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occhio al futuro

Federico Faggin – I computer coscienti

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I computer potranno diventare più intelligenti degli umani? Potranno aiutarci a risolvere le grandi sfide del nostro tempo? Ne parliamo con lo scienziato italiano Federico Faggin, che nel 1971 inventò il primo microprocessore, rivoluzionando il mondo. Nel 1986, partendo dal presupposto comune che la coscienza è una proprietà del cervello, si impegnò per sviluppare computer capaci di autoapprendere e diventare coscienti. Che ne sarà dell’essere umano? Di cosa si occuperà? Quale sarà il prossimo cambiamento necessario? Ascoltate cos’ha da dire uno degli uomini più geniali del nostro tempo sul futuro che stiamo costruendo

Cristina: I computer potranno diventare più intelligenti degli umani? Potranno aiutarci a risolvere le grandi sfide del nostro tempo? Ne parliamo con lo scienziato italiano Federico Faggin, che rivoluzionò il mondo nel 1971 inventando il primo microprocessore. Nel 1986, partendo dal presupposto che la coscienza è una proprietà del cervello, si impegnò per sviluppare computer in grado di autoapprendere e diventare coscienti. Federico a che punto siamo con lo sviluppo dei computer coscienti?

Federico Faggin: Non siamo neanche partiti. I computer coscienti secondo me non saranno possibili. Il computer è semplicemente un manipolatore di simboli, benché all’inizio pensassi che il computer potesse essere consapevole, questo parliamo dell’86..’87. Avevo anche io pensato che la complessità del cervello potesse esprimersi attraverso la coscienza, poi pensandoci, cercando di capire e creare un computer che potesse essere consapevole, mi sono accorto che questa era un’impossibilità perché non c’è nessuna legge fisica che permetta di trasformare i segnali elettrici – quelli del computer oppure i segnali biochimici del cervello – in coscienza, in sensazioni o in sentimenti. Noi percepiamo il mondo con sensazioni e sentimenti.

Cristina: Quali sono i rischi di partire dal presupposto che i computer diventeranno coscienti?

Federico Faggin: Molta gente viene sviata nella maniera in cui pensa di essere, pensa che la vita sia simulabile in un computer e così via, che la consapevolezza sia downloadable in un computer. Tutte queste sono cose che non hanno veramente nessun fondamento scientifico, infatti il fondamento scientifico le nega, quindi perché preoccuparsi? La macchina non ha comprensione, la consapevolezza è ciò che ci da la comprensione della realtà, il fatto è che siamo molto di più di quello che pensiamo di essere e questo può essere soltanto compreso attraverso un’esperienza vissuta, non può essere compreso mentalmente. Finché l’uomo crede che l’unica comprensione sia una comprensione mentale, invece che esperienzale, si sbaglierà. Purtroppo la scienza oggi pensa che sia tutto mentale e invece si dimenticano del loro cuore e si dimenticano spesso anche della loro pancia, e del coraggio. Finchè la scienza che è l’autorità non riconosce altro che materia, la fisicalità e disconosce qualsiasi aspetto che puzzi di qualcosa che non sia materia abbiamo un problema grandissimo. È quando qualcuno incomincia a riconoscere qualcosa che non è riducibile alla materia che si apre tutta una possibilità di nuova conoscenza, nuova esperienza che oggi è oggi negata. Il fisico risponderà tipicamente a un discorso come “faccio io”, “ah ma quest è filosofia” e in questo modo è buttato via tutto da una parte e si continua come prima.

Cristina: Proprio la comprensione della realtà ha convinto 193 paesi a stilare e adottare l’agenda 2030 e i 17 SDG. Federico Faggin è stato un propulsore fondamentale di tante innovazioni – dunque il numero 9 gli appartiene a pieno titolo. E il suo studio della coscienza tocca tutti gli altri.

Parte II

Cristina: In un mondo sempre più automatizzato, dove appunto anche molti lavori ripetitivi verranno sostituiti dai robot, l’essere umano di cosa dovrà o potrà occuparsi?

Federico Faggin: Del suo sviluppo emotivo, spirituale, mentale e questo naturalmente è la speranza che l’intelligenza artificiale, usata bene, possa portare a questo. Il problema è quando invece viene usata contro l’uomo o per ridurre l’uomo, che è manipolabile, per consumare generi che gli sono proposti attraverso la manipolazione dell’informazione, quello è il problema. L’etica è fondamentale, certamente quando l’intelligenza artificiale sarà usata in medicina, oppure nella guida automatica, stabilire regole etiche di comportamento diventa essenziale. Per non parlare dell’uso dell’intelligenza artificiale nella guerra, come ci sono già stati problemi etici per esempio con le armi chimiche, quindi ci sono trattati e cose così. Il problema diventerà sempre più serio, man mano che la tecnologia diventa più potente, però l’etica si può sempre violare, è li il problema. Come facciamo quando l’etica viene violata? Il problema fondamentale di cambiare l’immagine che l’uomo ha di se in modo che si regoli da solo, quindi è un problema di educazione della coscienza di chi è l’uomo, perché si cambia fuori perché dal fuori bisogna cambiare dentro. Oggi si pensa che per cambiare da fuori si può cambiare dentro una persona, ma quello non funziona, si può solo cambiare qualcosa fuori se uno cambia da dentro, ed è li proprio il problema della coscienza. È li il passo fondamentale che l’uomo deve fare oggi, deve capire che non è una macchina. L’uomo non è una macchina, è un essere spirituale.

