Skip to main content
Category

features

Design ricostituente e piante

By ecology, features

Al primo Forum Mondiale sulle Foreste Urbane,

che si è tenuto a Mantova dal 28 novembre al 1 dicembre, ho avuto il piacere di moderare 2 persone che mi nutrono molto con la loro conoscenza. Paola Antonelli ha presentato Broken Nature: Takes on Human Survival, per la XXII Triennale di Milano, che dall’1 marzo 2019, animerà il capoluogo lombardo per 6 mesi. La mostra aprirà con la stanza del cambiamento, tema che ricorre in tutti i lavori della curatrice milanese, e finirà con la stanza dell’empatia e dell’amore. L’intento è di stimolare riflessioni e azioni di riparazione per stabilire un nuovo equilibrio con la natura.

Stefano Mancuso sarà il curatore della Nazione delle Piante, considerata alla stessa stregua delle altre Nazioni. Come ricorda lo scienziato, è di gran lunga la più abitata. Il 99,6% di ciò che è vivo appartiene al mondo vegetale, capace di fare la fotosintesi. Entrambi i relatori sono d’accordo che siamo avviati verso la sesta estinzione. Il ruolo del design, per Antonelli, è di aiutarci a estinguersi dignitosamente, con stile. Mancuso sorride, definendolo un approccio “dandy”. E incalza dicendo che estinguendoci dimostreremo che il nostro cervello, centrale di comando con poteri su tutto il nostro essere, non è un vantaggio dal punto di vista evolutivo. Per contro, le piante, che hanno un’intelligenza diffusa, sono molto più resilienti e adattabili.

Alla domanda: dove trovate gli stimoli più interessanti, Antonelli ha risposto: nei bambini, perché sono schietti e aperti. Mancuso, invece, ha risposto: in Giappone, perché c’è più rispetto per la natura.

Si è parlato di una necessaria integrazione tra il sapere e il sentire, ma per uomini di scienza è un terreno ancora “sospetto” e poco praticato. Mai come oggi è importante l’interdisciplinarietà.

Intervista a Giacomo Rizzolatti

By features

Giacomo Rizzolatti è una star della scienza.

La sua scoperta dei neuroni specchio, che ha posto le basi fisiologiche dell’empatia, appassiona da anni ricercatori e professionisti di ogni campo, psicologi e sociologi, manager ed economisti.

Il primo maggio a Copenaghen la principessa Mary di Danimarca gli consegnerà il Brain Prize, un premio nato solo nel 2011 ma già molto autorevole. Quest’anno è stato assegnato a scienziati che si sono distinti nella ricerca sui meccanismi superiori del cervello, responsabili di funzioni complesse quali le capacità linguistiche, cognitive e di calcolo e per l’impegno nello studio dei disturbi cognitivi e comportamentali.

Insieme a Rizzolatti saranno premiati il francese Stanislas Dehaene, inventore tra l’altro di un software per il trattamento dei bambini con difficoltà di apprendimento della matematica, e l’inglese Trevor Robbins, che ha dimostrato l’esistenza di circuiti del cervello che possono causare la dipendenza da farmaci e la sindrome di deficit di attenzione.

L’intervista, estratta dal libro A Passo Leggero.

CRISTINA: Professore, cosa significa per lei questo premio?

RIZZOLATTI: Sono contento sia per me sia per la scienza italiana, che nonostante tutte le difficoltà rimane di alto valore. Devo anche dire che i danesi sono stati bravissimi nel creare in poco tempo una grande risonanza al premio. Inoltre, personalmente mi ha fatto molto piacere riceverlo da un Comitato di cui presidente è Colin Blakemore, professore a Oxford per molti anni e con il quale siamo stati un po’ competitori nel passato. Bello, no? aver valutato e superato questa piccola rivalità nel nome di valori più alti. E poi la cifra è ingente.

C: Un milione di euro è un premio anche più ricco del Nobel, che ultimamente è stato ridotto.

R: Il Brain Prize è stato istituito da una ditta farmaceutica, la Lundbeck, con molti mezzi a disposizione.

C: Che ditta è questa Lundbeck?

R: E’ una ditta farmaceutica specializzata in farmaci che curano malattie del sistema nervoso. Sono specializzati in psicofarmaci di vario tipo: per l’epilessia, per la depressione, eccetera, anche per questo si interessano di neuroscienze .La proprietaria, Grete Lundbeck, qualche anno fa ha avuto l’idea molto intelligente di trasformarla in una fondazione. Parte del capitale è in borsa, e parte dipende dalla fondazione. Proprio ieri guardando su internet ho visto che l’azienda è in crescita, ci lavorano più di 6000 persone, hanno appena aperto una fabbrica in Cina.

C: Come pensa di destinare la somma?

R: Sarebbero tutti soldi miei, però non mi sembra molto giusto mettermeli in tasca. Pensavo di destinarne una parte a un fondo per la ricerca per il Dipartimento di neuroscienze. La burocrazia è diventata talmente insopportabile che l’unica soluzione per lavorare bene è avere fondi al di fuori della amministrazione universitaria.

C: Pensi che nel nostro dipartimento c’e un canadese che voleva giorni fa comperare un pezzo di plastica, gli occorreva per un esperimento. Costo, circa trenta euro. Ci hanno detto che dovevamo seguire una trafila stabilita da una “spending review”. Attesa: un paio di settimane. O paghiamo sempre di tasca nostra o smettiamo di lavorare; mica si può aspettare una vita per trenta euro!

R: Non le dico poi se uno ha bisogno di una prestazione professionale! Deve chiedere il permesso al rettore, che deve fare un annuncio a tutta l’università per vedere se qualcuno si presta gratuitamente a fare il lavoro, dopodiché, ovviamente nessuno si presta, si istituisce il concorso, poi si aspettano 20 giorni perché il bando diventi pubblico, poi si fa il concorso che, concluso, va a finire alla Corte dei conti per l’approvazione. Ovviamente questa né approva né boccia, tutto funziona col silenzio-assenso. Insomma, se voglio un’analisi statistica devo aspettare circa tre mesi, mentre in Germania ce l’hai in un giorno. Spero che nel futuro tutti i fondi europei verranno amministrati senza questo terribile fardello burocratico. Ci trattano esattamente come il catasto o il ministero dei Trasporti, dove forse è anche logico che, se devi comprare qualcosa, passi per enti che ti obbligano a contenere i prezzi, ma per un pezzettino di plastica…

C: Per le spese ordinarie ci dovrebbe essere un responsabile di dipartimento che verifica che non si sperperi.

R: Certo, ma l’Amministrazione Universitaria non si fida. È tutto basato sulla diffidenza, mentre nei paesi anglosassoni ci si basa sulla fiducia – chiaro che se fai qualche cosa di male poi sei finito .Negli ultimi anni tra la spending review e la legge Gelmini è praticamente diventato impossibile lavorare. Comunque una parte, non so se metà o un terzo, la metterò in un fondo che servirà anche per queste piccole cose.

C: Come lo chiamerà? The Giacomo Rizzolatti Foundation?

R: (ride) Oddio, detto così suona un po’ “grand”, diciamo Foundation for Parma Neurosciences. Naturalmente si occuperà di neuroscienze cognitive, il mio ramo, che avendo meno ricadute mediche ha più difficoltà ad accedere a fondi privati per la ricerca, rispetto a quello cellulare o molecolare, più vicino all’industria. Il Brain Prize di quest’anno è stato assegnato alle neuroscienze cognitive, un campo che è abbastanza trascurato dal Premio Nobel. Non per cattiveria o per partigianeria, beninteso, ma perché l’Accademia svedese è formata prevalentemente da esperti in fisiologia cellulare, immunologi, eccetera, che quindi capiscono meglio l’importanza di una ricerca nel loro campo più che nelle neuroscienze cognitive.

C: Quale dei vari progetti in corso nel suo dipartimento la entusiasmano di più?

R: Come possibilità futura mi interessa la ricerca che facciamo con l’ospedale Niguarda a Milano: registrare l’attività di singoli neuroni nell’uomo . È una tecnica di avanguardia che stiamo mettendo a punto. Il Centro per l’Epilessia del Niguarda è uno dei migliori e più operativi in Europa. Praticamente studiano un malato a settimana: impiantano degli elettrodi nella testa del malato, dopodiché non possono operare subito, devono passare quattro o cinque giorni per studiare il cervello e capire dov’è il focolaio epilettico. Durante questo periodo il malato rimane a letto, è cosciente, si annoia pure, quindi è dispostissimo a collaborare con uno sperimentatore per altri test, e siccome gli elettrodi sono già collocati, noi possiamo capire quali aree si attivano, direttamente e non indirettamente come si fa con la risonanza magnetica. Poi ci sono le ricerche presso il nostro istituto sull’autismo. Sono meravigliato dalla gratitudine che trovo tra i genitori quando gli racconto che i loro figli non hanno un disturbo psichiatrico, ma un difetto di sviluppo neurologico che un giorno riusciremo a mettere a posto. Sono stato recentemente in Cile, dove ho fatto più fotografie dopo una conferenza sull’autismo assieme a genitori di bambini autistici che nel resto della mia vita. Mi sembrava di essere una pop-star.

C: Mi sembra di capire che il premio la impegnerà un po’…

R: Effettivamente sarà così. In questi giorni ci sarà un convegno scientifico a Copenhagen, poi la cerimonia con la principessa e infine un evento all’ambasciata italiana. Poi il lavoro continua. La Fondazione sta creando un’accademia dei premiati affiancati ad alcuni scienziati danesi, quindi è un istituto che crescerà nel tempo. Mi hanno già chiesto di tornare a ottobre con altri scienziati che inviteranno per formare il nucleo dell’Academy.

 

C: Uno dei motivi ispiratori del Brain Prize è di stimolare la ricerca in Danimarca.

R: Forse vogliono migliorare certi campi come le Neuroscienze, ma capisce, la Danimarca non è la Grecia o il Portogallo, stanzia già molto per la ricerca e per l’educazione.

C: Dal nord Europa che cosa importerebbe per la sua Facoltà di Parma?

R: Ah, me ne vengono in mente tante, ma quello che importerei è la fiducia. Mentre mi trovavo in un’università americana, ho ricevuto una parcella in cui mi addebitavano varie chiamate in Florida. Ho telefonato per dire che non avevo mai chiamato la Florida – e loro mi hanno risposto: le crediamo! e non mi hanno fatto pagare niente. Probabilmente, se fosse successo di nuovo, mi avrebbero tolto il telefono o fatto controlli più approfonditi. Da noi nessuno si fida della parola di un utente. Sì, se fosse possibile importare la fiducia, sarebbe bellissimo. Ce n’è molto bisogno in Italia.

