui molti si rifiutano di parlare dicendo che sono troppo corte, mentre lui in quei dieci minuti riesce a fare uno show, e nello stesso tempo sviscera l’argomento mettendo insieme i metodi, i risultati e le idee. Da non credere.

Lui è empatico?

Terribilmente empatico! E pensi che quando ha cominciato a scrivere del nostro gruppo non ci eravamo ancora conosciuti… è una grossa generosità da parte di uno scienziato valorizzare così il lavoro di un altro.

Secondo Ramachandran sono stati proprio i neuroni specchio a favorire il cosiddetto “Big Bang” culturale avvenuto circa 50/100.000 anni fa, quando in un tempo relativamente breve l’homo sapiens inventa il fuoco e il linguaggio e comincia a servirsi degli utensili.

Questa è la sua grande idea, sì. E penso che ci sia molto di vero – oddio, in una cosa come questa non si può parlare di vero o falso – comunque concordo sul fatto che l’uomo diventa animale culturale nel momento in cui impara a imitare i suoi simili. Quando sappiamo imitare gli altri, riusciamo innanzitutto a far sì che se tu hai inventato qualcosa i tuoi figli possono continuare a farlo, i tuoi vicini lo adottano, e quindi l’invenzione si consolida.

Inoltre, come è stato sottolineato da alcuni psicologi, l’imitazione è un meccanismo di identificazione, quindi rafforza il legame sociale nella tribù, che diventa più coesa. Perciò c’è un vantaggio tecnologico e un vantaggio sociale e psicologico. Insomma, l’imitazione è un… come dire… un “trucchetto” geniale che la natura ha escogitato per renderci come siamo, diversi da tutti gli altri animali.

E anche per accelerare l’evoluzione…

Non c’è dubbio. Pensi alla lentezza della civiltà egiziana: per duemila anni hanno fatto più o meno le stesse cose; poi con i greci e i romani si è avuta un’accelerazione fino a quella attuale, paurosa.

Vede, nel momento in cui l’imitazione fa sì che in qualche maniera io e te ci sentiamo eguali e ci capiamo – questo è stato ben studiato nello sviluppo del bambino – allora anche la tua morte è la morte mia, costruisco una tomba perché non posso sopportare che tu sparisca, compare la religione, il bisogno di farti rimanere… mentre se invece tu sei una bestia come un’altra, pazienza.

È uno dei grandi misteri: perché improvvisamente succede tutto insieme? cominciamo a disegnare, a celebrare i riti, nascono le religioni… se è vero che a un certo punto la comunità acquista un nuovo significato é come diceva Martin Bubertue iodiventano la stessa cosa”, allora si capisce perché ho bisogno della religione per assicurarti la sopravvivenza, perché così ti rivedrò nell’ altro mondo.

Quindi il nucleo è l’empatia, il rapporto empatico, che crea affetto, che crea appartenenza, che crea condivisione…

Più che altro appartenenza: credo che anche gli animali abbiano un certo grado di empatia. Però la chiave è l’appartenenza, il tu eio. Chiaro che se uno della tribù sta male, soffrono tutti.

Però se sei empatico senti una nausea tremenda…

Senti una nausea tremenda, sicuramente. Ma quello che conta è il rispecchiarsi nell’altro. Siamo la stessa cosa.

Si rompono i confini.

Si rompono i confini, sì. Cioè, si sono già rotti prima, con i neuroni specchio, ma in maniera molto limitata. Infatti se io capisco la tua azione, la tua intenzione, magari cerco di imbrogliarti… per questo gli etologi di Saint Andrews, con Byrne e Whiten , parlano di “intelligenza machiavellica”. Quello c’era già negli scimpanzé, nei gorilla, ma dopo diventa qualcosa di più, perché con l’imitazione c’è una partecipazione: quello che faccio io lo fai anche tu, quindi c’è qualcosa che ci unisce. Perché nasce la religione? Alcuni evoluzionisti ti dicono: è il linguaggio. Va be’, ma anche se comunichi meglio, che bisogno hai della religione? Invece, se tu e io siamo la stessa cosa, quindi legati, la tua perdita diventa un colpo terribile… E allora la tribù, il gruppo, vuole creare un tempio, avere un luogo in cui questi morti ritornano. Secondo me è molto bello, questo.” Per chi suona la campana? suona anche per te.”

In quante aree del cervello si trovano i neuroni specchio?

Beh, più che di neuroni specchio, bisognerebbe parlare di un meccanismo specchio, grazie al quale certi neuroni trasformano quello che io vedo in un programma motorio mio, così la percezione del mondo esterno diventa conoscenza mia personale. Qui sta la differenza tra la capacità di capire mediante neuroni specchio e la capacità di capire mediante la logica, che è un procedimento astratto. Quanto al meccanismo specchio, sappiamo che è presente nelle aree emozionali, l’insula e il giro del cingolo, e poi nei circuiti parieto-frontali che sono legati alla comprensione delle azioni altrui. I primi esperimenti che abbiamo fatto riguardavano l’atto di afferrare. Un ricercatore belga, Guy Orban, ha recentemente trovato una zona corticale che risponde quando vedo uno che si arrampica, una regione specchio più dorsale dove sono rappresentati le gambe e il corpo…

Questo meccanismo specchio è presente in tutti? fin dalla nascita?

Direi di sì, tutti abbiamo i neuroni specchio, a meno che non ci sia una patologia grave.

E cosa può inibire il loro sviluppo, la loro manifestazione?

La società. In realtà noi tutti siamo determinati dalla nostra natura biologica e dalla cultura. Quindi tutto il nostro comportamento ha due radici, che si uniscono e formano una personalità. Poi se la società è organizzata bene, le cose positive legate alla nostra natura biologica si sviluppano, se è organizzata male non si sviluppano, anzi vengono tarpate.

Per risvegliare i neuroni specchio è meglio che ci sia il contatto fisico tra le persone?

Senz’altro. Anche i filmati funzionano, ma sono molto meno efficaci: i neuroni si attivano molto di più se tu fai un’azione davanti alla scimmia o un uomo – d’altra parte per noi sperimentatori i filmati sono molto più facili da usare: li acceleri, li rallenti, li manipoli, fai anche cose che non esistono in natura…

C’è un particolare tipo di gesti che tende ad attivarli maggiormente?

Soprattutto quelli di violenza, purtroppo. Esaminando il film Il brutto, il buono e il cattivo un gruppo di ricercatori israeliani ha trovato che il cervello si attiva maggiormente quando vede la pistola che spara, e cose del genere. Anche noi abbiamo fatto una ricerca partendo da due spot pubblicitari: nel primo c’è un ragazzo che mangia un cracker, arriva una bella ragazza procace (quindi c’è anche questo elemento d’interesse) che gli fa un sorriso, poi a un tratto gli porta via il cracker e scappa. Nel secondo filmato ci sono gli stessi personaggi, ma qui la ragazza chiede gentilmente il cracker. Be’, l’attivazione corticale  è molto più forte quando si verifica quella specie di microviolenza, che poi chiaramente è scherzosa… eppure il cervello si attiva molto di più.

Quale parte del cervello si attiva?

Le aree emozionali, ovviamente. Se dopo il messaggio tu fai vedere il cracker, l’impatto è molto maggiore perché tutto il cervello si è risvegliato in seguito a questa piccola violenza… I pubblicitari quando pianificano i loro spot intuiscono qual è il meccanismo più efficace, non so come facciano a saperlo ma lo sanno, altrimenti perché la ragazza dovrebbe rubare il cracker invece di chiederlo sorridendo?

E i neuroni specchio come si comportano davanti a questo piccolo gesto invasivo?

Lo vedono, lo rispecchiano, poi attivano le aree emozionali, è un processo di amplificazione.

E ciò che segue viene ricordato meglio.

Sì.

E se al posto dello stimolo invasivo c’è una chiave di humour? Ho sentito dire che se fai ridere qualcuno, l’informazione che segue viene recepita meglio.

Ci deve essere un elemento sorpresa, credo. Però con la gentilezza non funziona molto, forse perché non c’è sorpresa, non so…

Anche se oggi come oggi sorprende più la gentilezza…

E’ vero! soprattutto tra gli adolescenti forse la gentilezza avrebbe colpito di più.

(Ridiamo insieme.) Non è che sui sentimenti positivi si sa meno?

Be’, sì. Attualmente si sa molto sul dolore o sul disgusto, si sa molto poco invece sui sentimenti positivi… è molto più facile lavorare sui negativi.

Secondo lei perché?

Be’, gli psicologi evolutivi dicono che il negativo è molto più importante. Se vedo un tizio con la faccia disgustata significa che il cibo che mangia potrebbe farmi male, se vedo un’espressione di dolore vuol dire che c’è qualcosa di potenzialmente dannoso per me e devo stare attento. Invece se vedo due innamorati… vabbè, buon per loro, ma resto indifferente. Magari se sono buono provo piacere per loro, se sono un invidioso penso fortunato lui… Ma in genere dal punto di vista evolutivo le persone felici lasciano indifferenti, le persone che hanno problemi potrebbero creare problemi anche a me.  

Quindi è possibile sfruttare l’empatia in modo anche strumentale…

Be’, la propaganda lo fa spesso, no? Pensi alle foche! la fochina giovane è un animale simpaticissimo e tenerissimo, che si presta come nessun altro alla propaganda in favore degli animali… Il povero ratto viene derattificato in continuazione, ne vengono ammazzati a milioni, ma non vediamo mai dei topi che vengono uccisi perché non susciterebbero empatia, mentre venti foche fanno una pena incredibile perché sembrano dei bambini, e quindi uccidere una foca giovane diventa un delitto. Gli americani non permettono ai reporter di andare nelle regioni in guerra perché hanno paura che circolino le fotografie…  La crudeltà della guerra diventa molto più crudele se tu la fotografi. In parole fa meno effetto, un conto è sentirsi dire che hanno ammazzato tre persone, un conto è vederle…

Casi di propaganda al negativo ne conosciamo tanti…

Pensi a Hitler! Ha portato una popolazione di persone “per bene”, colte, con una grande tradizione artistica e scientifica, a diventare dei mostri o comunque a non vedere quello che succedeva. Attraverso la propaganda è riuscito a disattivare l’empatia di un popolo intero…

Quando si pensa ai pogrom o ai campi di concentramento nazisti si fa fatica a credere che l’empatia sia un fattore biologico connaturato agli esseri umani…

Be’, ma proprio tramite la propaganda Hitler riuscì a convincere un’intera nazione che gli ebrei non erano esseri umani. Ha battuto e ribattuto sulle differenze, inculcando nelle menti l’idea che le differenze dimostravano che erano esseri inferiori, e qui la propaganda è riuscita ad azzerare il fattore biologico… Secondo alcuni la grande fortuna di Hitler fu anche quella di poter disporre di un mezzo di comunicazione appena inventato e cioè la radio, che permetteva di raggiungere milioni di persone e risultava ancora più autorevole proprio per la sua novità: “L’ha detto la radio!”.