Cristina: Ha fiducia che l’umanità potrà collettivamente risvegliarsi? Soprattutto in relazione alle questioni climatiche?

Federico Faggin: Non c’è scelta, l’umanità deve cambiare. Per risolvere i problemi del cambiamento climatico che avverranno tra 30, 40, 50 anni potenzialmente catastrofico e quindi richiedono l’umanità, che si mettano d’accordo a risolvere questo problema come umanità, non più come paese.

Cristina: Ci sarà o no una tecnologia in grado di accelerare questo processo?

Federico Faggin: La tecnologia è facilmente raggiungibile se il mondo si mette d’accordo a trovarla, di fatti c’è una tecnologia fondamentale che secondo me, per caso, appare allo stesso tempo che c’è un problema a livello globale, che è internet. Permette alle persone di mettersi d’accordo in un giorno, tutto il mondo può sapere quello che succede nel mondo.

Cristina: In questa cornice, l’innovazione tecnologica SDG 9, potrà aiutare l’umanità a onorare tutti i 17 obiettivi dell’Agenda 2030. Sta a noi. Federico Faggin conclude la sua autobiografia Silicio con una frase molto calzante di Albert Einstein che dice: I computer sono incredibilmente veloci, accurati e stupidi, gli esseri umani sono incredibilmente lenti, inaccurati e intelligenti. L’insieme dei due costituisce una forza incalcolabile. Occhio al futuro!

In onda 8 e 15-2-2020

Bambù – l’acciaio vegetale

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Con più di 1.642 specie e 10.000 utilizzi, il bambù si aggiudica straordinari primati. Rigenera terreni poveri, tollera grande freddo e caldo e l’ONU la considera una famiglia di piante strategica, riconoscendo che adempie a ben 6 dei 17 SDG: 1, 7, 11, 12, 13, 15. L’architetto Mauricio Cardenas ci racconta quali sono i benefici di costruire col bambù.

Cristina: Oggi incontriamo un architetto che ha progettato la più grande struttura nel nord della Cina in bambù, una pianta considerata strategica dall’ONU e che adempie a 6 dei 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, o SDG. Grazie alle lunghe radici, che pescano acqua in profondità, il bambù può essere piantato in terreni poveri, inadatti all’agricoltura, ed è capace di rigenerarli. La fitta e perenne superficie fogliare, fa sì che un bosco di bambù sequestri fino a 17 tonnellate di carbonio per ettaro all’anno. Tollera grande freddo e grande caldo, cresce velocemente e ogni parte della pianta, persino gli scarti, sono utili per qualche cosa. Pensate, con 1642 specie, ci sono più di 10,000 utilizzi riconosciuti – dall’architettura al cibo, il tessile e la cosmesi.  Le opportunità di lavoro sono particolarmente interessanti per le donne in agricoltura, perché il bambù è leggero. L’associazione mondiale INBAR stima che questa pianta dalle mille specie potrebbe diventare fonte di reddito per 50 milioni di persone nel mondo! Architetto, qual è la tua esperienza con l’acciaio vegetale?

Mauricio Cardenas: Sono cresciuta in Colombia, quindi sin da piccolo ho avuto modo di conoscere le virtù di questa pianta – giocavamo tra le canne di bambù, facevamo piccole costruzioni. Attraversavamo il fiume con un ponte, ricordo molto bene, sempre in bambù.. poi durante gli studi di architettura l’ho un po’ dimenticato, sarò sincero, fino alla tesi di laurea. L’ho ripreso e fino ad oggi lavoro grazie alle opportunità che ho in giro per il mondo facendo costruzioni in bambù.

Cristina: Com’è stata l’esperienza in Cina?

Mauricio Cardenas: Il padiglione INBAR è l’ultimo progetto che abbiamo realizzato è la struttura di bambù più grande del nord della Cina. È utilizzato molto poco il cemento, il minimo possibile. Coperture verdi, senza aria condizionata all’interno del padiglione si sta benissimo, perché abbiamo uno strato di terra umida per cui anche nelle temperature più alte di Pechino, che sono veramente estreme, si sta molto bene nel padiglione, non c’è stato nessun tipo di sconforto, anzi è stato molto apprezzato.

Cristina: E come siamo messi in Italia? Ci sono degli incentivi?