C: Si dovrebbe inocularla nel cervello…

R: Giusto! Inoculare che non siamo delinquenti nati, siamo brave persone se ci lasciano lavorare in pace. Altrimenti siamo costretti a inventare ogni tipo di gabole per superare gli ostacoli burocratici.

C: A proposito di migliorie al sistema, lei nel 2008, in occasione delle riforma Gelmini, avanzò una proposta importante sul sistema universitario e sulla ricerca…

R: Suggerivo di abolire le cattedre universitarie a vita, instaurando un sistema per cui ogni cinque anni c’è una commissione che ti esamina. Quindi puoi restare anche fino a 90 anni, se sei capace, ma se non sei capace vai a casa anche a cinquanta. Tengo molto a rilanciare questa proposta. Quando la avanzai sei anni fa, ricevetti molte lettere da giovani che dicevano: lei è un bell’egoista, ha avuto il posto a vita e adesso che è diventato anziano ci vuole controllare. Io invece speravo che i giovani fossero contenti perché se tu mandi via tutta una serie di 50-60enni che non fanno niente, hai più posti per i giovani. Invece i giovani dicono: ma dopo toccherà a me essere mandato via, se non sono bravo. Il merito è un concetto che per l’università è fondamentale, forse per il catasto no; non credo ci sia una grande differenza tra un impiegato e l’altro, ma tra un professore universitario e un altro, sì. È il sistema adottato al RIKEN, un centro di ricerca giapponese parallelo all’università, simile al nostro CNR, di altissimo livello. Al RIKEN, dove lavorano anche molti stranieri, non fanno complimenti, ti convocano e ti dicono: guardi, la sua produzione scientifica purtroppo non è considerata buona, le diamo due anni di tempo per trovarsi un altro posto. Non è che ti dicono che domani sarai a piedi, ti danno tempo. Anche nell’industria fanno così, no?

C: Dei veri samurai! Tornando al premio, non vorrei essere troppo indiscreta, ma la parte che terrà per sé come la spenderà?

R: Pensavo di destinare qualcosa ai miei figli, anche se sono già abbastanza sistemati non gli dispiacerà avere dei fondi, magari per realizzare un sogno, quindi un regalo lo farò anche a loro. E il resto starà lì, per ogni evenienza.

C: E un regalo a se stesso non lo fa?

R: Pensavo di invitare a cena i miei collaboratori, fare una festa, ma a me non serve niente. Mi hanno detto: perché non ti compri una nuova macchina? Ma ce l’ho già, anche abbastanza nuova. Sono contento di quello che ho.

C: Che macchina ha?

R: Una BMW, quindi non proprio una piccolina.

C: E i suoi nipoti come hanno reagito all’assegnazione di questo premio?

R: Di solito non si emozionano troppo, ma stavolta sono stati contenti. Di regola i premiati possono portare solo il compagno o la compagna, invece stavolta la Fondazione ha invitato anche i parenti, allora porto anche i miei nipotini.

Natura ispira, genio crea

By features

Nell’ottobre del 2002, in una piccola stanza bianca alla periferia di Milano, ebbi il piacere di intervistare l’uomo che crea i più bei gioielli al mondo. Nello spazio più scarno che si possa immaginare, noi 2 e sul tavolo bianco il più grande libro mai visto – la raccolta dei suoi lavori. Un’esplosione di meraviglia – puro talento, stupefacente bellezza, anticipazione di quanto , settimane dopo, sarebbe stato esposto alla Somerset House di Londra.
Protagonisti di quell’incontro non furono i gioielli ma lui, l’artista, soprattutto l’uomo. Un uomo che si racconta poco, che si realizza nel fare.

Questo è l’articolo, pubblicato su Specchio della Stampa nel novembre del 2002:

C’è chi insegue la fama e chi, come Joel Arthur Rosenthal, se la trova addosso. E’ un artista, crea i gioielli più sorprendenti al mondo, ma non rinuncerebbe mai alla sua impresa di 4 dipendenti. Schietto e riservato, dal giorno in cui aprì il piccolo negozio in place Vendome a Parigi, 25 anni fa, ha lasciato che fossero solo i suoi oggetti, sublimi e unici, a raccontare il suo talento. Attorno a tre anelli, le sue prime creazioni, è nata una catena di persone che, rapite dalla bellezza dei suoi gioielli, vogliono vederne altri. “Feci il quarto anello, un paio di orecchini, e, dopo tre anni, avevamo seri collezionisti che ci chiedevano pezzi,” ricorda Rosenthal. Da decenni arriva gente che preme il dito sul pistillo della bronzea camelia, nel passage della celebre piazza. Il campanello suona solo all’interno, e, se la porta si apre, come in un club esclusivo, viene chiesto: “come ha saputo di noi?”. Solo Joel e il socio Pierre Jeannet decidono chi varca la soglia del regno di JAR. Ogni pezzo è unico e irripetibile, e ciascuno dei  400, esposti al pubblico, alla Somerset House di Londra, fino al 26 Gennaio, è stato scelto o realizzato, per chi lo possiede, insieme a Rosenthal stesso.

“Se una donna entra nel mio negozio e prova un gioiello che non le sta bene, non esito a dirlo”, racconta, “Parte del mio mestiere è vedere come verrà portato. Molte donne non sono consapevoli di come appaiono, ma sanno come vorrebbero apparire.”

Il gioiello è un oggetto d’arte molto intimo, e, nel mondo di JAR, il sovrano Joel ha incantato collezionisti e ha coltivato sincere amicizie. “E’ bellissimo avere a che fare con persone che desiderano fortemente una cosa che tu hai creato. Ti dà l’opportunità di farle reagire,” dice,

“nell’intimità del mio spazio la gente sente che non c’è bisogno di recitare. Si supera in fretta il gioco delle parti, per andare al cuore delle cose, e questo piace tanto a me quanto agli altri.” Così, per il suo illustre e devoto clan, Joel è un creatore sublime e un amico vero, che sa dare, perché, da sempre, sa quello che vuole. Nato nel Bronx 59 anni fa, figlio unico, è stato educato alla libertà. “I miei genitori mi hanno sempre incoraggiato a fare ciò che volevo, ciò che mi rendeva felice, e questo mi ha dato una base di partenza molto solida ”. Da bambino sceglieva di dipingere con la stessa sicurezza con cui oggi cura, anche per anni, la complessa realizzazione di un’ idea. “Bisogna avere forte perseveranza e fedeltà, sia per amare una persona, che per creare un gioiello, o scrivere un testo. Come gli uccelli che migrano, so dove andare”. I gioielli di JAR esulano da mode ed epoche, la loro bellezza è fuori del tempo e misteriosa. Nelle spille e negli orecchini, nei colliers e nei bracciali, metalli nobili e poveri, le pietre preziose e quelle semplici si esaltano per l’ incontro inatteso, e fanno magie. Ametiste e opali, sono fiere di convivere con zaffiri e rubini, sulle ali di una farfalla. L’alluminio, orgoglioso di essere plasmato da mani tanto sapienti, si flette morbido e leggero, nella pecora dagli occhi blu. Nelle trame delle montature, spesso invisibili, JAR tesse le sue pietre come fossero raggi di luce, e nasconde gemme preziose per regalare, a chi indossa i suoi oggetti, emozioni di raffinata intimità: “dedichiamo anche sei anni a realizzare un gioiello, ma deve sembrare che ci sia voluto un attimo. Se si scopre troppo il lavoro che c’è dietro, smontiamo tutto e ripartiamo da capo”. E’ con la stessa apparente  semplicità che Rosenthal si presenta: abiti informali, capelli ricci, bianchi e leggermente arruffati, sguardo penetrante e sincero.  Ma la sua vera natura la riserva a pochi. “Tempo fa erano venute da me due persone che, dopo una lunga visita, confessarono di aver sentito dire che ero una sorta di mostro. ”Dovremo sfatare questo mito”, esclamarono, “raccontare che sei l’opposto di quel che si dice”! Se farete cosi, non vi lascerò più entrare nel mio negozio!, risposi”.

Il regno di JAR è un covo, un piccolo labirinto di stanze senza finestre, le pareti foderate di velluto. All’ingresso si affacciano due porte, ma è una sola che conduce alla stanza di Rosenthal. Dietro la scrivania, la porta al mondo incantato, dove il creatore mostra le sue preziose sculture.

Il successo di JAR , come nella ricetta squisita di un grande chef, nasce da molti ingredienti calibrati al punto giusto: l’ impazienza, che lo  ha portato a non riprodurre mai un oggetto due volte ; il suo occhio critico e raffinato, che sa cogliere e ricreare i dettagli più sorprendenti ; i materiali di eccellente qualità, combinati con estro e montati con straordinaria abilità ; l’atteggiamento, non costruito, ma voluto, per selezionare chi avrà i suoi gioielli.

Sono circa settanta i pezzi che JAR produce in un anno. La casa  d’aste Christie’s, che sponsorizza la mostra a Londra, ha battuto gli oggetti di quei pochi, al mondo, disposti a vendere, a cifre che hanno superato fino a quattro volte il prezzo originale. E’ un fatto  straordinario per un artista vivente. Il fascino di questo uomo singolare è tanto più sorprendente quando si considera la sua storia.

Bambino prodigio, con buone opportunità per esprimersi, ama soprattutto dipingere.  Gioca col colore in trasparenza:“riempivo bicchieri con gli acquarelli, li mettevo alla luce, ci guardavo attraverso”. A Harvard studia storia dell’arte e filosofia, ma è il cinema che lo attira di più. All’università  conosce Otto Preminger, che gli offre di lavorare sul set di “Hurry Sundown”, ma il suo sogno è fare un film con Anna Magnani, e scrive la sceneggiatura. “Avevo ventitre anni. Andai a Roma, e bussai alla sua porta di casa. Pensa fare così oggi!. Aprì una donna un po’ bisbetica. “Vorrei parlare con la signora Magnani”, dissi. Tornò dopo pochi minuti e mi fece entrare. La Magnani era accattivante, avvolta in una nuvola di Narcisse Noir (un profumo di Caron, ndr) e circondata dai suoi gatti persiani. “Ho scritto un soggetto per lei”, dissi con voce tremante. “Il mio inglese non è molto buono,” rispose, ma lo leggo volentieri. Torni fra qualche giorno.” Per un anno Rosenthal lavorò al progetto, con un budget di 400.000 dollari, il film non si fece, ma fu una bella esperienza, ricca di viaggi e incontri. La scrittura resta tuttora una grande ambizione di Rosenthal:  ha pubblicato alcuni racconti, ma la sfida più grande è finire un romanzo iniziato otto anni fa. Nel 1973 si trova  a Parigi, e decide di aprire con l’amico Pierre Jeannet, laureato in psicologia, un negozio di piccolo punto. Entrambi  dipingono, e sulle tele bianche danno libero sfogo alla fantasia. Jeannet è in attesa che si liberi una posizione per lui in uno studio medico, Rosenthal è trasportato dall’entusiasmo per la nuova idea, in attesa di compiere un grande passo. I due conquistano le parigine con disegni insoliti e lane tinte in una vasta gamma di colori. “Le signore ci chiedevano sempre lezioni di piccolo punto, e io restavo incantato dalle pietre dei loro anelli che volteggiavano sotto i miei occhi, metre cucivano. Capii che il mio unico vero desiderio era disegnare gioielli”. Era il 1975. Oggi JAR è considerato il miglior gioiellere vivente.