Che rapporto c’è tra potere ed empatia?

Guardi, io penso che l’uomo di potere sfrutti una specie di empatia generalizzata. Qualcuno ha detto che i grandi rivoluzionari amano l’umanità e non l’uomo. È proprio vero, perché se tu ami l’umanità e non ami quelli intorno a te, quando qualcuno ostacola questo tuo grande sogno di umanità lo maltratti o lo fai fuori. Si legge anche in Dostoevskij no? nei Demoni…c’è questa degenerazione dell’idealismo, questa contraddizione tra ‘io amo l’umanità’ e ‘sono un superuomo quindi ammazzo queste persone per il bene dell’umanità’. L’empatia viene in qualche modo eliminata per un fine “superiore”. E si trasforma nel suo opposto.

Ma secondo lei il sogno di una società empatica è possibile?

Di più: è necessario. La nostra società ha bisogno di empatia come nessuna prima. Innanzitutto perché con la tecnologia è aumentata la possibilità di nuocere al prossimo – una persona sola può distruggere un aeroporto, un aeroplano può andare contro un grattacielo, se lei ci pensa è quasi un miracolo che il terrorismo sia tutto sommato sotto controllo e non ci siano matti che fanno cose terribili. Più una società diventa complessa più ci deve essere empatia, se no la possibilità di distruggerla è infinita.

Oggigiorno anche l’indice di felicità sembra essere ai minimi storici…

Verissimo. Amici psicanalisti mi raccontano di industriali di successo che vanno da loro perché si sentono profondamente infelici, dicono: non mi apprezzano come merito, io sono molto più bravo di così, ho una grande insoddisfazione dentro… ed è gente che ha successo, che ha soldi! Eppure vanno dallo psicanalista a farsi consolare..

A maggior ragione dovrebbe essere considerato utile indagare meglio le dinamiche della felicità.

Sarebbe molto interessante, ma sarebbe più compito dei sociologi che dei scienziati no? Noi possiamo dare una base scientifica, ma non sostituirci a loro.

Perché no?

Perché l’infelicità diffusa è un problema sociale, e tradizionalmente i problemi sociali sono trattati dai sociologi, o eventualmente dagli psicologi o dagli psicanalisti… fino a pochissimo tempo fa il neurofisiologo non si interessava dei rapporti tra l’io e il tu, si interessava solo alla persona singola.

Però, professore, la sua scoperta ha rotto gli argini e le barriere, ha avuto le reazioni più incredibili da ambiti totalmente diversi…

È vero, è vero…

Non è forse un segnale che è ora di romperle, queste barriere tra i saperi?

Sì, è così, la risposta è sì. E sta avvenendo, anche sul piano sperimentale: per esempio si cominciano a fare risonanze magnetiche con due persone, è una cosa buffissima, i due entrano insieme come in un lettone, e così riesci a leggere simultaneamente i due cervelli mentre interagiscono. La tendenza è di non studiare più l’individuo come singolo, come elaboratore di informazione, ma come essere sociale, per vedere cosa succede nei rapporti tra due – più di due attualmente è impossibile, la tecnologia non lo permette.

Ci sono esperimenti che suggeriscono tra l’osservatore e l’osservato correlazioni di tipo diverso da quelle accertate finora?

Be’ deve sapere che noi abbiamo dei neuroni che rispondono sia quando vengo toccato direttamente, sia quando viene sfiorato il mio spazio peri-personale. Per esempio, lo stesso neurone si attiva sia se lei mi tocca il naso sia se avvicina il dito al mio naso. Intorno a noi c’è come un cuscino di aria diciamo, e infatti ci infastidiamo se qualcuno si avvicina troppo, lo sentiamo come un’intrusione nel nostro spazio. Ebbene, c’è un ricercatore giapponese… che adesso è da noi tra parentesi, si chiama Hiroaki Ishida, il quale ha scoperto che se mentre la scimmia mi sta guardando qualcuno invade lo spazio intorno al mio corpo, in lei si attiva lo stesso neurone di quando si invade lo spazio intorno al suo. È un meccanismo specchio molto interessante perché è legato alla corporeità: non solo mi “approprio” della tua azione, ma il tuo corpo diventa il mio. Non solo la tua azione diventa la mia azione ma il tuo corpo e il mio corpo sono simili.Tutto sembra convergere verso l’evidenza che noi siamo molto più uniti l’uno all’altro di quanto crediamo… è la società che poi tende in ogni modo a distruggere questo vincolo biologico: la nostra società.

A livello di società, secondo lei quali sono i fattori che anche storicamente hanno disattivato il meccanismo empatico nell’individuo?

Penso che una trasformazione profonda sia cominciata a partire dalla rivoluzione di Berkeley… chiaramente questa è una mia opinione personale, non parlo da scienziato, ma il movimento studentesco ha avviato un cambiamento radicale – beninteso, la motivazione primaria era giusta, c’era una reazione a un modello tradizionale, le donne volevano essere libere, ma la libertà deve essere legata a un rapporto sociale. Se per libertà s’intende “esisto solo io”, guai. O meglio, va bene quando sei adolescente e ti stai affrancando dai genitori, ma quando hai superato i trenta, se non hai un compagno, se non hai una famiglia, se non coltivi degli obiettivi sociali, un qualcosa in cui credere, la capacità di riconoscersi nell’altro viene meno. Poi i maschi sono venuti dietro, ma credo che fosse essenzialmente una rivoluzione femminile. In qualche modo la libertà e la spensieratezza del “college” sono diventate un modello di vita… io non ho fatto il “college” negli USA, ma basta vedere i film dell’epoca per avere il senso di una vita molto libera e anche piena di stimoli intellettuali ma senza responsabilità tranne quella di preparare gli esami… però poi cresci, ti sposi, fai i figli, e quella vita lì è difficile da fare….

Quindi c’è stato un vuoto di valori?

Più che un vuoto direi una sopravvalutazione dell’io. La mia generazione quando si sposava aveva l’idea di creare qualcosa di stabile e definitivo. In un certo modo la moglie entrava a far parte della famiglia, anche se le famiglie non erano già più numerose come prima… Adesso sposarsi è diventato una specie di contratto a termine.

È anche un effetto della crisi della religione, forse…

Mah… già quando io ero giovane l’aspetto religioso contava molto poco. Soprattutto nell’ambiente intellettuale. L’idea era di fondare una piccola società, qualcosa che durasse, e in genere si sperava di avere figli. Non è che si andava insieme perché ci piaceva solo andare a letto. Era un miniprogetto che si innestava in quei progetti comuni in cui allora credevamo molto.

Questa rivoluzione avviata negli anni ’60 sotto il segno dell’individualismo contestatore poi negli anni ’80 si è trasformata in un individualismo di tipo diciamo di destra – fregatene di tutto, l’unica cosa che conta è diventare ricco… però adesso a me pare che ci sia un riflusso verso l’idea che tutto sommato abbiamo bisogno l’uno dell’altro. Quando parlo in pubblico, sento l’entusiasmo di gente che dice: ma allora non siamo proprio così cattivi, così egoisti… cioè c’è questa necessità di credere nell’aiuto reciproco, ed è una cosa che trovo non solo negli scienziati ma anche nella gente diciamo più semplice… non solo nell’anziano che magari si sente abbandonato ed è tutto contento che uno parli di queste cose, ma anche in tanti ragazzi giovani.

Lei parlava prima delle famiglie numerose: forse il bisogno odierno di empatia sociale è anche legato al progressivo restringersi delle famiglie, all’affermarsi delle cosiddette famiglie “atomiche”, composte da una o due persone…

Effettivamente la vecchia famiglia creava anche una specie di ombrello di protezione per i vecchi, c’era la zia, c’era la nonna, ma era anche un paracadute sociale, lo zio rimasto magari senza lavoro che però viveva insieme… Ancora nella mia infanzia praticamente ogni domenica i miei genitori alle cinque andavano a trovare i nonni e si prendeva il tè tutti insieme. Ricordo che tornavo dalla partita di calcio e bisognava andare dai nonni. E si era già molto dopo la guerra… adesso, non so, i miei nipoti quando vengono a trovarmi è solo perché hanno bisogno di qualcosa o magari per giocare ma non è che vengono puntualmente alle cinque… non c’è più quel legame…

Erano riti importanti…

I riti sono spariti completamente, no? Eppure servivano a stare uniti. Se tu sai che ogni domenica alle 5 si va a trovare i nonni, diventa un’abitudine come il Natale o come altri riti che si sono conservati, se invece lasci tutto libero, alla fine non ci vai perché una volta hai da fare, la volta dopo hai il mal di testa…

Quanti figli ha lei?

Due, un maschio e una femmina. Entrambi con figli.

I collanti sociali cambiano… Oggi c’è il social network.

È un bene o un male?

Lei che ne dice?

Mah… io ho paura che sia più un male che un bene, a me pare che il rapporto corporeo, il rapporto vis-à-vis, il contatto fisico crei un legame molto più vero di quello che hai con qualcuno con cui chiacchieri. Cioè, non vorrei che questo finisse per portarci a un isolamento…

A chi lo dice. Quando si hanno dei figli adolescenti come ne ho io è difficile non farci caso…

Per esempio adesso il mio nipote più grande ha quattordici anni e a volte mi sembra quasi di averlo perduto, perché quando aveva cinque o sei anni gli piaceva stare assieme a me, giocavamo ai soldatini, mi cercava… adesso che va al ginnasio viene da noi a pranzo perché mia figlia abita fuori città, ma appena ha finito di mangiare si alza e va in camera sua e si mette al computer, con Skype e così via… certo avrà anche i suoi amici, talvolta escono la sera, ma il grosso del tempo lo passa con… il computer.