Mauricio Cardenas: Ci sono incentivi in Italia per l’agricoltura, per la costruzione ancora no. Possiamo immaginare in modo molto poetico, immaginare il bambù, portare dalla foresta al cantiere. Tenendo conto che il bambù cresce molto rapidamente, in soli tre anni è maturo e pronto per essere utilizzato in costruzione. Mentre il legno ha bisogno di 15-20 anche più anni per essere maturo e utilizzato per la costruzione.

Cristina: Una casa che torna alla terra, che bella idea. Occhio al futuro!

In onda il 25-2-2020

Econyl, il filato di nylon rigenerato

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L’industria tessile nel suo insieme è tra i più grandi inquinatori. Però, c’è chi sta invertendo questo impatto da negativo a positivo: Aquafil, con il suo filato Econyl, produce fibre da rifiuti scarti e nuovi materiali attraverso azioni concrete di rispetto per l’economia la società e l’ambiente, lungo tutta la filiera.

Cristina: Sappiamo che l’industria tessile nel suo insieme è tra i più grandi inquinatori. Però, c’è chi sta invertendo l’impatto da negativo a positivo producendo fibre tessili da scarti, rifiuti e nuovi materiali. In quest’azienda le fabbriche sono alimentate al 100% da energie rinnovabili, si usa acqua a ciclo chiuso in ogni fase di lavorazione. Sono stati avviati protocolli ambientali lungo tutta la filiera, e attivati progetti educativi in azienda per i dipendenti e nelle scuole. Si fa ricerca su nuovi materiali da biomassa, ogni anno si riducono le emissioni di gas serra, si promuovono programmi per la tutela dei mari e per tutti i prodotti si fa l’analisi del ciclo di vita. Queste azioni, nel loro insieme, adempiono alle indicazioni di ben 8 dei 17 SDG – gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’ONU! Per ogni 10.000 tonnellate di materia prima da processo di riciclo si risparmiano 70.000 barili di petrolio e l’equivalente di 57.100 tonnellate di CO2.
Oggi vi mostriamo come vengono trasformate le reti da pesca, insieme ad altri rifiuti di nylon. Nel 2018 sono stati recuperati 78 tonnellate da ONG che operano in tutta Europa. Una volta pulite, le reti vengono trasformate chimicamente, poi il liquido diventa polimero, e il polimero si trasforma in filo. Il risultato è che sempre più filati derivano da un processo di rigenerazione. Per diventare tappeti, occhiali, borse, abiti, costumi da bagno.
Dottor Bonazzi, si può immaginare di rispondere alla richiesta di mercato di nylon solo con materiali di recupero e di riciclo?

Giulio Bonazzi: No, purtroppo no, neanche si potesse recuperare tutto il nylon, non sarebbe mai sufficiente per garantire le necessità future. Oltre a ciò è importante capire che riciclare ha un suo impatto ambientale, noi cerchiamo di farlo al meglio, ma è importante capire come si ricicla e come ridurre al massimo l’impatto durante il ciclo.

Cristina: Che cosa significa per lei innovare? Come cittadino e come imprenditore?

Giulio Bonazzi: Innovare per me significa smettere qualcosa di vecchio per fare qualcosa di nuovo. Ad esempio bisogna ricordarsi che prima di riciclare bisogna ridurre le materie prime, riusare e poi riciclare.

Cristina: Avete già pronta una nuova famiglia di materiali?

Giulio Bonazzi: Si l’abbiamo, vogliamo produrre il nylon da fonti rinnovabili ossia da biomasse, anzi abbiamo già prodotto i primi chili.

Cristina: Che differenza c’è tra il filo derivato dal petrolio, da riciclo e da biomassa?

Giulio Bonazzi: Nessuna, i tre prodotti sono perfettamente identici ma fa una grande differenza per l’ambiente. È un bell’esempio di economia circolare.

Cristina: Grazie Dottor Bonazzi. Occhio al futuro!

In onda il 18-1-2020

Grey Panthers, il portale della “grey age”

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In un mondo sempre più digitalizzato, cittadini di tutte le età sono chiamati a risolvere burocrazie online, c’è chi ha pensato alle fasce d’età nate nell’era analogica. Grey Panthers è un’iniziativa fenomenale, che mette i giovani al servizio delle generazioni più avanzate.

Cristina: In un mondo sempre più digitalizzato dove persone di tutte le età sono chiamate a risolvere questioni burocratiche online, c’è chi ha pensato alla fascia di età più avanzata, nata nell’era analogica. Non è facile per chi è anziano adattarsi al progresso. Qui a Milano è nata un’iniziativa fenomenale che mette i giovani al servizio delle generazioni più avanzate. Dottoressa Paesano, ci racconti di Grey Panthers.

Vitalba Paesano: Grey Panthers, intanto, è un giornale che si rivolge ai senior. Siamo il portale della “grey age”, abbiamo un pubblico che grazie solo al passaparola sta raggiungendo una massa critica interessante perché possiamo, con orgoglio, dire che siamo 84,000.