Intervista a Severn Suzuki

By ecology, features

Avevo appena messo il piede in casa, al rientro da un lungo viaggio di lavoro, e mia figlia Elena mi è corsa incontro con il computer in mano: “Mamma, devi vedere subito questo video”. Avrei voluto dire “aspetta…” ma aveva già schiacciato play. Al primo frame ho riconosciuto il volto.  Non potevo dire a Elena che conoscevo il contenuto della sua scoperta. Mi sono appoggiata allo schienale e ho ascoltato un discorso sentito tante volte.

“…perdere il mio futuro non è come perdere un’elezione o alcuni punti sul mercato azionario…”

Il mio sguardo scivolava dal volto della bambina a quello della mia ragazza.

“…sono qui per parlare a nome dei bambini che muoiono di fame…”

Sentivo la morsa allo stomaco, e ancora ora, mentre scrivo, respiro profondamente per sciogliere l’emozione.

“…ho paura di respirare l’aria perché non so che sostanze chimiche contiene….”

Reprimere un piccolo umile pianto di sincera costernazione, sarebbe stato come levare le spalle, arrendermi.

“…quando avevate la mia età – chiede la piccola Severn, rivolgendosi ai capi di stato delle 105 nazioni presenti – dovevate preoccuparvi di queste cose?…”

Dopo quei pochi, intensi minuti, il silenzio è stato un atto di spontanea riverenza.

E ora? Dopo anni di scelte – tre figli, ai quali ho promesso di fare del mio meglio per crescerli sani, sereni e forti, una nuova carriera per divulgare un messaggio di speranza a chi ama la vita e la vuole proteggere, cosa mi lasciava questo messaggio?

“Chissà dov’è oggi….”

“Ha trentatré anni”, risponde mia figlia, che ha già fatto i conti.

Severn è cresciuta in una famiglia di ambientalisti – suo padre è David Suzuki, scienziato, divulgatore e autore di 52 libri, sua madre è scrittrice. Severn ha due lauree, in Biologia a Yale e in Etno botanica alla University of Victoria in Canada. Da un anno è diventata madre.

Grazie al web, sono riuscita a raggiungerla e a raccogliere questa intervista – una parte è stata pubblicata su Sette del Corriere della Sera.

Il suo discorso del 1992 sembra scritto ieri. Come reagisce a questo?

C’è solo una frase che data il mio discorso: la nostra famiglia umana di 5 miliardi. Oggi mi stupisco ancora del fatto che non siamo riusciti a invertire la rotta. Al tempo avevo 12 anni, e pensavo che, catturando l’attenzione dei leader del mondo, essi avrebbero usato il loro potere per cambiare il corso dell’umanità. Ho creduto che avrebbero pensato ai loro figli prima di prendere decisioni importanti. Ero un’idealista.

 

Come fa a mantenere uno spirito positivo?

Se apriamo la mente e il cuore verso I problemi che affliggono gli ecosistemi e i popoli dall’altra parte del globo, è facile deprimersi. Più vado avanti più mi accorgo che non me lo posso permettere. Mettere in pratica la visione che abbiamo del mondo, sostenendo e promuovendo lo sviluppo della società alla quale aspiriamo, è importante quanto battersi contro l’ingiustizia e il danno che stiamo arrecando alle future generazioni. Se crediamo in un mondo bello, dobbiamo cercare di renderlo concreto in ogni modo possibile. Trovare la gioia è la sfida più grande, ed è una ricerca che m’ispira e mi rafforza. Significa prendere il tempo per coltivare e preparare cibo buono, significa costruire uno spirito comunitario, ricordandoci che ciò che è bene per la qualità della nostra vita fa bene anche all’ambiente. Mi ispira la forza degli altri. Sulla mia scrivania ho una frase del Dalai Lama, “Non ti arrendere mai”. Mi ricorda quali sfide e ingiustizie abbia affrontato il popolo tibetano, mi aiuta ad apprezzare tutto ciò che ho e ciò che sono libera di fare. Siamo potenti nella misura in cui ci crediamo.

 

Dove vede i cambiamenti più tangibili?

A livello locale. E’ lì che possiamo agire e vedere i risultati. Il globale è la somma del locale. Abbiamo bisogno che i governi locali e centrali sostengano i cambiamenti in atto nelle comunità. Possono farlo fissando standard di risparmio energetico, creando reti di trasporto più efficienti, incentivando i comportamenti che tutelano l’ambiente. Non è giusto che sia così difficile fare la cosa giusta; al momento le nostre società favoriscono scelte facili a basso costo che sono terribilmente dannose per l’umanità e per il pianeta.

Dei tanti progetti nei quali è impegnata, quali le permettono di raggiungere in modo efficace i suoi obiettivi?

Buona domanda. Tutti I progetti e le campagne alle quali ho lavorato mi hanno insegnato molto. Ho conosciuto persone incredibili, e continuo a imparare. E’ stato un privilegio lavorare con il Sloth Club Japan, un gruppo di visionari che hanno come missione di rallentare il Giappone. Credono profondamente nei valori del movimento Slow Food, nato in Italia, ma trasferiscono I principi “slow” a ogni aspetto del quotidiano. Credono che stiamo correndo troppo, a danno nostro e del Pianeta. Quando sono stata in Giappone, mi hanno organizzato conferenze straordinarie – sanno mobilitare la gente e diffondere messaggi con grande efficienza. Al momento sto lavorando con un gruppo di giovani alla campagna “We Canada” per portare I nostri politici a mostrare un’autentica leadership alla Earth Summit di Rio nel 2012. E’ un gruppo di persone ispirate e piene di energia, e mi colpisce per la capacità di fare rete, di esprimere al meglio il potenziale  dei social media. Abbiamo strumenti potenti per comunicare e fare rete, dobbiamo solo rendercene conto.

 

Chiaramente il cambiamento arriva dal basso – lo vediamo in Egitto, Tunisia, in Siria. Il mondo cerca disperatamente di cambiare. Vede all’orizzonte leader capaci di condurre l’umanità sulla giusta rotta?

Il 50% della popolazione mondiale è giovane. Pensiamoci. C’è grande potenziale per una rivoluzione. Purtroppo i giovani non sono attratti dalla politica – hanno eletto Barack Obama, ma da allora non sono più andati a votare, e questo è un trend mondiale. I giovani devono prendere coscienza del potere che hanno in cabina elettorale. Dalla conferenza di Rio del 1992, 19 anni fa, mi sono impegnata nelle piazze, in TV, come scrittrice, e mi sono laureata, ma l’azione più potente resta ancora il mio discorso da dodicenne. Perché? Credo che abbia a che fare con ciò che al mondo, oggi come allora, necessita maggiormente: la voce dei giovani, la loro verità. I giovani, che hanno tutto da perdere, hanno un messaggio potente da consegnare a chi vive come se il futuro non li riguardasse. Occorre che prendano la parola e sfidino i leader del mondo ad affrontare l’ingiustizia intergenerazionale. Il cambiamento climatico è una condanna per i giovani di oggi, creata dalle generazioni passate e presenti. Nel corso della storia, gli umani hanno agito pensando al futuro, alla sopravvivenza della specie, e le tecniche di sopravvivenza più basilari oggi sono state gettate al vento, a danno dei nostri figli.

 

Dei tanti veicoli che diffondono il suo lavoro: l’editoria, il web, la radio, la TV e le conferenze, qual’è il più efficace per innescare il cambiamento?

E’ difficile misurare quanto riusciamo ad agire sulla coscienza collettiva. Cambiare il modo in cui le persone pensano e agiscono è un lavoro informe, amorfo. I media sono strumenti per parlare alle persone, e ce ne sono un’infinità, oggi, ma ciò che trasforma veramente è l’esperienza. Fare. Se la gente è testimone di un problema, se visita un luogo naturale minacciato, è più prona ad agire. Dobbiamo uscire, vedere, conoscere. Se conosciamo Ia natura, ci batteremo per lei.

 

Una vita sostenibile è fatta da un insieme di scelte, gesti, abitudini umili e semplici per chi le mette in pratica, ma per tanti, troppi, sono una soglia da superare. Chi sono I suoi modelli e come affronta la sfida di promuovere ciò che sembra tanto ovvio?

Su libri e riviste leggiamo spesso: “soluzioni facili per essere sostenibili”. Ma la transizione verso stili di vita sostenibili non è facile per molti, anche quando ha senso per la salute, per le comunità e per la qualità della vita. Portare la nostra società a promuovere e mettere in pratica stili di vita sostenibili non è semplice e nemmeno facile, ed è la grande sfida per i divulgatori – facilitare la transizione. Occorre il sostegno dei governi, per ridurre l’inquinamento, gestire l’uso dell’acqua e dell’energia, per incentivare i giusti comportamenti. Un punto di riferimento per me è Thomas Friedman. Il suo ultimo libro Il mondo è piatto è una fonte esauriente di informazioni provocatorie e d’ispirazione sulla sfida che affrontiamo.

Sulla sua fan page di facebook c’è un messaggio commovente di una ragazzina italiana di dodici anni che dice: “fino a quando ho visto il tuo discorso del 1992, pensavo che i problemi ambientali di cui sento parlare fossero recenti. Lei è diventata mamma da poco tempo – non è preoccupata per il mondo che suo figlio erediterà?”

Mio figlio ha un anno. Devo credere che erediterà un mondo che merita di essere vissuto. Ho imparato da mia madre che possiamo arrabbiarci, essere tristi, ma non dobbiamo mai perdere la fiducia. Il nostro pianeta è bellissimo, ed è onorando tanta bellezza che saremo spronati a batterci affinché non venga distrutta. Dobbiamo attingere alla nostra forza emotiva, in qualità di figli, genitori, zii, nonni, e connetterci con le sfide globali che stiamo affrontando. Dobbiamo batterci per la giustizia.

 

Lei, in qualità di biologa e ambientalista, interpreta i recenti disastri naturali, da Katrina agli tsunami, come un “campanello d’allarme” che la natura cerca di dare all’uomo?