Ma collettivamente secondo lei l’empatia è aumentata o diminuita?

È un discorso molto complesso. Ho partecipato di recente a un convegno sull’empatia che si è tenuto a Heidelberg e un amico ceco mi faceva notare come è cambiato il concetto di empatia. Cioè, attualmente è molto più sociale. Se muore un soldato nostro in Afganistan è un dramma nazionale, mentre durante la prima guerra mondiale i generali non avevano nessuna empatia per i soldati, li mandavano a morire perché non li consideravano come se stessi, credo ci fosse l’idea aristocratica che il nobile, l’ufficiale, fosse un uomo di tipo diverso. Il concetto attuale che tutti debbano avere diritto alla salute è un’empatia inconcepibile cent’anni fa. Un tempo c’era la carità, i buoni davano dei soldi. Adesso l’empatia sociale è diventata quasi obbligatoria…

Sa cosa, forse è anche diventato tutto più istituzionalizzato. Cioè in qualche maniera ci preoccupiamo meno dell’altro perché pensiamo: c’è il Servizio Sanitario Nazionale, ci sono i pompieri… non c’è più quell’aiuto diretto che c’era in passato, quando mancava l’intervento dello Stato… questo in fondo ci rendeva più empatici.

Ah, questa è una chiave interessante…

Abbiamo un po’ delegato l’empatia al servizio pubblico: lo Stato deve occuparsi della sanità, della scuola, della sicurezza e del benessere dei cittadini: ne risulta una forma di deresponsabilizzazione… io penso solo a me stesso e delego le istituzioni, salvo poi arrabbiarmi se il servizio non è all’altezza delle mie aspettative.

Un altro fattore, forse più in Italia che altrove, potrebbe essere il crollo del partito comunista. Per molti giovani era un momento di aggregazione, un partecipare insieme a un’idea di società migliore, andavano a vendere l’Unità la mattina,  c’erano le cellule, c’erano le sezioni… Adesso è diventato come un partito americano, è finita l’aggregazione….

E sul piano del lavoro?

Be’, ci sono mestieri in cui l’empatia deve essere ridotta quasi per necessità. Cosa vuole, le forze speciali hanno un training per essere poco empatici, se no come fanno a intervenire. Non che diventino delle bestie, ma nel momento in cui impugnano il manganello e ricevono l’ordine, non possono commuoversi se vedono del sangue o una ragazza che piange. A volte siamo socialmente tenuti a diminuire l’empatia. Però la cosa dovrebbe limitarsi a questi corpi speciali, non riguardare il cittadino normale.

Ogni volta che sono in un aeroporto mi meraviglio al pensiero di tutte quelle persone che si mettono in fila, si lasciano guidare, rispettano gli ordini… Quando ci fu l’eruzione di quel vulcano dal nome impronunciabile, ero di ritorno dalla Polonia e sono rimasto bloccato a Vienna. Si potrebbe pensare che in una situazione così drammatica la gente cerchi di fregarsi l’un l’altro e invece è scattata un’empatia veramente interessante… ci si aiutava, col telefonino, si cercava informazioni, ci si passava voce: c’è un treno che va a Innsbruck! prendiamolo, da lì riusciamo ad andare a Verona… il punto è che la società di oggi è talmente complessa che non può più permettersi l’individualismo.

Purtroppo non solo ci sentiamo separati dagli altri ma ci sentiamo separati anche dalla natura…

Lei trova che siamo separati dalla natura? Non mi sembra…

Be’, stiamo stravolgendo gli equilibri del pianeta con una certa dose d’indifferenza…

Può darsi, ma i borghesi continuano ad andare in montagna e ad amare la natura, nei romanzi dell’800 i poveri vivevano in città inquinate e sporche, mentre adesso, insomma, una gita fuori porta se la permettono…

Lei quindi non crede che amare la natura sia un istinto naturale?

Insomma… c’è un bel salto dall’amore per il prossimo all’amore per la natura…

Ma non dovremmo sentire la natura come qualcosa di affine?

Mah… evolutivamente lei pensa che si sia mai posto questo problema? No, la natura era un… datum, era lì. È solo la nostra generazione che ha incominciato a porsi il problema… credo che la preoccupazione per la natura sia più una costruzione intellettuale…

Ma senza le piante noi non respiriamo…

D’accordo, ma non facciamo questo ragionamento. Non è che pensiamo alla funzione clorofilliana…

Ma non dovremmo anche avere cognizione del loro ruolo, sentirle empaticamente come esseri viventi?

Ma qui i neuroni specchio non c’entrano!

Be’, allora sarebbe interessante verificare se si attivano i neuroni specchio quando vedo una quercia che viene abbattuta.

(Lungo silenzio)Beh, è abile lei, eh? mi tira fuori un argomento che… effettivamente sì, siccome anche la quercia è un essere vivente, quando viene abbattuta uno ci resta male, non c’è nessun dubbio, anche vedere un bambino che calpesta i fiori senza alcun motivo ci colpisce – allora, sì, empatizziamo, ma perché in quel momento consideriamo la quercia quasi come un essere vivente… cioè, è un essere vivente… ma gli diamo quasi una figura animalesca. 

Solo questo?

Direi di sì, è un fenomeno quasi corporeo, perché la quercia è li, è un essere vivente e vederlo morire ci toglie… insomma, noi facciamo parte di… sì, in quel senso la natura è nostra. Però se devono costruire un’autostrada e per farla distruggono degli alberi, non si tratta più di empatia… uno deve valutare i pro e i contro, soppesare i vantaggi economici, non è più così immediato, è un processo logico che deve risolvere più un sociologo o un politico. Non è che io Giacomo Rizzolatti posso decidere se fanno bene a fare la Torino-Lione. Però con l’esempio dell’albero mi ha preso in contropiede, lo ammetto…

Torniamo alle possibili applicazioni, magari anche un po’ azzardate, dei neuroni specchio. Non pensa che la sua scoperta abbia in qualche modo convalidato il potere delle visualizzazioni?

In che senso?

Nelle tecniche di meditazione si insegna a visualizzare ciò che noi desideriamo avvenga; creandoci delle sequenze che attivano una risonanza interiore e fanno come da apripista al suo avverarsi…

Be’… il neuroscienziato francese Marc Jeannerod ha introdotto una distinzione tra motor imagerye visual imagery. La motor imagerysi ha quando penso a me stesso mentre faccio una cosa: qui ho dei risultati molto simili a quelli dei neuroni specchio, mi si attivano le stesse aree, mentre se semplicemente vedo o immagino una cosa statica l’efficacia è molto inferiore.

Questo collimerebbe con le tecniche di crescita personale attraverso la visualizzazione, che richiedono appunto di immaginare se stessi mentre si compie un’azione.

In effetti la motor imagery, immaginare di fare qualcosa, è estremamente potente, quasi potente come vedere. Anche se in quello che dice lei di scientifico non c’è moltissimo. C’è una ricercatrice tedesca, Tania Singer, adesso dirige il Max Planck Institute a Lipsia, lei ha fatto  esperimenti sulla meditazione… però non mi pare che sia andata molto avanti…

Rientra nel suo dipartimento di studiare cosa accade quando uno esegue una visualizzazione motoria?

Sì, è stato fatto, in Francia. Proprio Jeannerod aveva pensato a una tecnica di riabilitazione per i colpiti da paralisi, dovevano immaginare di muoversi. I risultati c’erano, ma per i pazienti era faticoso. Noi facciamo qualcosa di simile, ma il nostro metodo prevede tre momenti: vedere, immaginare, fare. Cioè io vedo l’azione che non so fare, perché sono paralizzato, fatta da un altro, immagino di farla, e poi la eseguo nei limiti del possibile. E funziona abbastanza.

Conosce la storia dei D’Angelo? abitano a Milano tra l’altro… pochi giorni dopo la nascita del primogenito hanno scoperto che il bimbo aveva avuto un ictus prenatale all’emisfero destro del cervello.

Oh mamma, poverino…

Anche loro hanno in qualche modo applicato la sua scoperta…

Eh, ma… non è una cosa magica purtroppo…

Sì, ma sa cos’hanno fatto? hanno usato se stessi come modello per il bambino e i risultati sono stati sbalorditivi.

Ma sono stati bravissimi! È stata un’intuizione splendida quella di usare se stessi perché hanno la stessa maniera di muoversi, gli stessi geni… sarebbe stato molto meno efficace se avessero usato un estraneo come modello. Noi vorremmo fare qualcosa di simile in maniera tecnologica, coinvolgendo proprio i genitori e i parenti… ma questi D’Angelo meriterebbero davvero un premio…

A proposito, complimenti per il Brain Prize che ha da poco ricevuto a Copenaghen! Cos’ha significato per lei questo riconoscimento dedicato ai neuroscienziati  che ogni anni si distinguono nel loro campo?

Sono stato contento sia per me sia per la scienza italiana, che nonostante le difficoltà rimane di alto valore.  Poi la cifra è ingente.

Un milione di euro: un premio perfino più ricco del Nobel, che negli ultimi tempi è stato diminuito. Come lo spenderà?

Sarebbero tutti soldi miei, però non mi sembra giusto mettermeli in tasca. Pensavo di destinarne una parte a un fondo per la ricerca nel dipartimento di neuroscienze. La burocrazia è diventata insopportabile e l’unica soluzione per lavorare bene è avere risorse al di fuori dell’amministrazione universitaria.