Cristina: E mette insieme nonni e nipoti o i figli e genitori, attorno ad un processo educativo necessario. Probabilmente funziona da tutte e due le parti.

Vitalba Paesano: Abbiamo accolto molto volentieri un progetto, oramai quattro anni fa, di Assolombarda che permetteva di fare l’alternanza scuola lavoro per i giovani. Noi l’abbiamo fatto con gli studenti dell’Istituto Molinari e si sono trasformati loro stessi in professori e sui banchi di scuola sono andati i senior e a fare i professori erano i ragazzi.

Cristina: Christian, che cosa ti da quest’esperienza di insegnante?

Christian Garcia: Posso sentirmi utile alle persone che hanno necessità.

Cristina: Se tu dici agli amici “vado a lavorare da Grey Panthers”, ti guardano un po’ strano oppure..

Christian: Chi conosce il progetto mi ringrazia anche perché può darsi che quella persona che aiuto sia suo nonno.

Laura Bolgeri: L’aiuto che mi da Christian, ad esempio gli chiedo come navigare per fare delle ricerche oppure come contattare una persona, è essenziale.

Diana Banfi: L’anno scorso, mi sono messa alla pari con mio nipote di 12 anni, l’ho aiutato in tutte le ricerche per le tesine dei suoi esami di terza media. Mi ha portato in regalo una pianta di rosmarino dicendo che “è merito anche tuo se ho preso questo voto”

Vitalba Paesano:  Però non ci bastava, perché una volta finiti i corsi avevamo anche il sospetto che qualche senior si dimenticasse quello che aveva imparato. Quindi, da due anni, abbiamo aperto uno sportello digitale, che è aperto 24 ore, quindi sempre. In questo sportello digitale, i nostri lettori possono formulare domande sui loro dubbi, le loro incertezze, su quello che pensavano di sapere e hanno scoperto che non se lo ricordano e cosa via e ricevono entro 24 ore una risposta.

Cristina: In futuro che cosa vuole fare? Quali sono i suoi prossimi passi?

Vitalba Paesano: Pensiamo, ad esempio, alle domande che il pubblico dei senior si pone nei confronti della digitalizzazione di questo paese, quindi i rapporti con la pubblica amministrazione, i rapporti con la sanità digitale. Quindi la qualità di vita dei senior passerà sempre di più attraverso il digitale, questo lo  diciamo da 10 anni. Oggi incominciano a capirli tutto, i senior ce lo chiedono e quindi vogliamo continuare in questa operazione di digitalizzazione del nostro paese.

Cristina: Complimenti e buona fortuna! Il 35% della popolazione italiana ha più di 65 anni. 5 punti al di sopra della media europea. Gli anziani sono una risorsa da valorizzare. Occhio al futuro!

In onda 8-6-2019

Italia Che Cambia

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Daniel Tarozzi, fondatore di Italia Che Cambia e fellow della rete Ashoka, ha raccontato il viaggio in camper che lo ha portato a conoscere, e mappare, gli agenti di cambiamento dal sud al nord dell’Italia.

Cristina: Mentre l’Italia fatica a fare sistema, per fortuna ci sono giovani che s’impegnano a contrastare questo problema. Daniel si muove su e giù per il nostro paese in camper, per cercare talenti da valorizzare e mapparli. Daniel, com’è nato questo tuo mestiere?

Daniel Tarozzi: Guarda tutto è nato da un viaggio lungo quasi un anno alla ricerca di persona che si assumevano la responsabilità della propria vita senza aspettare che qualcuno lo faccia al loro posto. Nel 2012 sono partito in questo camper, con l’idea di andare in giro per l’Italia, pensando di stare in giro per poche settimane. In realtà ho scoperto centinaia, migliaia di esperienze concrete di cambiamento in tutte le regioni italiane. Quello che doveva essere un viaggio finalizzato a scrivere un libro è diventato un progetto di racconto di questa Italia Che Cambia che va avanti da oltre 7 anni. Pensa che solo nel mio primo viaggio ne incontrai oltre 450, sulla nostra mappa ci sono 2.000 progetti mappati ma sono molte, molte di più quelle che costellano il nostro paese.

Cristina: Che metodologia seguite?

Daniel Tarozzi: Ci arrivano segnalazioni, il passaparola che è straordinario, ogni persona che incontro mi segnala altri 5-10 progetti, ovviamente il web siamo prevalentemente sul digitale, abbiamo i nostri canali social e il nostro sito. Da questa esperienza sono concrete, non sono solo astratte, progetti che funzionano e che negli anni migliorano.

Cristina: Che visione avete dell’Italia nel 2040?

Daniel Tarozzi: Abbiamo raccolto oltre 500 azioni che possiamo realizzare tutti, a partire da oggi, per cambiare l’ambiente, per cambiare l’economia, per creare lavoro, senza aspettare nessun governo, azioni che possiamo fare adesso.