Quando l’urragano Katrina colpì New Orleans pensai: “il mondo occidentale dovrà svegliarsi e affrontare I cambiamenti climatici.” Verrebbe da pensare che anche la possibilità più remota che l’uomo abbia contribuito a un disastro di tale portata, avrebbe fatto riflettere gli americani. Di fatto, il “campanello d’allarme” non ha inciso in maniera significativa sulla legislazione riguardo ai cambiamenti climatici. Mi chiedo cosa occorre per svegliare l’umanità. Molti parlano di “giustizia climatica” o “razzismo ambientale”, alludendo al fatto che i più poveri sopportano maggiormente gli impatti sociali del degrado ambientale. La società è palesemente ingiusta? Il pensiero mi fa venire i brividi e minaccia la mia fiducia che le persone abbiano un innato senso di giustizia, a favore dei più deboli. La devastazione causata dagli tsunami serve come promemoria per tutti noi, ci ricorda Il crudo potere del mondo naturale, che merita rispetto.

 

In qualità di biologa e etno-biologa, quali sono I fatti che la preoccupano maggiormente e che richiedono azioni immediate?

Andando per mare e per terra con gli anziani nativi, mi ha sconvolto scoprire che le risorse alimentari alle quali attingevano da bambini oggi sono contaminati. In diverse aree che abbiamo visitato, molti cibi non sono più commestibili a causa dell’inquinamento. Non mi aspettavo un dato simile, e mi ha rattristato molto. C’è un bagaglio prezioso nel sapere degli anziani. In passato non sono stati raccolti molti dati di riferimento per quanto riguarda la salute degli ecosistemi prima dello sviluppo esponenziale degli ultimi decenni, ed è così che la memoria degli anziani diventa basilare.

Quali sono i sentimenti suoi e della sua famiglia riguardo all’energia nucleare?

Ho sempre pensato all’energia nucleare come a un patto con il diavolo.

 

Come calcola la sua impronta ecologica?

Ci sono diversi siti per farlo online; ridurre il proprio impatto è un esercizio importante per capire come vivere in modo più ecologico.

 

Dove vive?

Sull’arcipelago di Haida Gwaii . “Isole delle persone”, a nord ovest dalla costa del Canada.

 

In questi giorni lei è in Europa. Perché?

Sto visitando mia sorella che studia in Inghilterra, e approfittiamo dell’occasione per presentare mio figlio ai suoi parenti britannici.

 

A cosa sta lavorando ora?

Alla salvaguardia dell’idioma Haida, che oggi è parlato solo da un gruzzolo di anziani. E’ la lingua di mio marito e ora di mio figlio, e vogliamo mantenerla viva. Questo sarà possibile grazie agli anziani dai quali la stiamo imparando. Sto anche lavorando alla campagna We CANada in vista del summit di Rio nel 2012. Il governo canadese sta lasciando una pessima eredità ambientale – sono imbarazzata. Sono portavoce del gruppo canadese “Girls in action” per promuovere autostima e opportunità positive per giovani donne, e sono presidente di consiglio della David Suzuki Foundation (la fondazione del padre, ndr).

Il mestiere più importante che svolgo ora è di crescere un bimbo sano e forte.

Intervista a David Orban

By features

Scienziato, visionario e membro della Singularity University. David Orban ci parla di Intelligenza Artificiale, di Bitcoin, di privacy, ma anche della sua vita vissuta a cavallo tra culture.

L’INTERVISTA A DAVID ORBAN SU THE GOOD LIFE ITALIA 

CRISTINA: David, raccontami un po’ della tua infanzia.

DAVID: Sono nato a Budapest, figlio unico, da due genitori artisti: mia madre è pittrice e mio padre era attore e regista. Avevano una vita abbastanza da bohémien, anche nelle loro amicizie. Facevano parte della così detta intellighenzia, in quegli anni in Ungheria una vera e propria classe, che, pur non fidata, o forse proprio per questo, godeva di libertà che non tutti avevano. I miei genitori erano separati e a 12 anni mi hanno chiesto, siccome mia madre avrebbe sposato un italiano, se, finita la scuola a 14 anni, volevo rimanere in Ungheria con mio padre oppure andare in Italia con mia madre e il suo nuovo marito. Tutta la natura esotica di questo nuovo mondo era troppo attraente per non sceglierlo; sentivo l’odore delle palme, delle scimmie: di tutto quello che, nella mia immaginazione, poteva essere l’Italia. Sono cresciuto a Budapest in modo abbastanza libero – anche a 8 o 9 anni andavo a scuola da solo, magari mettendoci un’ora perché di inverno vivevamo in una parte della città e d’estate da un’altra parte, la scuola era in centro e quindi prendevo due o tre mezzi per arrivare. Un aneddoto particolare: avrò avuto 10/11 anni ed ero membro di un club di fantascienzache si riuniva ogni secondo martedì del mese alle nove di sera. Io andavo da solo tornando a casa alle undici o mezza notte. Parlandone con mia madre poco tempo fa, neanche lei si capacitava di come lei potesse permettermelo. Questo del club di fantascienza derivava si da una mia inclinazione naturale, ma anche dal desiderio dei miei genitori di orientarmi verso una carriera più scientifica che artistica. Per me in realtà non c’è una grande contrapposizione tra le due. Un altro ricordo d’infanzia: uno dei miei libri preferiti era “Le avventure di un atomo di carbonio”. Andavo all’asilo ovviamente accompagnato, con quel libro ungherese sotto il braccio. Ha avuto grande successo e adesso, cinquant’anni dopo, si trova ancora in edizioni italiane, inglesi, un po’ in tutto il mondo. Era una storia molto semplice, ma di grande ispirazione, di un atomo che fa parte di una foglia di palma, viene mangiato da un dinosauro, il dinosauro muore, diventa petrolio, viene scavato, nutre il forno del panettiere e così avanti a illustrare un po’ i cicli del mondo.

CRISTINA: Effettivamente, conoscendo il tuo lavoro, queste storie hanno piantato un seme importante.

DAVID: Ho seguito sempre fisica e matematica, erano le mie passioni, e siccome tutte le operazioni di spostamento dall’Ungheria all’Italia erano burocraticamente molto complicate, mi ero iscritto anche al liceo in Ungheria. Lì molte scuole sono a numero chiuso. Avevo fatto l’esame d’ammissione per una scuola particolarmente prestigiosa, che spesso apre le porte di quelle università dove, negli anni ’20 e ’30, hanno studiato Edward Teller, Leo Szilard, John Von Neumann e altri. Fisici, che secondo Oppenheimer e Fermi, avrebbero assicurato tutte le esigenze di sicurezza che preoccupavano gli americani nel progetto Manhattan per la progettazione della bomba atomica, perché, se se ne fossero andati gli altri, avrebbero potuto tranquillamente continuare in Ungherese e nessuno li avrebbe capiti.

CRISTINA: Però tu non hai frequentato quel liceo né quell’università, perché sei venuto a stare in Italia.

DAVID: Esatto. Era interessante il contrasto tra il sistema comunista e quello capitalista in Italia. Alle persone che mi chiedevano, curiosi e un po’ accondiscendenti, qual era la mia esperienza, rispondevo tranquillamente “molto diversa” e loro non necessariamente capivano che intendevo, ossia che c’era un abisso tra l’effervescenza culturale, gli stimoli e le opportunità di Budapest, e il paesino veneto di cinquantamila abitanti dove siamo andati a finire e dove ho fatto il liceo.

CRISTINA: Come ti ricordi il passaggio culturale? Non hai trovato né scimmie e, le palme forse non in Veneto ma più in Liguria.

DAVID: Esatto. Ho fatto un salto nell’acqua fonda per imparare a nuotare. Sono arrivato il 20 agosto senza parlare l’italiano e il 20 settembre ho cominciato il liceo. Un’esperienza stimolante che in un’altra persona avrebbe forse potuto essere traumatica o portare all’esaurimento. Nel mio caso non è stato così. Ci sono stati magari piccoli conflitti, ma il livello di tolleranza da parte degli insegnanti è stato ottimo perché, all’inizio, non capivo assolutamente niente. Alla fine mi sono diplomato con i voti migliori della scuola. Le differenze tra i due mondi erano sui parametri diversissimi, dal cibo ai comportamenti: eravamo in un paese piccolissimo nel profondo Veneto – sento ancora l’odore dei camion a rimorchio che portavano le barbabietole da zucchero e sgocciolavano lungo le strade del paese. Cugini acquisiti si trovavano all’oratorio e dicevano: “Andiamo in piazza”. Tutto entusiasta dicevo: “Okay, dai. Andiamo in piazza.” Poi, quando arrivavamo li, ero un po’ confuso perché mi ero immaginato che ci fosse un obiettivo, che in piazza si facesse qualcosa. Questo modo rilassato e senza preoccupazioni, ma senza neanche propositi, questa vita di paese, per me, era molto curiosa e molto lontana da quella conosciuta prima.

CRISTINA: E i tuoi giochi e passatempi preferiti da bambino e da ragazzo quali erano?

DAVID: Il Danubio divide Budapest in due: Pest è piatta e Buda è collinosa. D’inverno vivevamo in un appartamento a Pest, mentre d’estate andavamo in una casetta di legno a Buda dove potevo fare escursioni, arrampicate, cose anche “pericolose”, mentre in città andavo al cinema o facevo altro. D’estate andavo a veleggiare, d’inverno a sciare: cose abbastanza normali, molto belle e stimolanti. E in mezzo agli stimoli mi annoiavo spesso. Tant’è che avevo un libro che si intitolava “Mi annoio. Cosa posso fare?” E oggi, tra le mille cose che mi tengono occupato, quando uno dei miei figli mi dice che si sta annoiando, lo guardo e gli dico: “Goditela. Goditi il privilegio del non avere la pressione di una scadenza, delle cose accumulate o che hai rimandato.” Insomma: tutta la mancanza di obblighi e impegni, che provoca la noia sono un privilegio.

CRISTINA: E il tuo papà adottivo, quindi il secondo marito di tua mamma, che attività aveva? A che tipo di situazione sei stato esposto?

DAVID: Lavorava in banca, aveva una vita tranquilla e ordinata. Andava a lavorare al mattino, veniva a casa a pranzo, riposava un’oretta prima di rientrare… E faceva dei viaggi, anche insieme a mia madre, in Italia, Europa, America, però sempre in modo molto contenuto, perché immaginava che, andando poi in pensione, con un po’ di soldi da parte, si sarebbe goduto il tempo facendo cose che non aveva fatto prima. Invece è morto, ha preso un tumore che l’ha ucciso nell’arco di un anno, poco dopo essere andato in pensione. E’ stato un esempio importante di come non si deve rimandare.

CRISTINA: Le tue radici dove le metti? Come definisci la tua nazionalità?