Pensi che da noi c’e un canadese che voleva comperare un pezzo di plastica, gli occorreva per un esperimento. Costo, trenta euro. Ci hanno detto che dovevamo seguire la trafila stabilita dalla “spending review”. Attesa: un paio di settimane. Insomma, o paghiamo di tasca nostra o smettiamo di lavorare. Non le dico se uno ha bisogno di una prestazione professionale! Deve chiedere il permesso al rettore, che deve fare un annuncio a tutta l’università per vedere se qualcuno si presta gratuitamente, dopodiché, siccome ovviamente nessuno si presta, si istituisce il concorso, si aspettano venti giorni perché il bando diventi pubblico, si fa il concorso che, alla fine, va alla Corte dei conti per l’approvazione. Morale, se voglio un’analisi statistica devo aspettare tre mesi. In Germania ce l’hai in un giorno. Ci trattano come il catasto o il ministero dei Trasporti, dove forse è logico contenere al massimo i prezzi, ma per un pezzettino di plastica…

Per le spese ordinarie ci dovrebbe essere un responsabile di dipartimento che verifica che non si sperperi.

Certo, ma l’amministrazione universitaria non si fida. Nei paesi anglosassoni si va sulla fiducia – chiaro che se fai qualche cosa di male poi sei finito. Da noi tra spending review e legge Gelmini è praticamente impossibile lavorare. Il fondo che voglio creare servirà anche per queste piccole cose.

A proposito di riforma Gelmini, lei nel 2008 avanzò una proposta importante sul sistema universitario e sulla ricerca.

Sì, suggerivo di abolire le cattedre universitarie a vita, instaurando un sistema per cui ogni cinque anni una commissione ti esamina. Se sei bravo puoi restare anche fino a novant’anni, altrimenti vai a casa anche a cinquanta. Tengo molto a rilanciare questa proposta. Sei anni fa ricevetti molte lettere da giovani che dicevano: lei è un bell’egoista, ha avuto il posto a vita e adesso ci vuole controllare. Io credevo di favorirli, perché se mandi via tutta una serie di 50-60enni che non fanno niente poi hai più posto per i giovani.  Il merito è un concetto basilare per l’università – forse per il catasto no, non credo ci sia una grande differenza tra un impiegato e l’altro, ma tra un professore universitario e un altro, sì.

È il sistema che vige al RIKEN, un centro di ricerca giapponese di altissimo livello, parallelo all’università. Lì non fanno complimenti, ti convocano e ti dicono: la sua produzione scientifica non è considerata buona, le diamo due anni per trovarsi un altro posto. 

L’empatia non dovrebbe anche essere un ingrediente fondamentale nelle aule, tra professori e studenti?

Fondamentale. Ma questo tutti gli insegnanti lo sanno.

Sì ma quanti sono empatici nella sua esperienza? Diciamo la verità…

Beh… in effetti siamo tuttora ancorati all’idea che basti conoscere bene la propria materia per essere un buon insegnante. Ma è altrettanto importante saperla insegnare. Anche un medico non deve solo chiederti l’anamnesi, deve saperti fare le domande, entrare nel tuo io per capire la tua malattia. Idem per il magistrato… invece noi tendiamo ancora a considerare le due cose separate, e a sottovalutare la seconda. Invece i professori bravi a insegnare sono quelli che sanno dare entusiasmo ai ragazzi. Se non dai niente ai ragazzi, non imparano. Il rapporto empatico è fondamentale.

Quante forme di empatia avete finora classificato?

Be’ attualmente… dovendo proprio riassumere per sommi capi, direi che ci sono tre forme di empatia. Innanzitutto l’empatia emotiva, cioè l’empatia che ci fa “soffrire insieme”, “sentire insieme”, che è quella che ha reso popolare la scoperta dei neuroni specchio; poi c’è l’empatia diciamo cognitiva, la capacità di capire gli altri in base alle loro azioni, che prevede sia l’immedesimazione sia l’oggettivazione: ti capisco sia perché sei umano come me sia perché sei un oggetto che fa qualcosa; questa capacità varia a seconda del rapporto tra l’osservatore e l’osservato – per esempio, se sei la mia fidanzata probabilmente ti capisco meglio; e infine molto importanti per noi sono i cosiddetti vitality forms, una denominazione che si deve allo psicanalista Daniel Stern e riguarda la “qualità” dei gesti minimi. Se a tavola le chiedo di passarmi il sale, da come lo fa posso capire se è di buon umore, o distratta, o aggressiva. La qualità del gesto non l’avevamo mai studiata prima di Stern, e sia per noi sia per gli psicologi dell’infanzia il “come” è un fattore fondamentale, è l’inizio del rapporto sociale. Quando il bambino ancora non ha capacità logiche, capisce il HOW. Tra l’altro è proprio il tipo di empatia che sembra mancare agli autistici “high functioning”, quelli senza deficit cognitivi ma privi di un importante aggancio con la realtà…

Quindi è un meccanismo che prescinde completamente dal dato culturale… Sarebbe bello indagare meglio sulla qualità del gesto in un senso anche sociale, nella vita di tutti i giorni…

Certo, il gesto gentile è importante… sono convinto che un minimo di gentilezza col marito, coi bambini, appena vai al bar, cambierebbe già il mondo. Invece di “Caffè!” “Mi farebbe un caffè, per piacere?”

Cambiamo l’idea che il positivo è una palla!Si potrebbe sviluppare una ricerca imperniata sulla domanda “La gentilezza funziona?”…

Perché no? è un bellissimo titolo.

Federico Faggin, la scienza della consapevolezza

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È tra i padri del microprocessore e del touch pad. Oggi, con la Fondazione Federico ed Elvia Faggin, indaga la natura della coscienza cercando di estendere il metodo scientifico per esplorare la mente.

Federico Faggin, fisico, inventore e imprenditore, è nato a Vicenza il 1° dicembre 1941, si laurea in fisica summa cum laude nel 1965 all’Università di Padova e dal 1968 risiede in California. Quell’anno, alla Fairchild sviluppa la tecnologia MOS con porta di silicio, che consente la fabbricazione dei primi microprocessori e delle memorie EPROM e DRAM, cuore della digitalizzazione dell’informazione. Diventa poi capo-progetto e designer dei primi microprocessori Intel (4004, 8008, 4040 e 8080). Nel 1974 co-fonda e dirige la Zilog, dove progetta il microprocessore Z80. Nel 1986 Faggin co-fonda e dirige Synaptics, che sviluppa i primi touch pad e touch screen. Il 19 ottobre 2010 Faggin riceve dal presidente Barack Obama la Medaglia Nazionale per la Tecnologia e l’Innovazione per l’invenzione del microprocessore e l’anno dopo fonda la Federico ed Elvia Faggin Foundation, dedicata allo studio scientifico della coscienza.

L’INTERVISTA A FEDERICO FAGGIN SU THE GOOD LIFE ITALIA 

Lo sfondo della Basilica Palladiana, in piazza dei Signori a Vicenza, non potrebbe essere più adatto. L’armonia delle forme, la cadenza regolare di archi e aperture laterali, le campate di ampiezze variabili, creano un insieme che è più potente delle singole parti. Anche la carriera di Federico Faggin è una somma di parti, un lavoro di squadra che il fisico vicentino ha concertato esercitando le virtù del leader naturale.

È stato infatti grazie ad una sinergia delle menti giuste che Faggin ha fatto nascere, nel 1971, l’Intel 4004, il primo microprocessore e una vera rivoluzione per l’informatica. Un oggetto che, a guardarlo, ha anche lui una sua armonia: i circuiti integrati creano un pattern, ed è la giusta disposizione di queste parti a garantire la potenza dell’insieme.

Federico Faggin ha 77 anni e una lunga carriera alle spalle, ma non smette di guardare avanti e oggi studia la natura della coscienza. Già nel 1986 fonda Synaptics con lo scopo di sviluppare computer capaci di auto-apprendere attraverso strutture di reti neurali. Un’intuizione che anticipava di 30 anni le ricerche nel campo dell’intelligenza artificiale. Dalla fisica Faggin ha imparato che esiste solo un mondo oggettivo fatto di materia, energia, spazio e tempo. «Se la coscienza è una proprietà del cervello, mi dicevo, deve essere possibile riuscire a fare un computer consapevole» racconta con lo sguardo intenso di un uomo che non finirà mai di indagare. «Avevo un comitato scientifico di neuroscienziati molto validi e la domanda che ponevo loro era “Qual è la differenza tra consapevolezza e cervello?” Loro rispondevano “la consapevolezza è un fenomeno del cervello”». In altre parole, non c’è differenza.

Faggin vuole capire meglio e intraprende da allora un lungo e appassionante percorso. Mette a confronto e armonizza la sua mente scientifica con l’intuizione e il suo dialogo interiore con la fenomenologia del mondo esteriore. Una ricerca di cui è parte integrante Elvia Faggin, moglie e compagna di una vita.

Nel 1992 Synaptics sviluppa un’altra invenzione destinata a cambiare il nostro modo di rapportarci alle tecnologie: il touch pad. «È nato da una sciocchezza» racconta. «Una piccola rottura di scatole. Ero nel consiglio di amministrazione di Logitech, che produceva trackball (le palline usate al posto del mouse sui primi laptop, ndr). Ma ogni paio di giorni dovevo aprirlo e pulirlo perché il grasso delle mani lubrificava la pallina. In quel periodo avevo un piccolo gruppo di ricerca e lanciai la proposta di cercare un’alternativa alla trackball ricorrendo a elettroniche a stato solido. In un paio di mesi, abbiamo inventato il touch pad che sostituì i trackball, e anche il touch screen, per il quale non esisteva ancora una piattaforma».

La rivoluzione della mente

Faggin rivoluzionerà il mondo della scienza come ha fatto con quello dell’informatica? «Il mio obbiettivo è capire, non rivoluzionare» risponde con ferma umiltà. «Dopo anni di ricerche ho vissuto un’esperienza che ha ribaltato la mia prospettiva. Era il 1990. Avevo quasi 50 anni e ho avuto un’esperienza percettiva spontanea, non indotta e brevissima, in cui mi sono sentito simultaneamente il mondo e l’osservatore del mondo. Un evento fondamentalmente diverso da quelli ordinari, in cui ci sentiamo separati dagli altri. È stata una rivelazione profonda. Ho capito che dovevo esplorare la mia consapevolezza in prima persona. Io non so se lei sia consapevole, né lei sa se lo sono io. Non possiamo provarlo scientificamente, e questo è parte del problema».