Cristina: In che modo si creano collaborazioni tra le realtà che mappate?

Daniel Tarozzi: Il nostro lavoro è un lavoro sull’immaginario, la prima cosa che cerchiamo di fare è di proporre esempi positivi ispirandoci un po’ allo slogan “vietato non copiare”. La prima connessione che siamo riusciti a creare è quella tra la domanda di cambiamento e l’offerta di cambiamento, ovvero sono un cittadino, un professionista, una persona insoddisfatta, voglio andare a vivere fuori città, creare lavoro, voglio fare qualcosa nella mia vita. Vado a trovare chi lo ha già fatto e poi cerco person con cui farlo anch’io, per cui si ci sono tanti borghi abbandonati che si stanno ripopolando. Ci sono tantissimi altri che stanno creando progetti agricoli, ma anche imprenditoriali, digitali, fab lab. Quindi natura, città, davvero un’Italia in fermento e straordinaria in tutti i campi.

Cristina: C’è una Regione che meglio di altre fa sistema?

Daniel Tarozzi: Per fare qualche esempio concreto da nord a sud mi vengono in mente ad esempio, circuiti di monete complementari in Sardegna che stanno mettendo l’economia in circolo davvero facendo girare milioni di euro di economia che non avrebbe girato senza questo strumento. Oppure ancora dei piccoli produttori che in Sicilia si sono messi a cooperare con i cosiddetti competitor, cooperando insieme vendendo ai gruppo di acquisto del centro-nord hanno visto tutti aumentare i fatturati. La cooperazione che vince contro la competizione. E ancora, tantissimi giovani, c’è questa tema dell’agricoltura. L’agricoltura, quella che davvero valorizza i nostri prodotti. è in una crescita incredibile, quindi quando si parla di crisi bisogna stare attenti. C’è la crisi di un mondo, di un settore. Io racconto l’Italia dal 2012 e in questi anni di crisi piena c’è tutta un’Italia, che senza mai negare le difficoltà perché saremmo utopici, che sta realizzando progetti che funzionano anche a livello economico.

Cristina: Sembrerà tanto banale ma viviamo in un paese meraviglioso, facciamolo funzionare meglio. Occhio al futuro

In onda 11-5-2019

L’impronta idrica del cibo

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Avete mai pensato alla quantità di acqua che consumate in un giorno? Non solo l’acqua che bevete o che utilizzate in casa. Anche il cibo che mangiamo ha un’impronta idrica, si chiama acqua virtuale e spesso rappresenta più della metà del nostro consumo idrico giornaliero.
Durante l’esposizione di Broken Nature a La Triennale di Milano, ci sarà un Wonderwater Café con un menù interamente tradotto in termini di impronta idrica per ogni piatto!

Cristina: Molti di noi sono bravi a non sprecare acqua in casa, ma raramente sappiamo quanta ne consumiamo in maniera indiretta, ad esempio l’acqua che serve per produrre il nostro cibo. Wonderwater Café è un progetto itinerante che giunge al ristorante della Triennale di Milano durante l’esposizione di Broken Nature. Frutto di una collaborazione tra scienziati e designer, si traduce in un menù che illustra l’impronta idrica di ogni piatto.

Jane Withers: Non abbiamo idea delle quantità di acqua che servono per produrre il cibo. Noi mostriamo le differenze tra: fagioli coltivati in Kenya, dove irrigare le piante può voler dire sottrarre risorse idriche dalle comunità locali, e verdure stagionali e locali, irrigate con acqua piovana. Capiamo il valore dell’acqua quando, ad esempio, durante la siccità in California due anni fa, i prezzi delle mandorle sono andati alle stelle. Noi mostriamo questi sistemi idrici invisibili.

Cristina: Lei trova che i fatti scientifici debbano essere adattati per raggiungere un grande pubblico?

Jane Withers: Si, penso di sì. Noi traduciamo i dati in un linguaggio che le persone possano capire. Penso che trovare sul tavolo, al ristorante, mentre stai scegliendo cosa fare, un menu che indichi l’impronta idrica di ogni piatto, faccia la differenza. Quanto influisce sulla scelta? Se leggendo vedo che per fare la pizza marinara ha consumato 290 litri e quella con la salsiccia piccante 960 litri? Sono numeri impressionanti.

Cristina: Il primo WonderWater cafè risale al 2011. In pochi anni, insieme al progetto è cresciuta la consapevolezza del problema.

Jane Withers: I nostri partner accademici del King’s College di Londra, hanno lavorato per capire ogni ingrediente: da dove è venuto, dov’è stato acquistato e così via. Adesso sembra esserci più trasparenza, ma penso che sia interessante quanto nel 2011, sembrava tutto molto astratto, mentre ora c’è un crescente senso di urgenza. Ci stiamo rendendo conto che una delle cose più importanti che possiamo fare è di passare da una dieta carnivora ad una vegetariana o “flexitariana” – più consapevole. Le differenze sono importanti:  più di 5000 litri al giorno per una dieta a base di carne contro 2600 litri. Sono differenze palpabili. C’è crescente interesse e consapevolezza.