DAVID: In modo assolutamente opportunista. Parlando tre lingue bene, un po’ come fanno le attricette francesi che sono in Italia da trent’anni e tirano fuori l’accento quando serve, anch’io vengo riconosciuto e identificato come straniero ovunque io sia. E ne approfitto perché mi permette di essere critico o di fare osservazioni da outsider che gli insider, magari, non fanno per timore di offendere o di bruciare ponti di cui sentono di aver bisogno. Quando sono in America dico che sono ungherese, quando sono in Italia e mi prendono per americano e non lo smentisco, mentre in Ungheria, quando visito, critico ferocemente il governo del primo ministro, mio omonimo, includendo il fatto che lì, in compagnia, ancora oggi, non si parla di politica perché le persone hanno smesso di sentirsi liberi e aperti.

CRISTINA: Venendo ai tuoi mentori: nel tuo libro “Singolarità. Con che velocità arriverà il futuro” ringrazi Gianni Degli Antoni e c’è un passaggio che risuona particolarmente in me “I sistemi automatici devono fare leva sul giudizio delle persone.” Puoi approfondire?

DAVID: Una delle grandi conquiste della scienza è la perfettibilità. Cioè, mentre una visione dogmatica, metafisica, teistica e religiosa del mondo parte da un presupposto di perfezione e di infallibilità, una visione scientifica si rende conto dei propri limiti ma anche dell’ambizione della capacità di superarli. Non solo a livello teorico, a maggior ragione a livello pratico, quindi a livello di ingegneria, a di tecnologia. E questo significa che la capacità di analisi di una situazione e quindi di confronto di possibili risultati teorici, con quel che effettivamente avviene, inclusi comportamenti umani, costituisce una dinamica che va, si spera, migliorandosi. La comoda e rinunciataria posizione che la storia si ripete, che non c’è niente di nuovo sotto il sole, riduce al qualunquismo, mentre se ci guardiamo attorno, è evidente che le cose cambiano e che migliorano. Noi, per lo meno oggi, viviamo in epoche in cui abbiamo modo di influire positivamente sulle cose. Quindi la nostra capacità di ragionare, di costruire sistemi morali ed etici, migliora. Oggi abbiamo strumenti migliori per pensare di quelli che avevamo mille o duemila anni fa e questi strumenti li possiamo mettere in pista sia a mano che in modo più o meno automatizzato. I nostri sistemi legali, per esempio, la società stessa che abbiamo costituito, un insieme astratto di regole che richiedono un intervento umano per essere messe in moto, ma che comunque hanno una loro realtà, hanno le loro esigenze. Quando parliamo di automatismi e di macchine, abbiamo una visione spesso troppo ristretta: un’azienda è una macchina, una società crea degli automatismi. Quando accusiamo i politici di essere inerti, la loro impotenza deriva, effettivamente, dal fatto che sono parte di un meccanismo e cambiare il funzionamento di quel meccanismo è oltre alla capacità di molti. Quando sentiamo ed esprimiamo il desiderio di una leadership forte, quello che in realtà chiediamo è una profonda capacità d’intervenire per modificare i meccanismi dell’automatismo politico della società intera. Il giudizio delle macchine non è un robot che ti punta il dito. È la sofisticata capacità umana di costruire sistemi complessi che evolvono verso direzioni desiderabili.

CRISTINA: Però c’è quasi più fiducia che questi sistemi progettati dall’uomo possano raggiungere una giustezza morale, una capacità di discernere, maggiore di quella dell’uomo senza l’ausilio di queste tecnologie.

DAVID: Si, questo è il mio punto di vista. In modo assolutamente analogo ad altre attività umane: posso correre più velocemente in macchina che non a piedi, posso guardare più lontano con il telescopio che a occhi nudi, posso imparare di più usando i libri che non tramandando a parola e posso esprimere un giudizio moralmente superiore con l’ausilio di sistemi che mi supportano, che non seguendo la mia intuizione naturale.

CRISTINA: Però c’è l’elemento forte della psiche, che porta una memoria ancestrale e che viene sovente governata da impulsi e da memorie del passato. E noi viviamo più mossi collettivamente dalla memoria che dalla capacità di vedere l’opportunità in ogni momento.

DAVID: E questo può danneggiarci. Abbiamo rituali, abbiamo l’infibulazione, un rispettabilissimo elemento culturale di popolazioni africane che è di una tragica stupidità, che nessuna radice culturale dovrebbe permettere e che non merita di essere preservato, quindi pazienza. Un po’ come non abbiamo pianto quando abbiamo eradicato il vaiolo. Le cose passate, le nostre memorie, sicuramente, sono importanti ed è importante che le valutiamo in un ordinamento di valori conoscendo quelle che contribuiscono positivamente alle opportunità degli individui e alla società e mettendo da parte quello che non vogliamo più, che rifiutiamo, a cui rinunciamo. Questo tipo di selezione delle memorie può essere, secondo me, parte di un’innovazione, di un ringiovanimento, e quindi acquisire queste capacità diventa ancora più importante quando l’età media si allunga perché avremo sempre più bisogno di riconoscere errori anche in noi stessi.

CRISTINA: A proposito dell’allungamento della vita, quello che mi hai detto mi fa venire in mente un articolo che ho letto stamattina sull’International New York Times scritto da Bernie Sanders in cui lui dice: “la durata della vita di milioni di americani poco istruiti si ridurrà a causa di depressione e alcolismo rispetto a quella della generazione precedente”. C’è una soglia di vita che si allunga con scoperte mediche, biologiche, ingegneristiche, però ci sono delle complessità a livello sociale che stanno gettando quantità immense di persone in una disperazione tale per cui vivranno meno. Quello che tu fai porta sempre una visione assolutamente possibile di un futuro, però siamo in un guado dove più sovente si affonda invece che galleggiare o, per lo meno, a livello di società nel suo insieme.

DAVID: Se io vedo un gradiente statisticamente affidabile che punta verso un futuro desiderabile, questo non significa che i suoi elementi siano preordinati e che ci sia una garanzia del risultato. Solo se noi lo desideriamo, un certo tipo di futuro si realizzerà. L’esempio che hai citato tu degli Stati Uniti, ma anche la Russia dopo il crollo dell’Unione Sovietica o la Germania dell’Est dopo l’unificazione, rappresentano una pressione nella trasformazione dei modi di vivere dove le persone, senza una sufficiente protezione sociale, non sono in grado di adeguarsi e lo stress porta ad alcolismo, depressione, suicidi e questo risulta nelle statistiche nella vita media che si accorcia. Parliamo di disagi sociali, di terrorismo, intelligenza artificiale, ma dobbiamo assolutamente tenere conto del pericolo rappresentato anche dagli asteroidi, che abbiamo cominciato a conoscere, abbiamo cominciato a mappare, ma in modo insufficiente. Il 30 giugno corre l’anniversario dell’impatto significativo più recente di un asteroide – quello di Tunguska, caduto in Siberia nel 1908. Prese la terra di striscio e distrusse un’enorme area disabitata della Siberia.

CRISTINA: Questo tocca un punto importante, perché il governo ha smesso di finanziare le ricerche della NASA e il boccino è passato in mano ai privati che, per fortuna, poi hanno ripreso a mappare e cercare di prevedere.

DAVID: C’è comunque da vedere qual è lo sforzo che viene fatto e se questo è sufficiente rispetto alla probabilità e al possibile danno provocato da un eventuale futuro impatto. Molto spesso, in modo che sarebbe ridicolo non fosse così spaventoso, gli annunci di asteroidi vengono fatti dicendo: “È appena passato […]” Spesso questo avviene perché l’osservazione dell’asteroide che viene da un’orbita vicina al sole è estremamente difficile, se non addirittura impossibile. I nostri strumenti sono accecati o sono rivoli altrove ed è, appunto, solo quando l’asteroide è già passato che il telegiornale riporta “[…] in un’orbita due volte la distanza dalla luna o, addirittura, interna alla luna, è passato un asteroide” e se ci avesse colpito avrebbe ucciso, non so, dieci milioni di persone.

CRISTINA: E’ una metafora potente, per questo tempo: l’attenzione dei più – soprattutto di governi, di grandi istituti – accecata quanto lo sono gli strumenti che non sanno bene dove orientare lo sguardo nello spazio. Una metafora di come, collettivamente, stiamo vivendo questo tempo.

DAVID: Certo, certo.

CRISTINA: Un’altra soglia che tu cavalchi è quella tra la libertà e la sua limitazione per garantire la sicurezza. Un altro confine, quello tra libertà e imposizione dove tu porti un’immaginazione, non solo le informazioni di sviluppi possibili, però come si può gestire oggi? Da quello che si evince, non la si sta gestendo in maniera così eccellente.

DAVID: Spesso c’è una imperfetta capacità di analisi di quelle che sono le tensioni sotto la superficie, sia in termini di qual è la loro origine, sia come gestire, incanalare in orientamenti positivi questa tensione. Un esempio di analisi e conclusione sbagliata, è immaginare che sia necessario sacrificare la privacy per migliorare la sicurezza. Quando viene chiesto ai governi: “Quali sono le azioni terroristiche prevenute grazie ai sistemi di sorveglianza” mancano le informazioni. Al massimo viene detto: “Abbiamo prevenuto dieci attacchi, venti attacchi, ventimila attacchi” in senso astratto e non documentato, perché con la giustificazione della sicurezza non è possibile svelare dettagli. Sacrificare la privacy e implementare una società di sorveglianza universale, non solo, secondo me, non è in grado di prevenire attacchi terroristici e garantire una sicurezza universale, ma rischia di sacrificare la capacità della società di evolversi. La ragione di questo è relativamente semplice: ogni cambiamento dei comportamenti è inizialmente desiderio di una forte minoranza. Per definizione. Se fosse condiviso da una maggioranza, sarebbe già in atto. Se io, negli anni sessanta/inizio anni sessanta, in America, mi fossi innamorato di una ragazza nera e tu, assieme ad un altro gruppo di amici, avreste cercato di aiutarmi a sposarla, saremmo stati tutti criminali sovversivi, perché era illegale, proibito. Era un atto criminale per un bianco e un nero sposarsi, ma, dieci anni dopo, era diventato legale. Se in quegli anni fosse stata in piedi una società di sorveglianza universale, il nostro aiuto assieme al cambiamento di opinione di decine di milioni di americani, non sarebbe stato possibile, sarebbe stato estirpato alla radice e il cambiamento di legge che sancisce il cambiamento di opinione, non sarebbe potuto avvenire. E quello che sarà il prossimo comportamento che diverrà accettato e universale, non potrà essere adottato dalla società nella sua maggioranza nel momento in cui, nella società di oggi, insistiamo a eliminare la privacy. Questo porta ad una società rigida incapace di cambiare, incapace di adattarsi alle esigenze del futuro.