Faggin si affida allora a una psicologa transpersonale, non per rimuovere traumi, ma per capire i processi della mente e aprirsi a idee nuove. Studia, approfondisce, vive altre esperienze. «Dopo quella prima ne ho avute molte altre, come risposta a quello che cercavo. E continua a essere così. Faccio un sogno e mi sveglio con un’idea. So che sono guidato. Come sarebbe possibile, altrimenti? Non è
possibile che ci arrivi da solo. Noi siamo guidati». Il suo candore è illuminante.

Faggin ha trovato nel Diamond Approach, fondato da A. H. Almaas il metodo per indagare le molteplici dimensioni del potenziale umano attraverso un percorso che integra psicologia e spiritualità.

Ritiri, lezioni e meditazioni, studio e pratica segnano 10 anni della vita di Faggin. Finché, nel 2008, capisce come restituire al mondo ciò che, fino a quel punto, era stato un processo personale. Cede ai giapponesi la sua ultima società, Foveon, che produce sensori per l’acquisizione di immagini. Esce dai consigli d’amministrazione di cui era membro e nel 2009 decide che vanno finanziate le ricerche sulla consapevolezza, partendo dall’ipotesi che essa sia una proprietà fondamentale della natura. Conosce studiosi in gamba che la pensano come lui, ma non trovano fondi. Perché la premessa è che la consapevolezza è solo una funzione del cervello. Per questo nel 2011 nasce la Fondazione Federico ed Elvia Faggin. «È stato Federico a volere il mio nome nella Fondazione. Non ho nessun ruolo nell’originare idee, ma quando si sveglia di notte con delle idee, mi sveglio con lui e ne parliamo. In questo senso sono molto partecipe» racconta Elvia. «Spazio e tempo sono due ossessioni di Federico: durante le nostre conversazioni cerca di incastrare i pezzi del puzzle nel suo modello filosofico-scientifico».
«La nostra dinamica Ying-Yang riflette le polarità alla base della
vita» conferma Faggin. Nella sua nuova visione, l’ambito fenomenologico, cioè lo studio dei fenomeni anche scientifici, deve unire l’aspetto intuitivo, femminile, con il maschile, razionale. La ricerca di Faggin si è spinta molto lontano dall’idea di creare un “computer consapevole”.

«La scienza e la spiritualità devono trovare un’armonia che oggi non c’è. Sono considerati due campi separati, coesistono ma non si riconoscono. Così riduciamo da un lato la nostra umanità a una macchina, e dall’altro coltiviamo un senso di superiorità riguardo alla scienza e alla materia. Dobbiamo andare oltre, se vogliamo scoprire la natura della realtà».

Un altro modo di vedere

Lo scienziato Faggin ha dunque sviluppato un diverso modo di osservare il mondo e i suoi fenomeni. «Io non posso osservare direttamente il mondo interiore di un’altra persona. Devo cercare di capirlo interpretandone i segni: le parole, il comportamento, l’insieme dell’aspetto fisico. La nostra coscienza, però, che assumo esista prima dello spazio-tempo, può percepire gli altri come se stesso». Può sembrare strano, ma, come spiega Faggin, è lo stesso tipo di contraddizione che sta alla base della fisica quantistica. «Il qubit, cioè il bit quantistico è sia zero che uno. È allo stesso tempo vero e falso. Ciò deriva dal fatto che la realtà è olistica. Non esiste una parte distinguibile dall’altra. La fisica classica è riduzionista e le sue parti sono separate e identificabili. La meccanica quantistica è olistica, e le sue parti sono i campi quantici. Questi sono identificabili, ma inseparabili: sono “parti intero”, cioè gli aspetti identificabili di un universo indivisibile. Nel modello che sto mettendo a punto, il campo quantico è solo l’aspetto fisico di una entità più vasta che chiamo “unità di consapevolezza”. L’unità di consapevolezza è un sé cosciente con un aspetto interno semantico e un aspetto esterno simbolico. I due aspetti si riflettono l’un l’altro. Come le due facce di una stessa medaglia».

La ricerca di Faggin si è spinta molto lontano dall’idea di un “computer consapevole” capace di programmarsi da solo mimando il processo decisionale dell’uomo. Oggi Faggin è giunto alla conclusione che quel tipo di calcolatore non si può progettare. «Come faccio a tradurre quello che provo in segnali elettrici o biochimici che sia, e viceversa? Percepiamo la realtà attraverso sensazioni e sentimenti, emozioni e pensieri. Che non hanno niente a che vedere con i segnali elettrici». Non è una resa della scienza: solo la conclusione che il vero “computer” da studiare è dentro di noi.

Roberto Gabetti , l’architetto che amava i Lumi e la tradizione

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E’ una serata di fine maggio. Il cortile del Castello del Valentino è ormai deserto, abbandonato dopo l’ennesima occupazione. Camminando Roberto sussurra «Sai Carlo mi sento davvero un girondino!». Anche in quel clima, ormai arroventato del 1974, in cui era facile diventare manichei, Roberto Gabetti non rinunziava a credere in un possibile processo riformatore. Non ad una riforma salvifica, come allora e oggi si invoca da opposte posizioni. La riforma poteva realizzarsi, solo se non dava nulla per acquisito e concluso, se non si incentrava in un unico atto. D’altronde a Gabetti non piacevano i manifesti, le semplificazioni, le bandiere.
Si decantava in quella posizione la sua quasi irriducibile dicotomia culturale: l’essere insieme illuminista e cristiano, socialmente e istituzionalmente impegnato. Un intreccio che si ritrova nei suoi scritti e nel suo fare l’architetto. Il Settecento era il suo campo di studi prediletto e l’Encyclopédie il suo riferimento più ricorrente. Come l’architettura sacra era uno degli oggetti del suo impegno civile e professionale, dall’accompagnare l’attuazione del Vaticano II nella commissione d’arte sacra II sino all’essere il «guardiano» della Consolata. Ed è proprio coltivando la sua passione per l’illuminismo, che si apre per Gabetti, la contraddizione probabilmente più complessa: l’amore per la storia e il fascino per la tradizione. Roberto Gabetti ha però sempre tenuti distinti il suo lavoro di storico e la sua professione.
Non solo perché la seconda la ha sempre condivisa con Aimaro Isola. Sapeva e praticava la differenza di codici che i due mestieri gli imponevano, quando si occupava di un lungo eclettismo, che proprio nell’Encyclopédie ritrovava le sue radici o quando doveva fare i conti con la storia dei modelli culturali dominanti, progettando e costruendo. E non a caso, Gabetti e Isola, come architetti, condividevano un approccio alle storie, non agli storicismi, un approccio fatto di ricerche fuori dalle genealogie consuete, di un interesse, quasi ossessivo, per i luoghi, ma anche della capacità di non rimanere prigionieri di provincialismi o di tendenze. La loro architettura rimane lontana dal manierismo di se stessi, come dalle formule con cui troppi li incapsulavano, come il neoliberty, nelle pratiche professionali come nelle leggende metropolitane o nazionali: grazie anche ad un’ironia presa quasi in prestito dagli aforismi di Anouilth.
Roberto Gabetti era in effetti un gran consumatore di romanzi e di letteratura francese. Con il suo lieber meister, Carlo Mollino, condivideva la passione per Proust e per Valéry, a differenza di Mollino non amava Mallarmé, ma Balzac. E la Biblioteca Centrale di Architettura ne porta ancora tutte le fortunate tracce. Ma la sua doppia formazione non si manifestava solo, quando era alle prese con la storia. Roberto Gabetti è stato membro e animatore dei mercoledì Einaudiani, amico oltre che collaboratore di Giulio, che amava sfidarlo proprio sul suo terreno: quello dell’architettura. E di un’architettura interamente politechnicienne. Un’appartenenza che lo ha indotto, in vari momenti della sua vita, a ricercare i fondamenti di quella cultura, per criticarne, da vero illuminista, la matrice positivista e la formulazione binaria delle sue tesi, rivendicandone una diversa genealogia, probabilistica, se non clinica: per ricordare una fortunata metafora che Gabetti spesso usava per descrivere il suo essere indagatore prima che tecnico o docente. Nella sua pratica di professore, l’appartenere ad una scuola politecnica si traduceva nella passione per la costruzione, non tanto per i linguaggi e le forme, per la scienza delle costruzioni attraverso cui era entrato al Politecnico, ma anche nella padronanza di quella mise en intrigue di scienze e simboli, di storie e usi che impongono i più sofisticati restauri, di cui la palazzina Juvarriana di Stupinigi è ancora il «suo» cantiere in corso.
Gabetti, si muoveva nei difficili rapporti tra Soprintendenze, amministrazioni, imprese, con il sorriso e l’ironia, che ne hanno fatto per decenni quasi il sacerdote nascosto di quelle stanze, così spesso rappresentate come luoghi unicamente di scontri e dinieghi.
L’impegno, anche se oggi solo l’uso di quel termine appare desueto, nella scuola, lo esercitava con una razionalità degli scopi al limite della crudeltà volterriana, con una passione di testimone di un modo di interpretare l’insegnamento, al limite del paragrafo 2-6 della lettera di San Paolo ai Romani, «Il quale (Dio, ndr) renderà a ciascuno secondo le sue opere».  E per questo che è rimasto nella memoria di tanti davvero un maestro, aspro, pungente, a volte lontano, ma sempre disponibile al confronto.
Un impegno che aveva nella didattica il suo fulcro, ma non l’unico terreno. Gabetti ha partecipato alla vita dell’Ateneo, alla parabola che da scuola di pochi e per pochi è passata alla scuola di massa, senza lasciar spazio ad alcuna inclinazione per l’esclusione: e lo ha fatto nelle aule, nelle assemblee, nei consigli di facoltà, nelle commissioni di ateneo, nella vita quotidiana della scuola.
Forse la dedica a lui della Biblioteca centrale della facoltà Roberto Gabetti, coglie non solo il lavoro certosino e la sua capacità di mobilitare intorno ad essa altri: come Giovanni Brino, Elena Tamagno, ma anche studiosi non della scuola, come Andreina Griseri. Costruire una biblioteca riassume le diverse anime di un impegno che contraddistingue quella generazione di azionisti, cattolici, comunisti che credevano fortemente nella restituzione agli altri dei doni che la fortuna o Dio, la famiglia o le esperienze politiche avevano così ampiamente loro riservato.
Carlo Olmo
La Stampa, 29 giugno 2014

“Running the Numbers” di Chris Jordan

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Uscire dal vortice di abitudini tanto comode quanto dannose è una grande sfida, ma come tutti i cambiamenti, è più faticoso pensarli che affrontarli. Lo sa bene Chris Jordan che, sulla soglia dei 40 anni lascia l’avvocatura. La cultura del consumismo, difesa da avvocato, diventa il soggetto dell’artista di Seattle. Appassionato al lavoro di Andreas Gursky e Richard Misrach, studia il banco ottico, attratto dalla qualità suprema dei dettagli. Come un archeologo post-moderno esplora porti, zone industriali, discariche, fotografa “on location” e in studio. Più si addentra, più vede con chiarezza le contraddizioni, la confusione, l’assurdità di quella che definisce “un’apocalisse al rallentatore”.