Cristina: Le informazioni ci sono, la gente ha sempre più voglia di sapere cosa consuma e che impatto ha. Quindi se siete ristoratori se comunque portate, al mondo, cibo in un qualche modo, offrite questa opportunità di conoscenza perché è molto importante. Occhio al futuro!

In onda 4-5-2019

Stefano Mancuso e l’intelligenza diffusa delle piante

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Prof. Stefano Mancuso, autore e Direttore del LINV – International Laboratory of Plant Neurobiology, parla dell’intelligenza del regno vegetale – un modello a rete. Internet ne è un esempio!

Cristina: Sovente pensiamo che per il successo dobbiamo scalare una vetta, diventare il capo di qualche cosa per avere influenza, ma il mondo vegetale ci insegna ben altro. Ci insegna che l’intelligenza si può diffondere a macchia d’olio e perché? In che modo?

Stefano Mancuso: Tutto quello che hai detto è vero, perché noi ci ispiriamo al modello animale. È fatto con un cervello che governa degli organi, quando noi replichiamo questo modello nelle nostre organizzazioni, quindi c’è un capo e poi una gerarchia sotto, nasce una burocrazia che serve a trasportare gli ordini. Il modello vegetale, paradossalmente, è molto più moderno rispetto a quello animale perché è un modello a rete, diffuso. La pianta, in altre parole, distribuisce sull’intero corpo funzioni che gli animali concentrano negli organi. Immaginiamo un’organizzazione di questo tipo, queste organizzazioni molto moderne, internet stesso è fatta in questa maniera, non ha un comando centrale o le monete elettroniche di cui si parla tanto oggi. Il bitcoin e tutte queste cose sono organizzazioni decentralizzate e come tali funzionano benissimo.

Cristina: E quali saranno gli sviluppi strategici che potranno beneficiare di questo modello?

Stefano Mancuso: Potremmo costruire qualunque tipo di organizzazione ispirandoci al mondo vegetale. C’è una multinazionale americana che si chiama Morningstar che funziona a questa maniera, cioè non ha manager. È completamente distribuita e funziona benissimo. Il modo con cui abbiamo guardato alla società, nella nostra storia, non è l’unico. Il 99% della vita di questo pianeta utilizza un sistema diverso.

Cristina: Perché ha senso imitare delle creature viventi che apparentemente sono ferme?

Stefano Mancuso: Le piante vedono, le piante sentono, le piante dormono, le piante sono in grado di comunicare, di avere relazioni sociali.

Cristina: In che modo possiamo imitare il comportamento delle piante?

Stefano Mancuso: Le piante producono risorse, gli animali le consumano, quindi imitiamo le piante nel produrre e consumare la minor quantità di risorse possibili. Trasformiamo le nostre organizzazioni, non è scritto da nessuna parte che per forza debbano essere piramidali. Trasformiamole in distribuite e ne trarremmo dei vantaggi in pochissimo tempo.

Cristina: Sta a noi decidere se vogliamo comportarci come animali o come piante. Occhio al futuro

In onda 27-4-2019

Broken Nature – la Triennale di Paola Antonelli

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Paola Antonelli è la più grande fonte d’ispirazione per colmare il divario tra ciò che sappiamo e come viviamo. Broken Nature presenta una moltitudine di idee e soluzioni per diventare cittadini rigenerativi del nostro bel Pianeta. La speranza è che visitiate la Triennale tante volte, ma per chi non verrà a Milano entro l’1 settembre, brokennature.org è una fonte da consultare (anche per chi visiterà la mostra!). Grazie Paola per la tua visione e per la tenacia.

Cristina: Siamo alla Triennale di Milano, Broken Nature, un mostra internazionale e interdisciplinare che durerà fino al 1 di Settembre, che indaga il nostro rapporto con i sistemi naturali, la società umana, con il modo di vivere, produrre e consumare. É curata da una grande italiana, Paola Antonelli, che per l’occasione  è stata prestata dal MoMA di New York.  L’essenza di Broken Nature, cosa vuoi che gli spettatori si portino a casa?

Paola Antonelli: Vorrei che si portassero a casa il fatto che per essere responsabili, per vivere in modo sostenibile, per attivare questo atteggiamento ricostituente, non bisogna sacrificare l’estetica o il piacere, la sensualità o l’eleganza.

Cristina: Spesso gli individui si sentono troppo piccoli per poter avere un impatto. Tu come la vedi?

Paola: Non la vedo così, perché non possiamo contare soltanto sui governi, le istituzioni e arrenderci al nostro destino. Abbiamo un potere enorme che proviene anche dai social media, una persona poi diventa un gruppo, una tribù, una comunità e dopo di che se i governi vogliono avere qualsiasi efficacia devono seguire anche quello che vuole il pubblico.