CRISTINA: E’ quello che stiamo vedendo. Cioè, a me non viene in mente un paese, se non magari la Costa Rica piuttosto che il Bhutan, dove si sono sovvertite delle regole a livello governativo fondamentali che permettono poi alla società di evolversi. Questo mi porta alla Network Society che tu hai fondato. Raccontami come sta crescendo e se pensi che quei pochi che saranno in grado, comunque, di avviare dei cambiamenti sociali profondi, verranno da un’intelligenza più diffusa, che le tecnologie di oggi consentono di esprimere.

DAVID: La Network Society Research, la think-tank, basata a Londra, che oggi è presente in 35 paesi, da una parte, e, dall’altra, Network Society Ventures, il fondo d’investimenti che seleziona startup su cui scommettere con capitali per accelerarne la crescita, nascono entrambi da un’analisi di come le tecnologie esponenziali cambiano il mondo. Cosa comportano queste tecnologie e quali sono le conseguenze nell’organizzazione socioeconomica del loro avvenire sul campo. Io ritengo che nella evoluzione della nostra capacità di costruire gruppi di persone che si organizzano per raggiungere i propri obbiettivi, lo stato-nazione che da quattrocento anni a questa parte è il tipo di organizzazione prevalente sia arrivato al momento di cedere il passo. Lo stato-nazione non necessariamente cesserà di esistere, ma la identificazione delle persone sarà molto più fluida e molto più duttile rispetto ad altre reti di appartenenza che saranno in grado di offrire servizi importanti per aiutare queste persone a raggiungere i propri obbiettivi. E queste reti di appartenenza saranno complementari a quella di una cittadinanza o di una residenza, qualche volta potranno essere anche in conflitto con quelle che sono le definizioni restrittive tradizionali e, quindi, come questo insieme di vincoli e di opportunità potrà evolversi. Sarà un grandissimo movimento, che sta già, in realtà, accadendo. Il Brexit è parte di questo. Il mio giudizio sull’atto e sulla decisione è che è profondamente antistorico, una risposta sbagliata alla domanda malformata di tensioni irrisolte. Certo che una gran parte della popolazione inglese è frustrata, certo che provano grande incertezza per il futuro e certo che sentono di non poterlo controllare, non poter decidere sulla propria vita. Assolutamente. Ognuna di queste cose è non solo verissima, ma è quasi universale in tutte le nazioni: sia europee che non europee, ma l’illusione di tornare ad un passato che non è mai esistito di autocrazie, di autodeterminazione, in un momento dove l’impero non esiste più, dove sicuramente la rete di scambi commerciali, tecnologici, politici mondiale da vantaggi innegabili a cui il Regno Unito rinuncerebbe e che vorrà riguadagnare a fatica ma a condizioni peggiori rispetto a quelle che ha adesso, ecco, questo è veramente penoso. Ma il fatto che quel referendum fosse stato possibile, è una conquista colossale, epocale, perché anche solo 150 anni fa, quando analogamente qualche stato del Sud negli Stati Uniti, voleva uscire dall’unione, quelli del Nord hanno risposto: “Piuttosto vi ammazziamo.” E che quindi l’Unione Europea sia stata in grado di fare l’accordo di Lisbona, il trattato di Lisbona, che sancisce che un membro ha il diritto di uscire dall’Unione e senza violenza, senza che questo scateni una guerra, è meraviglioso.

CRISTINA: Questo mi ricorda una conversazione con Derrick De Kerkhove sulla primavera araba. Un movimento che abbiamo tutti accolto con entusiasmo, non capendo dove sarebbe sfociato. Nessuno poteva immaginare quale vortice avrebbe generato. E’ evidente che i governi non sono capaci di stare al passo coi tempi. E ora vediamo più problemi che soluzioni.

DAVID: Una fase di trasformazione non può che contenere un numero molto maggiore di domande irrisolte che risposte. Noi vogliamo tutte le risposte subito e accusiamo gli esperti o, addirittura, diffidiamo di fidarci degli esperti se questi osano non avere tutte le risposte. Gli esperti non sono quelli che hanno subito tutte le risposte, gli esperti, se va bene, osservano con maggiore chiarezza una situazione e sono in grado di formulare domande utili. Stiamo vivendo una trasformazione che durerà molto a lungo. Non cinque o dieci anni, ma decenni di trasformazione e dovremo avere molta pazienza perché spesso le risposte che avremo saranno sbagliate.

CRISTINA: Certo, e con la primavera araba il mondo democratico ha salutato con entusiasmo questa capacità di esprimersi da parte di popoli repressi che, grazie alle tecnologie, hanno potuto manifestare la loro opinione.

DAVID: Così come saluteremmo con entusiasmo la caduta del regime comunista cinese per poi inorridirci dei conflitti che ne nascerebbero e della morte di decine di milioni di persone per fame e per guerra civile. Cioè, noi nel mondo occidentale abbiamo l’illusione di avere le risposte giuste. Soprattutto, le nostre risposte vanno bene per noi e non possiamo pretendere di imporle sugli altri.

CRISTINA: Quali sono i tuoi principali mentori, i pilastri del tuo pensiero?

DAVID: Oltre a Gianni degli Antoni, che abbiamo menzionato e a cui ho dedicato anche il libro che ho scritto, pur avendolo incontrato poco, mi ha molto ispirato Daniel Dennett, un filosofo contemporaneo che scrive in maniera limpidissima, senza nascondersi dietro le arcane terminologie che i filosofi usano per rendere impenetrabili i loro ragionamenti. E sicuramente Larry Lessig, inventore di Creative Commons, un importante passo avanti nella nostra capacità di gestire le idee e di valorizzare le idee in tutto il mondo. Fisici, intellettuali, filosofi, tante persone con cui spesso ho avuto anche il privilegio d’interagire o di lavorare insieme.

CRISTINA: Quali sono le tre cose della mentalità americana che hanno nutrito di più il tuo spirito imprenditoriale, la tua conoscenza, le tue opportunità?

DAVID: È quello che in inglese viene chiamato il “can do attitude”, cioè il desiderio di fare che si auto-avvera, dove non ti auto-imponi limiti, dove fai l’impossibile perché nessuno ti ha detto che non puoi o che non devi osare. E questo, secondo me, è la singola cosa più esaltante.

CRISTINA: Come sei entrato in contatto con la Singularity University e con Peter Diamandis e Ray Kurzweil?

DAVID: Ancora prima della nascita di Singularity University io ero parte di questo mondo che guarda il futuro come qualcosa che si può e che si deve capire, che non capita e basta, ma che puoi forgiare, influenzare. C’era un’organizzazione che si chiamava Singularity Institute for Artificial Intelligence che organizzava un evento chiamato Singularity Summit e, successivamente, Singularity University ha preso questi marchi e la gestione di questi eventi. Io ero parte anche di quella organizzazione e mi hanno invitato perché fossi parte del gruppo che ha disegnato Singularity University.

CRISTINA: Se tu dovessi illustrare il tuo tempo presente in una torta, come assegni, viste le tue molteplici attività, il tempo, l’attenzione, l’energia che ci dedichi?

DAVID: La torta è una buona analogia, perché anche se non mangio dolci, io vedo le torte e hanno molti piani. Le mie torte, sono tridimensionali. Non hanno un solo modo di essere tagliate e penso che sia importante per tutti rendersi conto che le leve che abbiamo a disposizione sono molto di più che non le ore che dedichiamo a qualcosa. I social network, se vogliamo banalizzare, ci danno una forza moltiplicatrice che permette alle idee e alle organizzazioni, quindi alle persone che fanno scaturire queste idee e organizzazioni, di viaggiare in modo precedentemente impensabile. Quello che poteva costare la fatica di anni o decenni di lavoro, oggi si può fare in pochi mesi. O quello che costava settimane di fatica, oggi si può fare in pochi minuti. Ed è in questo senso che le persone che hanno tante idee possono perseguirle e realizzarle utilizzando la tecnologia e la sua forza moltiplicatrice.

CRISTINA: E quali sono le idee più belle che hanno piantato un seme grazie ai social network nella tua attività dell’ultimo periodo?

DAVID: Network Society Ventures è in cima; il fondo di investimenti a cui sto lavorando, Network Society Research, è un fattore importantissimo; Singularity University, che è una mia affiliazione molto stimolante e con tante ramificazioni. E poi sono professore associato alla Luiss, sono speaker che viene chiamato sempre di più a conferenze per essere il keynote, quindi dare un’impronta, uno stimolo d’avvio ad una conferenza di diversi giorni e anche questo è per me stimolante e interessante.

CRISTINA: Tornando ai social network un momento: c’è qualche cosa che, grazie ad essi, si è esponenzialmente accelerato oppure si è manifestato con estrema facilità dandoti stimoli e informazioni?

DAVID: Network Society Research è un’organizzazione nata nei social network e che non potrebbe esistere senza di loro. Praticamente tutti i rappresentanti dei 35 paesi di Network Society Research si sono auto-selezionati. I nostri ambasciatori sono persone che si sono spontaneamente avvicinate a questo mondo e alle nostre idee, che dall’Etiopia a Taiwan, letteralmente mi hanno contattato per poterne far parte. E questo è stato possibile proprio per via dei social network.

CRISTINA: Come vedi lo sviluppo dei due rami della Network Society?

DAVID: Sia per quanto riguarda gli strumenti che portano emancipazione gli individui che imparano e fanno leva sulle tecnologie della Network Society, che per la capacità di individuare ed agire su opportunità di investimento di Network Society Ventures, hanno una dinamica che punta verso una automazione, una frequenza, una granularità fine e una copertura globale sempre più capillare. Negli anni è questo che vedo svilupparsi. Per ragioni legali di regolamentazione, il fondo di investimenti ha un orientamento particolare. Come questo potrà essere superato, eventualmente, nei prossimi anni, è esso stesso un interessante ambito su cui stiamo lavorando perché vediamo, sia da parte di Network Society Research che da parte di Network Society Ventures, l’evoluzione del policy making come un importantissimo elemento di una società dinamica che è capace di adattarsi. Oggi, troppo spesso un legislatore, un regolatore, pensa in modo lineare, pensa prendendo gli esempi dal passato e applicandoli al futuro dove non sono più attuali, mentre si stanno affermando strumenti che sono in grado di aiutare il dibattito, l’approvazione, l’implementazione, la misura e l’aggiornamento delle regole stesse del gioco, in una maniera sempre più snella e potente, rapida e adatta alle esigenze.

CRISTINA: Il tuo fondo sta già investendo?