Di fronte alle sue fotografie è impossibile restare indifferenti. Le opere di Jordan sono testimonianze concrete di un crescente degrado, coreografato e interpretato con grande sensibilità artistica. La collezione di immagini stupefacenti, da lontano seducono l’occhio; da vicino ingaggiano la mente e colpiscono il cuore.

“Io faccio parte di una comunità di pensatori, artisti e scienziati consapevoli di quanto l’attuale modello di consumo non sia più sostenibile, ma siamo ai margini della società; al centro c’è una potentissima macchina controllata da industrie, aziende e politici che vive in negazione e non percepisce quanto gli effetti del consumismo siano devastanti, non solo per la natura ma per la psiche umana”, spiega Jordan.

Running the Numbers, e Running the Numbers II, in italiano, Diamo i Numeri, sono due serie nate nel 2006 e tutt’ora in corso, che visualizzano le dimensioni grottesche dei nostri consumi attraverso fedeli rappresentazioni di dati e statistiche. Una voracità collettiva di cui nessuno vuol essere responsabile.

“La gente si diverte a scoprire gli strati molteplici delle mie immagini”, dice Jordan. “Durante le mostre s’informa, s’indigna, si entusiasma, ma la motivazione delle persone è come un colpo di remo: crea un piccolo mulinello che pian piano s’allarga poi sfuma e sparisce nella corrente.”

Sappiamo che stiamo distruggendo il pianeta ma i comportamenti non cambiano. Se l’effetto cumulativo dei consumi non è sostenibile, solo la coscienza di ciascuno può valutare il peso dei danni che produce, dando rilevanza all’impatto delle semplici azioni quotidiane.

Jamer Hunt, designer senza confini

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Docente di Transdisciplinary Design alla New School di New York e autore di saggi sull’impatto del design nelle nostre vite, Jamer Hunt ha una formazione da antropologo. Nel 2009 ha fondato (e diretto fino al 2015) il corso di Transdisciplinary Design alla Parsons School of Design di New York. È docente all’Institute of Design a Umeå, in Svezia. Con Paola Antonelli, curatrice di Architettura e Design al MoMA ha ideato il progetto Design and Violence. Nel 2006 ha co-fondato DesignPhiladelphia e nella stessa città ha coordinato il recupero di Hawthorne Park. Il tutto con una convinzione: i problemi complessi si risolvono collettivamente.

L’INTERVISTA A JAMER HUNT SU THE GOOD LIFE ITALIA

Ha la tempra e il fisico del maratoneta e una mente che prospera nella diversità. Antropologo di formazione, Jamer Hunt è entrato nel mondo del design grazie a una serie di coincidenze e sta aprendo orizzonti nuovi su un mestiere che non si occupa solo più di cose ma di sistemi – industriali, territoriali, sociali – e ovunque serva analizzare problemi e concepire soluzioni. Quando nel 2009 ha creato e poi diretto il nuovo Master in Transdisciplinary Design alla Parsons’ School of Design di New York, il titolo era soggetto alle interpretazioni più disparate. “Avviare il programma è stata una grande sfida” racconta, nel giardino della Triennale, dopo una riunione del team curatoriale di Broken Nature, (marzo-settembre 2019, curatrice Paola Antonelli). “Stavamo cercando di prevedere dove andasse l’industria e se i nostri studenti avrebbero trovato lavoro. All’inizio abbiamo insistito che tutti i progetti fossero collaborativi e la ragione, in parte, era di allontanare i ragazzi dalla nozione del designer eroico. Ci sembrava che i problemi, sempre più complessi, non potessero più essere risolti da singoli, bensì collettivamente. Abbiamo verificato sul campo che più gli studenti prendevano le distanze dalla posizione egocentrica del progettista, più si consolidava il legame di gruppo, che ho sostenuto anche fuori dalle aule con cene e momenti di socializzazione. In poco tempo sono diventati solidali, aiutandosi, sostenendosi e scambiando conoscenze. Il risultato è che quando si sono laureati e sono entrati nel mondo del lavoro, si sono facilmente integrati, portando spirito di squadra e adattabilità. Assunti in aziende come designer, in breve tempo hanno contribuito a riprogettarne la cultura, raggiungendo traguardi inaspettati. Comprendendo, durante il corso, le dinamiche interpersonali, hanno maturato un’intelligenza organizzativa. Inizialmente le ambizioni e la preparazione degli studenti erano disallineati con le organizzazioni che li reclutavano. Erano giovani d’età ma maturi per sensibilità, competenza e creatività, però nessuno era disposto ad affidare pianificazioni strategiche a quadri di primo livello. Poi, qualcosa di radicale è cambiato. Organizzazioni quali la Banca Mondiale,il Governo Federale degli Stati Uniti o le scuole pubbliche a Detroit, che non avevano mai pensato di assumere designer, hanno capito che non sono solo utili per rifare l’atrio.” Con soddisfazione Hunt ha visto crescere le opportunità d’impiego per i suoi laureandi. Nel 2016, il programma è consolidato, la sinergia tra studenti e docenti produce progetti notevoli e Hunt, sentendo di non avere nulla da aggiungere, decide di prendere un anno sabbatico lasciando la direzione a Lara Penin, laureata al Politecnico di Milano. La pausa serve a lui e al suo ateneo per capire che il processo avviato è importante e che può continuare in altri corsi: “Il mio nuovo ruolo è Provost per le Iniziative Transdisciplinari – riuniamo studenti di diversi programmi e facoltà. E’ un modo di insegnare che non ha precedenti, attraverso dinamiche co-creative in cui anche i docenti impararano.”

È consueto per Hunt lavorare fuori dagli schemi. Sarà anche per questo che ha collaborato in diverse occasioni con Paola Antonelli. Il loro esperimento curatoriale Design and Violence, durato 2 anni (2013-2015), ha messo in questione il ruolo del design, del designer e del curatore gettando luce sulle nuove e sottili forme di violenza nella società contemporanea. “Abbiamo voluto mettere in discussione i valori eccessivamente ottimisti e l’idea che il design abbia creato solo cose positive”, racconta con il ritmo di chi ama esplorare le proprietà delle parole. “Può fare anche molti danni e una comunità matura dovrebbe essere in grado di avere conversazioni su questo. Portare la mostra online ha creato un’apertura sorprendente e ci sono state diverse conversazioni che hanno cambiato prospettive su ruoli e significati. Non sono mancate sorprese. Un progetto che Paola ed io postammo su come macellare umanamente il bestiame aveva generato tanti commenti e animate discussioni sull’etica di uccidere e mangiare animali. Il nostro ultimo post, sul cocktail chimico somministrato ai condannati a morte, attraverso un’intervista a un uomo che dopo 30 anni fu trovato innocente e che raccontava la sua esperienza nel braccio della morte, ebbe 3 commenti.”

Nel corso della conversazione il nesso tra la formazione di Hunt come antropologo culturale e il suo lavoro attuale appare sempre più chiaro. “Ci sono due cose che mi interessano davvero del design: poetica e politica. Progetti come Design and Violence e Broken Nature ci permettono di riflettere sull’impatto del design nel quotidiano. Sto scrivendo un libro sulla nostra incapacità di cimentarci con l’entità dei problemi nel mondo, e credo che abbiamo bisogno di modi radicalmente nuovi per affrontarli. Sono problemi a cui tutti contribuiamo, ma in maniera difficili da tracciare. Con Broken Nature speriamo di sfidare il sistema, il potere, l’agire e l’autorità che ci hanno portato dove siamo come società umana.”

Qual è l’impatto di un cittadino quando i problemi sono di scala globale? Serve ancora riciclare quando urge ripensare a come progettiamo produciamo consumiamo e smaltiamo le nostre cose?

Quale sarà la sintesi di un team curatoriale che viene dall’Africa, l’Asia, e le Americhe su Broken Nature (Natura Rotta)? “Noi occidentali abbiamo nozioni strette su natura, cultura, umano, artificiale che devono essere trascese, contestate e ripensate,” risponde Hunt. ”E poi, Natura Rotta da chi? Cos’è la natura? Vogliamo parlare di riparazioni? Perché sottintende che ci sono crimini, e allora chi li ha commessi? Chi ne ha beneficiato? Sono questioni esplosive e il design è tradizionalmente a-politico. Microbi, procioni e maremoti che parte hanno? Cosa succede se togliamo la centralità all’uomo e lo mettiamo in competizione con l’ecosistema che crede di dominare? La natura ha molte soluzioni, dobbiamo solo ascoltarle. Ci stiamo ponendo quesiti difficili e mi affascina in questo processo trovare un equilibrio tra le riflessioni accademiche sul significato filosofo ed epistemologico di Broken Nature, il fatto che saremo in mostra tra 8 mesi (6 per chi legge!) e che la maggior parte del mondo non è interessato a quella conversazione. Nel contempo amo la poetica, il design brillante, bello, gioioso, che stupisce.” Jamer Hunt è un pensatore laterale e quando è ispirato produce inusuali associazioni d’idee. Per dare il suo meglio deve poter spaziare: “quando sono troppo occupato e concentrato sui compiti, divento meno interessante.”