Cristina: Qual’è il tempo ideale da trascorrere in questa mostra per tornare a casa veramente più nutriti?

Paola: Direi che almeno tre quarti d’ora, un’ora ce li devi mettere. Spero che tanti bambini vengano e che siano ispirati perché alla fin fine il design tra una quarantina di anni andrà come la fisica, ci sarà il design teorico e quello applicato e si trasmetteranno conoscenze a vicenda.

Cristina: E l’aspetto sociale come lo hai declinato?

Paola: Per esempio […] pensò a questo recupero di mais di speci che erano andate perdute e poi usare le barbe e la parte esterna della pannocchia per fare un’intarsio. Anche semplicemente quest’attività che il design può fare per recuperare cultura materiale che si è persa, c’è un grandissimo esempio anche di come si può utilizzare la comunità.

Cristina: Come definisci il designer del XXI secolo?

Paola: Tantissime possibilità di espressione. Per cominciare ci sono i mobili, ovviamente ci sono le auto, ci sono anche i materiali. Ci sono dei designer che progettano scenari o cercano di mostrarci quali potrebbero essere le conseguenze future delle nostre scelte di oggi. Ci sono designer di interfacce che sono per esempio lo schermo e l’interazione del bancomat. Ci sono designer che fanno bio-design, quindi si occupano anche di organismi viventi o progettano con organismi viventi. Neri Oxman e Mediated Matter Group stanno ispirando una generazione di designer che imparano a lavorare con la natura per fare oggetti ed edifici che crescono invece di essere disegnati dall’esterno. Skylar sta lavorando il governo delle Maldive per fermare l’erosione delle spiagge. Stanno tutti lavorando e avendo un grande impatto. Sono molto fiera di tutti.

Cristina: Grazie Paola. Non perdete Broken Nature.

In onda 6-4-2019

Formafantasma indaga il riciclo dei rifiuti elettronici

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Gli elementi preziosi nell’elettronica hanno tre problematiche: il danno all’ambiente nell’estrazione; la breve durata di vita dei dispositivi stessi; alla fine del loro ciclo di vita, non vengono adeguatamente riciclati. Si stima che entro il 2080, le più grandi riserve minerarie non saranno più sottoterra, ma in superficie, come lingotti o come parti di materiali da costruzione, elettrodomestici, mobili e device.
Simone Farresin e Andrea Trimarchi di Studio Formafantasma hanno condotto un’indagine ambiziosa sul riciclaggio di rifiuti elettronici con il loro progetto Ore Streams – in esposizione durante Broken Nature alla Triennale di Milano

Cristina: Questo cassetto è fatto con il case di un vecchio computer. Pensate, i rifiuti elettrici ed elettronici sono quelli che crescono più in fretta, solo il 30% però viene riciclato. Intervenire sul restante 70% è molto complesso perché complessi sono gli oggetti di cui parliamo e complicate sono le filiere.

Simone Farresin: La smontabilità degli oggetti è fondamentale, pertanto per esempio istituire un sistema di viti universale sarebbe utilissimo. Per esempio il nero dei cavi elettrici è molto difficile da riconoscere per i sistemi che vengono utilizzati per separare, i lettori ottici. Cambiare semplicemente il colore dal nero ad un colore aiuterebbe il riconoscimento dei cavi elettrici e il recupero del rame. Per di più sarebbe fondamentale istituire un sistema di etichettatura che dica all’utente, nel momento in cui compra un oggetto elettronico, quanto durerà nel tempo. Ovviamente questi oggetti vengono riciclati ma in modo un po’ più sofisticato nei nostri paesi, invece nei paesi in via di sviluppo che hanno bisogno di un codice colore che li aiuti a comprendere in modo intuitivo quali sono i componenti pericolosi per essere smontati a mano, in modo tale che il riciclo venga fatto nel modo opportuno.

Cristina: Voi avete incontrato per il vostro progetto attori lungo tutto la filiera, dove avete incontrato la maggiore resistenza?

Andrea Trimarchi: Devo dire che una delle cose più complesse in realtà è stata entrare in contatto con i produttori di elettronici. Abbiamo parlato con università, con produttori, aziende di riciclo, abbiamo parlato anche con persone che si occupano di leggi. Diciamo che quelle sono state più disponibili poi ad accoglierci, la cosa più difficile appunto è stata parlare con i produttori.

Cristina: Perché non sono disposti ad essere parte della soluzione?

Simone Farresin: Probabilmente perché è molto complesso in questo momento investire risorse economiche per cambiare veramente le cose invece di semplicemente fare dei piccoli passi avanti che vengono usati simbolicamente come sistema pubblicitario invece che di reale interesse per il riciclo di questi prodotti.

Cristina: Voi avete una soluzione a tutte, qual è?