DAVID: Il fondo non è ancora chiuso, quindi non sta ancora investendo. Abbiamo nella pipeline decine e decine di startup, alcune delle quali talmente di successo che non ci aspettano nemmeno, semplicemente trovano i capitali di cui hanno bisogno e vanno avanti per la loro strada, pur avendoli noi identificati e tenuti d’occhio.

CRISTINA: Quanto capitale avete l’obbiettivo di raccogliere?

DAVID: Cento milioni.

CRISTINA: Con quali criteri e metodi investirete?

DAVID: Abbiamo una piattaforma di gestione degli investimenti che è una vera e propria piattaforma software. Questa consente sia di fare un’identificazione proattiva che filtrare in modo rapido le opportunità. Il nostro obbiettivo è di mettere questa piattaforma in open source e creare un vero e proprio ecosistema di fondi di investimento e di soluzioni che collaborano per rendere sempre più affidabile il processo, migliorarlo, accelerarlo, renderlo snello. Questo farà poi parte delle attività a lungo termine di Network Society Ventures. La piattaforma, essendo open source, andrà evolvendosi. I contenuti inizialmente nostri, in futuro potranno essere arricchiti da contributi di altri che partecipano al progetto.

CRISTINA: Al congresso della Network Society, tra i vari progetti, mi è rimasto impresso Backfeed, che tu stai sviluppando insieme a Matan Field. Me lo delinei brevemente?

DAVID: Le tecnologie Blockchain che sono quelle sottostanti Bitcoin, promettono di rendere automatizzabili attraverso i cosiddetti “smart contract”, una serie di attività che prima erano manuali – accordi legali, notarili, gestione di proprietà. Una delle ambizioni è di poter quantificare e automatizzare la reputazione, che poi diventa leva di azione verso quello che una persona ambisce a fare e ne accelera il processo. E’ la reputazione di Richard Branson o di Elon Musk che fa si che quando annunciano un nuovo progetto, tutti ci credono, anche se è fantascientifico. Ossia, la reputazione sospende l’incredulità che, magari, si avrebbe nei confronti di qualcuno che non gode delle stesse credenziali. Ci sono diversi progetti, tra cui Backfeed, che hanno l’obiettivo di generare indici reputazionali. E’ una delle grandi promesse di Blockchain. Per capirne le le dimensioni e la potenzialità, Blockchain sta a Bitcoin come internet sta alle e-mail, cioè il primo è un sistema e il secondo una applicazione. Blockchain va molto oltre i pagamenti, e applicarlo agli smart contract, alla reputazione, è una delle direzioni importanti in cui andare.

CRISTINA: Come rispondi ai troppi scettici che, forse, non capendo bene il meccanismo del Bitcoin, ne diffidano?

DAVID: Chi ne diffida fa bene a non avvicinarsi. Ci sarà un momento in cui il rapporto costo-beneficio sarà diverso. Oggi, se qualcuno dicesse: “No, guarda, io non leggo e non scrivo”, risulterebbe ridicolo. Essere analfabeti oggi non può essere una scelta. Un genitore che proibisce i figli di andare a scuola è un criminale. Non è un gesto criminale invece dire: “Non uso internet. Non uso i computer. Non uso lo smartphone. Ho il mio vecchio telefono di bachelite e, se ho bisogno di cercare qualcuno, lo chiamo. Se no, prendo l’autobus e lo vado a trovare.” Gli amish, per esempio, fanno così, e alcuni li rispettano, altri li ridicolizzano. L’utilizzo di Bitcoin avrà questo tipo di evoluzione. Tra un po’ sarà ridicolo non volerlo neanche sperimentare, non sapere di cosa si tratta e in futuro sarà più difficile operare senza. Solo il fanatismo “religioso” di chi si fida solo delle vecchie, fidate soluzioni, avrà la forza sufficiente per frenarne l’uso. Invece chi è libero da preconcetti dirà: “Io mi trovo benissimo con i Bitcoin.”

CRISTINA: Come vengono creati i Bitcoin e come si valorizzano?

DAVID: La politica macroeconomica monetaria, nell’economia tradizionale, è regolata dalle banche centrali, che hanno un obiettivo principalmente inflazionario del 2%. Usano la leva dei tassi d’interesse per stimolare l’economia con il credito frazionario, l’emissione di buoni del tesoro e altri strumenti per immettere volumi di denaro nell’economia a seconda di quello che ritengono sia giusto, allargando o restringendo le fonti di denaro a livello centrale. La filosofia di Bitcoin è molto diversa. Ritiene che non ci sia bisogno di intervenire in modo attivo nella gestione dell’economia a livello centrale. C’è un algoritmo che, in modo impredicibile, produce 12,5 Bitcoin ogni 10 minuti. Fino a pochi mesi fa ne produceva il doppio, ossia 25 ogni 10 minuti. Questi vengono assegnati in modo praticamente casuale ai cosiddetti miner, quindi ai computer che partecipano alla rete che tesse la fiducia nel Bitcoin. Sono operazioni criptografiche che vengono eseguite e premiate dall’algoritmo stesso. Non si può predire chi riceverà il premio ed è per quello che ci sono dei miner, operatori che si associano in pool mettono a comune denominatore le proprie risorse, poi suddividono in proporzione il premio ricevuto. La quantità totale che entrerà in circolazione è fissata a 21milioni di Bitcoin e verrà raggiunta nel 2140, ma proprio perché si tratta di un progressivo dimezzamento, cioè di un esponenziale inverso, già nel 2030 saranno stati prodotti il 90% di Bitcoin che saranno mai in circolazione. Questo ha un effetto deflazionario, cioè, in una maniera quasi automatica, Bitcoin si apprezzerà rispetto ad altre unità di conto. Secondo molti economisti tradizionali, è una bestemmia perché vedono la deflazione degli anni Trenta come una spirale molto pericolosa. La differenza è che quella nasceva da una depressione della domanda, mentre la scarsità del mezzo di pagamento, quindi il suo apprezzarsi nei confronti dei beni ad esso associati, non vuole dire che tali ben varranno meno e che sarà minore il desiderio di averli. Cioè, se io oggi compro una casa con 100 Bitcoin e domani compro la stessa casa con 50 Bitcoin, non vuol dire che la casa vale meno, né che il mio desiderio di averla oggi diminuisce. Ho scritto un articolo che propone una lettura di come questo meccanismo renda Bitcoin ecologicamente più sostenibile, perché impedisce che spese futili vengano incentivate da profitti artificiali creati dall’inflazione dell’economia attuale. Se un centro commerciale non viene costruito perché uno preferisce tenersi i suoi Bitcoin, non è un problema, perché ce ne sono già abbastanza.

CRISTINA: Stai capitalizzando anche parte del Ventures in Bitcoin?

DAVID: Non solo in Bitcoin, ma anche in Ethereum, in The DAO, cioè in strumenti, organizzazioni e iniziative legate alla tecnologia blockchain che sono estremamente promettenti, anche se ancora agli inizi.

CRISTINA: Racconta del tuo chip. Io non conosco altre persone oltre a te che hanno il chip sotto pelle, come si vive con il portafoglio in corpo?

DAVID: Se tu sei in giro con il cellulare, arrivi da un amico e, guardandoti attorno, dici: “Sono un po’ giù con la batteria, ti dispiace se ricarico il cellulare?”, lui dirà: “Nessun problema”, e ti indicherà una presa di corrente. Il tuo presumere che ci sarà una presa di corrente è ragionevole. Nel mio caso, ancora manca l’infrastruttura nel mondo che supporti il chip. E’ come se tu andassi nel deserto col cellulare e cercassi una presa di corrente per ricaricarlo. Io non posso ancora interagire con l’ambiente, anche se potenzialmente potrei. Se la mia mano fosse attivata, potrei ad esempio pagare la metropolitana. Ho proposto al responsabile informatico del Comune di Milano, il chip information officer, di fare un esperimento. E’ tecnologicamente possibile. In Svezia ci sono già spazi di co-working impostati per aprire la porta, prenotare la sala riunioni, pagare il caffè, addebitare il costo giusto per le fotocopie, direttamente con il chip. Come dice William Gibson, il futuro è già qui, solo che non è ancora uniformemente distribuito. Cosa si può fare e dove dipende dalle società: se sono più orientate ad abbracciare e a sperimentare con il futuro, oppure timorose.

CRISTINA: Qual è l’impatto sul tuo pubblico dell’edizione digitale e di quella cartacea del tuo libro “Singolarità. Con che velocità arriverà il futuro”?

DAVID: Le statistiche sono molto interessanti, la prima tiratura cartacea è andata esaurita, adesso il libro è in ristampa e questo da soddisfazione sia a me che all’editore. Online si vede di più, è anche in inglese, si vede quanto vende e dove vende. Ricevo stimoli da persone in tutto il mondo. Prima di morire quest’anno, mi ha scritto Marvin Minsky, uno dei padri dell’intelligenza artificiale, per commentare il mio libro. E’ un po’ come se un cattolico ricevesse una lettera dal Papa. Quindi, avere il libro online è uno stimolo incredibile. Allo stesso tempo, quando parlo a conferenze, soprattutto aziendali, mi viene chiesto di avere copie cartacee da distribuire ai partecipanti perché è uno strumento di approfondimento utile.

CRISTINA: Il cambiamento in atto rende la certezza sempre più difficile. Tu come mantieni o come riorienti le tue certezze mantenendo sempre vivace, invece, il desiderio di porre domande o di lasciarti convincere da qualche cosa di nuovo che hai scoperto?

DAVID: Innanzitutto, mettendomi continuamente in discussione, mettendomi in gioco, dubitando della mia autorevolezza e prendendomi in giro, creando un disequilibrio che mi abitua alla fatica dell’adattamento. Perché lo ritengo necessario. In una ricerca costante di direzioni e approdi, se quando getti l’ancora, questa scivola, non fa presa, una certezza diventa incertezza, e si ritorna a cercare. Fa parte di una dinamica. Un po’ come il nostro camminare, un insieme di posizioni instabili che in sequenza ci consentono di farlo. L’instabilità delle mie posizioni crea una certezza che non è in una singola posizione, ma nella traiettoria.

CRISTINA: Dovessi chiederti una certezza e un’incertezza, quali sarebbero?

DAVID: Una certezza è che morirò e questo, nei miei circoli, è una posizione radicale, perché molti miei amici che si occupano di ricerche sulla estensione radicale della durata della vita, sono convinti che non moriranno. Io rispondo loro che è un passaggio necessario anche se avessimo una durata indefinita della vita. L’identità è definita dalla capacità di mantenerne i contorni, adattandoci progressivamente al nostro ambiente che cambia. I cambiamenti sul lungo termine possono essere arbitrariamente grandi, richiedendo quindi adattamenti altrettanto grandi. Arriverà quindi necessariamente nel futuro un momento in cui non potrò più identificarmi con il mio io di adesso. Potrò guardare indietro e stabilire un punto nel passato di cui potrò dire: “Ah, si. David lì è morto.” Perché in quel momento l’adattamento avrà raggiunto un punto estremo, oltre il quale è ragionevole chiamarmi un individuo nuovo, diverso. Se ci pensiamo, è un meccanismo simile a quello della speciazione, solo che agisce non sul livello delle specie, ma su quello dell’individuo. Questa dimensione è una delle cose che mi intrigano di più oggi.