Una carriera affascinante, in piena evoluzione, nata dall’incontro con un amico di un amico, Tucker B. Meister, e da una comune passione per i Simpson. Ha creato Design Philadelphia, una delle più importanti mostre del suo genere negli Stati Uniti e, ancora una volta, da un incontro casuale, è nata Hawthorne Park, area verde che ha restituito dignità a un’area disagiata della città. Ha collaborato con Sciences Po sul progetto Occupy Earth, aiutando gli studenti a capire come dare una voce e un ruolo a creature non umane per riconoscere l’importanza della natura sulla Terra.

Un uomo tanto aperto al dialogo quanto schivo  in rete e addirittura assente dai social media. Perché? “Nei primi anni 2000 quando i social iniziavano a crescere, avevo la sensazione di conoscere già abbastanza persone e non sentivo il bisogno di allargare il cerchio. La mia vita era già abbastanza complessa. Ho due figli, facevo il pendolare, avevo una comunità a New York e una a Philadelphia, quindi ho pensato di non voler aggiungere un altro strato di socializzazione. Poi, la decisione casuale di non essere iscritto a Facebook è diventata una posizione e persino un gesto politico. Piuttosto che essere l’ultimo a iscrivermi, aspetto che crolli, poi potrò essere il primo ad accedere al prossimo social media. Mi piacerebbe essere più presente su Twitter, ma mi è difficile trovare la giusta voce e il giusto tempo, l’energia e la leggerezza per progettare il mio brand personale. Ho un sito, posto su Instagram perché mi piace molto fare fotografie, ma in generale ho un rapporto strano con i social. Quando uscirà il mio libro dovrò diventare più sciolto e proattivo! Mia figlia, che ha 18 anni, può postare mille cose al giorno perché non si preoccupa del singolo contenuto, mentre io, che non lo faccio spesso, ritengo che ogni post sia importante e mi preoccupo troppo di farlo bene….”

Franziska Nori, l’éclaireuse

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Nominata nel 2007 a capo del Centro di Cultura Contemporanea Strozzina di Firenze, Franziska Nori è riuscita a rendere il palazzo il luogo ineludibile della modernità, nel cuore della culla del Rinascimento. La prova? Aumenta la frequenza di 20% l’anno.

L’INTERVISTA A FRANZISKA NORI SU THE GOOD LIFE ITALIA

Ha avuto 48 ore per decidere di accettare una grande sfida, e pochi mesi per realizzarla. Franziska Nori, anni, padre italiano e madre tedesca, dal 2007 è direttore del Centro di Cultura Contemporanea Strozzina di Firenze. In cinque anni ha creato, nella culla del Rinascimento, un luogo d’impatto. Dai 7.000 visitatori della sua prima mostra, “Sistemi Emotivi – artisti contemporanei tra emozione e ragione”, ha avuto una crescita annua del 20%. Nel 2012, con “American Dreamers”e “Francis Bacon e la condizione esistenziale nell’arte contemporanea”, il CCC Strozzina, che ha sede nelle fondamenta del palazzo Cinquecentesco, ha accolto più di 78.000 visitatori.

Il successo non era scontato. I fiorentini, fieri del loro patrimonio storico e artistico, avevano una certa diffidenza verso le forme espressive contemporanee. Con mostre a tema e attività collaterali, da laboratori a proiezioni, incontri e lezioni, Nori ha messo a segno l’obiettivo di far riflettere sulla realtà in cui viviamo, attraverso lo sguardo di artisti del nostro tempo. “Il lavoro al CCC Strozzina mi consente di dialogare con un pubblico preparato” afferma Nori, “e mettere a fuoco le mie riflessioni – da un lato sul ruolo che le istituzioni dedicate alla cultura contemporanea possono svolgere, e l’idea di politica culturale che vogliono esprimere, dall’altra su come rafforzare l’esperienza dell’incontro con l’arte, la forza trasformativa che, oltre la sfera intellettuale, diventa estetica non verbalizzabile.”

I temi da lei scelti hanno forte attinenza con l’attualità. Nel 2008, “Arte, Prezzo,Valore”, inaugurata mesi dopo il crollo della Lehmann Brothers, mette in relazione il crescente peso economico dell’arte contemporanea e il sistema economico internazionale: “In una società capitalistica che riconosce il valore monetario come indice di valore assoluto, l’artista diventa operatore economico sia della propria immagine, sia dei prodotti che si inseriscono in un sistema di mercato e di quotazioni. La mostra proponeva, attraverso le opere di 21 artisti tra cui Damian Hirst, Takashi Murakami e Aernout Mik, una riflessione sulle diverse strategie adottate da artisti in tale contesto.” Fanno da cornice le cifre esorbitanti raggiunte dalle aste internazionali. E’ del novembre 2012 il record di una singola asta di arte contemporanea: 412.2 milioni di dollari.

Nel 2011, già segnato dal fermento della Primavera Araba, Nori sceglie un altro tema caldo: “Declining Democracies”, e crea un percorso attraverso 12 artisti per riflettere sui valori, le contraddizioni e i paradossi delle democrazie. Interagisce con i visitatori attraverso un referendum, ponendo all’ingresso della mostra un facsimile di una scheda elettorale. La domanda è: la maggioranza ha sempre ragione? Risposta secca Si, No. L’azione provoca riflessioni e discussioni sui sistemi attuali di voto. Lo spoglio delle schede conferma, con il 69% di “No”, lo scetticismo nel principio di “maggioranza”. Risultato che trova risonanza oggi in Italia: “E’ innegabile la crescente sfiducia in un sistema politico in cui i cittadini, come scrive Colin Crouch in “Postdemocracy”, si sentono sempre meno protagonisti, vittime di un sistema di potere, un cortocircuito tra classi politiche, grandi imprese, banche e media.”

In questo contesto nasce Talenti Emergenti, rassegna e premio per giovani artisti. Il progetto biennale dà risonanza a sfide e opportunità per i giovani oggi, l’importanza dell’interazione. E ancora muove energie sul territorio con Educare al Presente, incontri e laboratori per le scuole secondarie, che fanno perno attorno ai temi sociali e politici delle mostre stesse. Nori declina in maniera pratica e diffusa la missione del CCC, che è di aprire l’accesso alla cultura e alla conoscenza. “La rete è uno strumento di democratizzazione impagabile, ma va accompagnata di pari passo dall’educazione sia civica sia culturale.” E questa avviene in luoghi fisici, attraverso il contatto umano, e con le opere d’arte.

Nel 2012, anno di elezioni, CCC ospita “American Dreamers”,e mette in risalto la coesistenza di incertezza e ottimismo, il Sogno Americano, la volontà di credere nel futuro. 11 artisti invitati, interventi molto diversi, un punto in comune: “Da tutte le opere è emersa un’attenzione alla manualità, e un atteggiamento anticonformista, contrario alle produzioni in serie, all’eccesso di velocità imposto dalla società moderna.“

Alla bellezza, l’esperienza soggettiva, i canoni che l’arte da sempre esalta e stravolge, è dedicata la mostra in corso. Oggi i principi di armonia delle forme, geometria, verosimiglianza o esecuzione virtuosa, hanno perso la loro valenza: ”Sussiste un’oscillazione tra due antipodi, tra una diffidenza verso la rivelazione del bello, e la ricerca di significati connessi alla dimensione esistenziale più profonda dell’uomo”, conclude la curatrice, che indaga “Un’Idea di Bellezza”attraverso 8 artisti internazionali.

Le tre cose che Nori ama e non sopporta dell’Italia sono le stesse, valgono in entrambi i sensi: “Il nostro rapporto con l’abbondanza artistica presente nel nostro paese, il nostro rapporto con le bellezze e il patrimonio naturale e animale di cui l’Italia è ricca, lo spiccato senso di individualità rispetto al collettività.”

Nori supera la dualità abbracciando gli opposti, e la sua doppia identità italo-germanica con un senso di appartenenza europea, cultura in cui crede profondamente.

Ma è lontano, nel deserto dell’Arizona, il suo luogo d’arte preferito: “Il Roden Crater, un vulcano architettonicamente modificato dall’artista James Turrell, dedicato alla percezione della luce degli astri è un’esperienza da non perdere.”

Rosalba Bonaccorsi, la cacciatrice di alieni

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“La passione per la vita nello spazio è sempre stata in me. L’ho scoperta appena ho cominciato a pensare.”

L’INTERVISTA A ROSALBA BONACCORSI SU THE GOOD LIFE ITALIA

La maggior parte di noi lo spazio lo sogna. Rosalba Bonaccorsi, astrobiologa, lo pensa, lo studia e lo racconta. Ricercatrice presso il SETI Institute – Search for Extra Terrestrial Intelligence – in cooperazione con Nasa Ames, e membro del Carl Sagan Center for the Study of Life in the Universe, Bonaccorsi cerca la vita su altri pianeti. In particolare, su Marte. Mestiere che la porta a essere imprenditrice, esploratrice, educatrice. Conduce una vita estrema, fatta di notti a scrivere proposalsnel suo piccolo laboratorio-studio a Nasa Ames, nel cuore della Silicon Valley, e di osservazioni e analisi dei sedimenti sul campo, nella Death Valley, luogo definitohigh fidelity, ossia molto simile a quello del pianeta rosso. Ma anche high intensity,per via delle forti escursioni termiche. Oggi i suoi risultatisono un importante tassello di un programma che alletta molti ricercatori e imprenditori: la conquista di un pianeta abitabile.

Raggiungo la ricercatrice bergamasca (ormai quasi californiana) al telefono. Per lei è mezzanotte, mattino per noi.  Mi sento un impostore, seppure sia stata lei a fissare l’appuntamento. “Tranquilla, ho tutto il tempo che occorre, e quando finiamo la nostra conversazione, scriverò”, mi rassicura. Skype non è accessibile nella zona high security dove risiede. Nel raggio di un chilometro dal suo ufficio, ci sono tecnologie tra le più avanzate al mondo.

Il 2015 è stato un anno importante per la ricerca della vita su Marte. “Grazie alle immagini più definite dei satelliti, sappiamo che c’è acqua”, racconta con un picco di emozione. Questa conferma dà una valenza nuova alla sua ricerca.