Andrea Trimarchi: Una delle più probabili soluzioni potrebbe essere di organizzare tavoli dove i vari attori del sistema produttivi, dai produttori di elettronica ai riciclatori e ovviamente anche designer, possano incontrarsi su queste tematiche.

Cristina: Sembra assurdo, questo non avviene già?

Andrea Trimarchi: Purtroppo no, anche in ambito legislativo spesso vengono messi insieme i riciclatori e anche i produttori, ma la maggior parte delle volte, noi designer che siamo quelli che trasformano le materie prime in oggetti, non facciamo parte di queste riunioni.

Cristina: Il design può e, in questo caso, ha un ruolo politico, lasciamoci ispirare.

In onda 30-3-2019

Fanghi da depurazione diventano risorsa con Bioforcetech

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Il fango da depurazione è quella frazione di materia solida contenuta nelle acque reflue urbane ed extraurbane, che viene rimossa negli impianti di depurazione durante i vari trattamenti depurativi necessari a rendere le acque chiarificate compatibili con la loro reimmissione in natura senza creare alterazioni all’ecosistema. Complessivamente, in Italia vengono prodotte circa 3.000.000 di ton/anno di fanghi da depurazione. Più o meno inquinati. Eliminarli correttamente costa una media di 150€/ton, totale sono 450.000.000 €/anno. Con il sistema di Bioforcetech, che diminuisce notevolmente il rifiuto e lo trasforma in Biochar, si può arrivare ad un risparmio del 90% . Perché riducendo il volume del 90% si riducono altrettanto tutti i costi i consumi energetici e di trasporto.

Cristina: Il problema che trattiamo oggi nasce dalle nostre fogne, riguarda la salute di tutti noi. La soluzione nasce da un gruppo di giovani italiani che hanno progettato un macchinario capace di trasformare rifiuti in risorsa.
Gli scarichi urbani, industriali e agricoli vengono raccolti in impianti che separano la parte liquida da quella solida, per poi essere trattati. La legge consente di riutilizzarne una parte in agricoltura. Nel 2017, 60 comuni lombardi si sono uniti per contestare l’uso dei fanghi da depurazione nei terreni dove cresce il cibo che mangiamo, hanno fatto ricorso al TAR e hanno vinto. La loro preoccupazione era di non poter tutelare la salute dei cittadini. La questione è divampata, generando interventi e analisi in diverse regioni italiane. Sono stati trovati elementi inquinanti elevati come idrocarburi, PFAS e altre sostanze nocive. Mangiamo cibo inquinato più di quanto pensiamo.
In seguito alla decisione dal TAR sono stati abbassati del 90% gli inquinanti ammessi nei fanghi da depurazione usati in agricoltura. Ma gli impianti non sono stati in grado di adeguarsi alle nuove norme e il sistema è entrato in crisi. Data l’emergenza, nel Decreto Genova, quello del ponte, si è inserito un aggiornamento che porta la soglia al 50% di quella iniziale. Fifty Fifty, come si suol dire! Con il rischio di continuare a mangiare cibo inquinato.
Le soluzioni ci sono, e questa che vedete è capace di depurare i fanghi direttamente dove vengono raccolti, trasformandoli in risorse pulite e nutrienti, riducendone peso e volume del 90%, usando pochissima energia esterna e producendo energia rinnovabile. Si tratta di un essiccatore biotecnologico che non usa combustione diretta, dove nella prima parte il calore emesso dalle sostanze organiche viene recuperato e diventa energia per essiccare i fanghi. Successivamente attraverso un procedimento in assenza di ossigeno i fanghi vengono portati a temperature che vanno dai 350C° ai 700C° – secondo la qualità della materia di partenza. Il prodotto che esce da questo macchinario si chiama biochar ed è altamente fertilizzante. I vostri macchinari dove li avete installati?

Matteo Longo: Abbiamo installato le nostre prime macchine negli USA, il più importante si trova a San Francisco dove trattiamo 7000 tonnellate all’anno di fanghi di depurazione. Noi le macchine le produciamo in Italia, proprio perché vogliamo lavorare con le piccole-medie imprese italiane a costruire le nostre macchine.

Cristina: Oltre ai vantaggi ecologici che abbiamo visto, quelli economici quali sono?

Matteo Longo: Quelli economici sono molto interessanti. Complessivamente, in Italia vengono prodotte circa 3.000.000 di ton/anno di fanghi di depurazione. E hanno un costo di smaltimento di circa 150€/ton (totale 450.000.000 €/anno). Con i nostri processi andremmo ad abbattere del 90% il costo proprio grazie alla diminuzione del rifiuto, che poi possiamo anche riutilizzare come ammendante per il terreno nel caso del biochar.

Cristina: Il biochar serve come materiale filtrante per bonificare acque inquinate e fumi nocivi. Può diventare un biomateriale per il design e l’architettura, filamento per le stampanti 3D e chissà …. Conviene a tutti fare i conti con la realtà. E promuovere l’economia circolare. Non solo a parole ma coi fatti.