Ho conosciuto Rosalba lo scorso anno, per raccontare il suo progetto Lunar Plant Growth, nato in collaborazione con Chris McKay, un mito della Planetary Science. Insieme, hanno costruito un modulo capace di far germogliare semi di pomodoro e basilico sulla luna. Mentre cerca un passaggio per la magica scatoletta su un volo spaziale destinato al nostro satellite naturale, per testarla, McKay tenta di convincere Google a partecipare all’impresa. Tra un ciak e l’altro della nostra video-intervista, Rosalba mi aveva raccontato della sua vera missione: trovare segni di vita su Marte. Oggi parliamo di questo. “Da anni conduco le mie ricerche nella Death Valley (Deserto del Mojave, California), tra i posti più caldi della terra. Il mio sito di osservazione è nel Cratere Ubehebe, luogo fragile e prezioso. Per i  Timbisha Shoshone, i nativi della zona, è Valle della Vita, l’ombelico del mondo, centro della Creazione. Mi addentro nella conca millenaria con un senso di infinita connessione al cosmo e con l’entusiasmo per le scoperte scientifiche all’orizzonte. Devo conoscere tutto di lei per conoscere Marte. L’area presenta molti aspetti Marziani: i crateri sono coperti da ceneri vulcaniche e contengono depositi argillosi in pozze lacustri di breve durata. Tali pozze si formano in seguito a sporadiche ma violentissime piogge, proprio come plausibilmente accadde su Marte qualche miliardo di anni fa.”

Come un detective, cerca indizi di vita cellulare, micro-algale, capace di risvegliarsi per tempi brevissimi. Cogliere l’attimo è conoscenza, esperienza e intuizione. E’ partire, pronti a sopportare prove fisiche estreme: “Quando scendo nel cratere durante i giorni più caldi (48 C) o quando risalgo nelle notti più oscure e fredde, (-16 C) mi sento veramente su Marte! Il più grande pericolo, lì, è la disidratazione. Il corpo umano a 45° C e 1% di umidità perde 1 litro di acqua salata l’ora (siamo fatti di acqua di mare!) che deve essere reintegrato con elettroliti. Come un’astronauta, devo calcolare quanta acqua portare. La minaccia di ipotermia e morte sono i limiti della mia attività esplorativa. Poi, devo essere pronta ad affrontare tempeste di sabbia e bombe d’acqua. Il mio veicolo, una sedandel 2000, è la mia capsula di sopravvivenza, e i miei amici Ranger, le guardie del parco, sono i miei grandi alleati.”

I depositi lacustri che Rosalba osserva sono molto simili a quelli scoperti nel Gale Craterdal Rover Curiosity, il robot atterrato sul pianeta rosso nel 2012. Ma la notizia bomba arriva il 26 settembre 2015, quando il Mars Science Labdella Nasa annuncia: risolto il mistero di Marte. Ricorrenti Slope Linae (RSL)confermano che scorre acqua. Le RSLsono striature di sali sulle pendici di alcuni crateri, resi evidenti dalle immagini ad alta definizione del satellite Mars Reconaissance Orbiter. Dal flusso regolare di dati, gli studiosi hanno visto che le striature appaiono e aumentano nelle stagioni calde e svaniscono in quelle fredde.

Rosalba spiega l’implicazione rivoluzionaria: “Nei periodi di acqua liquida su Marte, si ipotizza che la vita microbica possa riprodursi, crescere e tornare dormiente.  E’ esattamente ciò che osservo nel deserto: una vita effimera, nascosta, criptica, che usa brevissimi intervalli per manifestarsi.”

Al rientro dalle escursioni, Bonaccorsi incrocia dati raccolti su Marte e in altri luoghi sulla Terra che hanno caratteristiche simili, come il deserto di Atacama, in Perù, sul quale sta scrivendo un paper. “Quando lì piove, il deserto fiorisce, segno che non solo i microbi possono risvegliarsi, ma anche alcuni semi. Sul nostro pianeta, in zone molto aride dove sembra che non ci sia vita, si dimostra che invece basta poca acqua per ridestarla. Il Sacro Graal sarebbe di trovare su un pianeta cellule vive, o molecole prodotte da cellule viventi.”

La tentazione di chiederle un’opinione su Il Sopravvissuto (The Martian), il film del 2015 diretto da Ridley Scott con Matt Damon, è irresistibile. Mark Watney è un’astronauta che viene abbandonato su Marte dal suo equipaggio, che lo crede morto. “E’ molto realistico in termini di progetti della Nasa”, racconta, “meno per quanto riguarda le condizioni di sopravvivenza di Watney (Matt Damon). Nel deserto provo emozioni ed esperienze simili, anche se posso respirare senza il casco. Il 2015 ha regalato un altro bel film agli appassionati di fantascienza, Interstellar. “Va guardato diverse volte – c’è dramma, scienza, e fisica quantistica, difficile da capire anche per uno scienziato.”

Avere le idee chiare sin da piccoli non guasta, ma non è detto che avere successo sia più facile. Rosalba Bonaccorsi ha fatto molta strada per arrivare fino alla Nasa. Un passo che, da ragazza le sembrava “improbabile”, un posto che ha conquistato con perseveranza e umiltà. Rosalba non ha scienziati in famiglia. Figlia unica, da bambina è attratta dal cielo stellato, e vuole capire come funzionano le cose. Smonta la sveglia meccanica della nonna, osserva, rimonta, ma non funzionerà più. La nonna s’infuria ma Rosalba non si arrende e continua a sperimentare di nascosto con insetti, semi e rocce che polverizza per magiche pozioni colorate.

Crescendo si sente diversa: “Ero una nerd ma non mi vergognavo affatto”. Lascia Bergamo per l’Università, a Milano, dove s’iscrive a Scienze Naturali. Si laurea con una tesi sui delfini del Mar Ligure e una sottotesi in geologia, sui sedimenti marini e le carote del Mar Mediterraneo Orientale che servono per verificare i cambiamenti climatici avvenuti 5 milioni di anni fa. Primo mentore è la Professoressa Maria Bianca Cita, “Una forza della natura. Quello che ho imparato con lei mi ha catapultato verso il dottorato di ricerca all’Università di Trieste”, racconta Rosalba con un picco di piacere. Un percorso difficile. A suo tempo, ai dottorati si accedeva solo se scelti da un professore, “ E io non ero stata scelta. Ho dovuto partecipare a 22 concorsi e ce l’ho fatta solo perché mancava un candidato.”  Quanti sono pronti a tanto impegno per raggiungere un obiettivo? Rosalba dovrebbe tenere un corso sulla perseveranza.  A Trieste studia i sedimenti marini dell’Antartide, che, per vie traverse, la porta all’astrobiologia, perché l’Antartide è un “analogo” per Marte.

Maggio 1995. Durante il terzo e ultimo anno, Rosalba legge un inserto per uno stage alla Nasa sulla rivista Nature. Pur non avendo sponsor, fa domanda. 10 settimane interamente spesate nell’istituto di ricerca più ambito al mondo le sembrano un sogno. La prendono. Non ci può credere, ma dopo l’emozione della vittoria, il rifiuto. Al Biosphere 2, in Arizona, dove negli anni 70 si fecero i primi esperimenti di isolamento umano, (poi campus universitario), dicono di non avere tempo per seguire un altro studente. Il disguido, se così lo vogliamo chiamare, getta Rosalba nella disperazione più buia. La direttrice del programma presso la Nasa, Lynn Margulis, le scrive dispiaciuta per l’accaduto. Passata la bufera emotiva, la giovane e ambiziosa ricercatrice pensa: “se sono stata scelta una volta solo per quello che so fare, se la mitica Margulis (una delle mogli di Carl Sagan, ha sfiorato il Nobel e ha lavorato alla teoria Gaia con James Lovelock) ha preso il tempo per scrivermi, posso farcela di nuovo.”

Per farsi conoscere e per creare contatti con ricercatori interessati a sponsorizzare il suo post dottorato, viaggia per convegni, portando il suo lavoro sull’Antartide. Nel frattempo, l’arrivo di internet semplifica le procedure. Così incontra i suoi “cavalieri di Nasa Ames” come li chiama lei. Dopo il primo triennio, Rosalba trova fondi per continuare, ma fare ricerca pura è sempre più difficile, così integra le sue risorse economiche collaborando con il Death Valley National Park e organizzando seminari. Ora sta preparando con loro la quarta edizione del Mars Fest. Suona hippy, ma è un evento serio, che avrà particolare rilevanza nel 2016 perché ricorre il centenario del National Park Service.

Rosalba sogna di andare su Marte?

“Tempo fa ero frustrata di essere nata troppo presto per arrivarci – a meno che non venga rapita dai Marziani! Oggi, però, mi rendo conto che quando sono nel cratere della Death Valley mi sento su Marte. Non poterci andare per davvero non mi mancherà troppo.”

Il suo sogno a occhi aperti è di continuare la sua ricerca senza affanni e di essere d’ispirazione alle nuove generazioni per creare un mondo più pacifico. “La scienza non è solo un fine, è anche un mezzo per condividere con i nostri compagni umani, per scambiare conoscenza. Vorrei sviluppare modelli educativi, lavorare un po’ in Europa, fare da ponte tra diverse culture e luoghi nel mondo. Mi avvicino a questo con Spaceward Bound Project, che quest’anno mi porterà in India. Andremo nei villaggi a parlare di astrobiologia e faremo ricerca sull’Himalaya per studiare i ghiacciai, i deserti di alta quota e le sorgenti geotermali, insieme a colleghi indiani, australiani, neozelandesi e americani.”

Una persona così impegnata, audace e intensa non accetta compromessi nemmeno quando si tratta di relazioni sentimentali. “La vita romantica c’è stata e ci sarà”, commenta. Fiera di essere donna in un mondo di uomini, tra un impegno e l’altro trova anche il tempo per scrivere qualche verso.

Da “Reti di Luce”:

Geme e dispera la Potenzialita’ Inespressa,
che forse altrove, dispone e ricrea
una Rete di luce,
In un altro Universo.