Una delle condizioni per un’estensione radicale della vita è la capacità di effettuare delle copie di riserva del proprio stato di coscienza. Sommato alla possibilità di ripristinarlo, quando ce ne sia bisogno, per esempio a causa di un incidente, questo offre opportunità nuove. Perché i meccanismi non sono solo di una vita vissuta in serie come la conosciamo oggi, bensì vite vissute in parallelo, che oggi non abbiamo ancora sperimentato, e che non conosciamo. Il ripristino dell’individuo contemporaneamente in corpi biologici o meccanici multipli, darà luogo ad un modo di vivere del tutto nuovo, e ad una nuova percezione del ruolo dell’identità. Alcuni scrittori di fantascienza hanno cercato di analizzarli nelle loro conseguenze. Uno stimolo, sicuramente, molto particolare, ma che mi coinvolge.

CRISTINA: Un meta-sé che si identifica in tanti sé? O in Tutto?

DAVID: Per vite parallele intendo la possibilità di ampliare l’orizzonte delle esperienze fisiche che poi si possono sintetizzare in una nuova definizione dell’io. Che potrebbe decidere quali esperienze tenere e quali scartare, ottenendo una nuova identità. Così come oggi esploriamo le frontiere dell’autocoscienza per capire come mai pensiamo o siamo consapevoli di essere, in futuro ci potrebbe essere un nuovo fenomeno di coscienza. Evito di essere chiuso nella trappola di definizioni e parole, perché possono influenzare i significati.

CRISTINA: Facebook ha annunciato di aver cambiato gli algoritmi per rendere più rilevanti le comunicazioni tra amici e familiari. Tu questo come lo interpreti?

DAVID: E’ importante che, contrariamente a quello che succedeva prima, Facebook abbia illustrato le ragioni del cambiamento e i principi sottostanti il nuovo ordinamento, la nuova visualizzazione delle notizie. L’ecosistema delle notizie evolve e raggiunge nuovi equilibri, e le diverse parti hanno interesse ad adattarsi. La trasparenza e la accountability dei nostri algoritmi, nonché la loro ispezionabilità e interoperabilità, sono essenziali. Quando un sistema non è conforme a questi principi la nostra dipendenza nei loro confronti è pericolosa. Quando Uber, per esempio, dice a un autista: “Non puoi più guidare” è difficile che quell’autista riceva un’analisi e una giustificazione approfondita, a meno che non ci sia qualcosa di eclatante. Eppure l’algoritmo di Uber gestisce la vita e la capacità di guadagno di sempre più persone. In Europa e in Italia vige il principio che la responsabilità di dare le spiegazioni è dell’uomo, quindi se tu vai in banca e chiedi un mutuo o un prestito e questo ti viene negato dal consulente ma l’analisi della tua domanda è al 90% fatta da un computer.

CRISTINA: E l’Unione Europea esisterà ancora tra dieci anni?

DAVID: Si.

CRISTINA: Grazie. Vorrei salutarti leggendoti un passaggio da un articolo di Thomas Friedman che mi sembra un’ode a tutto quello che stai facendo. S’intitola: “You break it you own it”.

“The pace of change in technology, globalization, and climate have started to outrun the ability of our political systems to build the social, educational, community, workplace and political innovations needed for some systems to keep up. We have globalised trade and manufacturing, we have introduced robots and artificial intelligence systems, far faster than we have designed the social safety nets, trade surge protectors and educational advancement. Options will allow people caught in this transition to have the time, space and tools to thrive. It’s left a lot of people dizzy and dislocated.”

Imprenditori sociali a Bruxelles

By features

Come straordinario risultato del programma This Works – Ideas and Solutions for Employment & Recovery in Southern Europe – due idee innovative che ho visto svilupparsi ed espandersi nel corso del 2016 sono ora arrivate a Torino. Attila von Unrhu e Simon Rieser (per Sandra Schürmann) sono due imprenditori sociali tedeschi che grazie al supporto di Ashoka, la più grande rete di imprenditori sociali al mondo, sono riusciti a replicare i loro progetti oltre i confini nazionali. È stato un privilegio intraprendere una parte di cammino con loro, a partire dal workshop di storytelling in cui hanno affinato la loro capacità di raccontare il loro progetto ad audience diverse, passando per la preparazione del handbook che raccoglie le loro e altre 13 idee innovative per la ripresa nei paesi del sud Europa, e vederli avviare con successo nuove collaborazioni con partner, policy makers e finanziatori durante il This Works Summit di Bruxelles. È così che oggi il loro impatto sociale raggiunge anche Torino, dalla lotta alla disoccupazione giovanile attraverso l’utilizzo di tecniche teatrali – Job Act, al supporto offerto agli imprenditori in bancarotta – Team U. Per raggiungere il maggior numero di persone possibili Attila e Simon hanno “liberato” le loro idee in modo che altri le possano adattare e adottare. Un atto di generosità che consente alla buone soluzioni di espandersi nel mondo. Sintonizzatevi su quest’onda.

Paola Antonelli, Dal MoMA alla Casa Bianca

By features

È stato un onore sondare nella mente fervida ed elastica di Paola Antonelli, raccontare la sua bellissima traiettoria umana e professionale.

Ecco un profilo a tutto tondo della donna che  è stata ospite a La Casa Bianca da Barack e Michelle Obama con il Premier Matteo Renzi e una delegazione scelta per dialogare attorno alle soluzioni possibili per vincere sfide globali quali cambiamento climatico e migrazione.

L’INTERVISTA A PAOLA ANTONELLI SU THE GOOD LIFE ITALIA 

Tanti bimbi sognano di fare l’astronauta da grande, ma quanti scrivono alla NASA per chiedere come fare? A 13 anni, con la prima carie, Paola Antonelli sa che non potrà volare nello spazio. Alla sua lettera avevano risposto dicendo: continua a fare la brava, abbi cura di te, e soprattutto dei denti (le otturazioni del tempo rischiavano di esplodere con il cambio di pressione). Con i piedi per terra, e con la mente curiosa e aperta, varcherà terreni inesplorati. Figlia degli anni Settanta, anni di piombo e di appassionate battaglie, inquietudine e rabbia diventano stimoli intellettuali che plasmano il suo carattere. “Sto meglio quando ci sono problemi, quando c’è da protestare”, racconta. “Sento di avere una funzione.” Dietro al volto sorridente e lo sguardo svelto, arde un desiderio inestinguibile di rompere barriere, allargare confini e significati del design, mettere in relazione. Paola Antonelli, senior curator di Archtettura e Design e direttore di Ricerca e Sviluppo al MoMA – Museum of Modern Art di New York, sradica preconcetti e getta ponti tra i diversi saperi. Approdata 22 anni fa al prestigioso museo rispondendo a un annuncio, ama provocare con le mostre che cura nelle gallerie e online e con gli incontri che organizza invitando i più autorevoli esponenti dei diversi saperi a confrontarsi. Perché design non è più solo una bella sedia, è un crocevia in cui confluiscono tecnologia, economia, scienza e creatività.

Ci incontriamo a New York, la mia città natale, la sua adottiva. E’ domenica, io sto partendo e lei è appena arrivata da un tour europeo, a conclusione di un periodo sabbatico. Ultima tappa, Copenhagen, invitata da INDEX per il lancio del primo fondo al mondo di venture capital che investirà 40 milioni di Euro nel “design che migliora la vita delle persone”. La collaborazione tra INDEX, organizzazione che ispira, educa e coinvolge persone a disegnare soluzioni per le sfide globali, con la casa di investimenti Dansk OTC, è un passo importante. Paola Antonelli, con un intervento definito illuminante, illustra come il design stia creando valore nel mondo. E lo fa spiegando le nuove tassonometrie, ossia le classificazioni dei temi, non più per argomento, ma per oggetto, bisogno, o emozione. Una lettura trasversale attorno a esperienze quotidiane, dai problemi sociali, ambientali, politici e di salute che toccano tutti noi. “E’ una soddisfazione facilitare conversazioni tra persone con esperienze e punti di vista diversi”, racconta Paola con una punta d’orgoglio. “Basta avviare il processo poi il resto accade da solo.”
Prima della Scandinavia, è stata in Svizzera, a Davos, dove da 10 anni partecipa al Word Economic Forum come esperta di design e cultural leader: “Ci confrontiamo tutto l’anno, poi, durante l’evento si lavora sodo.” Il tema, la Quarta Rivoluzione Industriale, è pane per i suoi denti. “Quest’anno ho avuto 7 ruoli diversi. Ho parlato del bio-design, quello che usa materia organica per costruire spazi e oggetti, ho moderato una presentazione sulle tecnologie digitali per la preservazione e la disseminazione dell’arte e ho animato una cena sul futuro del cibo. A Davos sono un cervello da sfruttare e conosco sempre persone straordinarie.” La galleria di personaggi è fantastica, un mix di culture, di politici, magnati, artisti, scienziati. Conosce il suo mito Fabiola Giannotti, presidente del CERN, partecipa a interventi illuminanti, come quella di Jennifer Doudna, fondatrice di Krispr, sulle nuove prospettive di cura del cancro con le terapie geniche, prova esperienze trasformanti, come quella di Realtà Virtuale di Clouds Over Sidra, girato nel campo profughi di Za’atari in Giordania dove quasi 100.000 siriani soprattutto bambini, sognano di tornare a casa.
Il viaggio a ritroso nel periodo sabbatico di Paola ci porta a Harvard, dove il semestre scorso ha insegnato States of Design presso la Graduate School of Architecture, un’indagine sui nuovi significati, le confluenze, le ambiguità e le convergenze del design. “Alla fine del corso ho cercato di distillare il lavoro in una “teoria del tutto” per il design,” spiega Antonelli. “La chiave sta nella fluidità, nel non avere idee precostituite, bensì essere capaci di adattarsi alle circostanze. Con gli studenti sono maturati concetti e idee. Ora la sfida è di trasformarli in applicazioni pratiche.”
Antonelli frequenta designer, economisti, ricercatori e imprenditori, si ciba di conoscenza ai massimi livelli del sapere, elabora e porta tutto al nostro livello, al rapporto che abbiamo con le cose. E arriviamo al luglio 2015. MIT Media Lab (di cui è membro dell’advisory board ) la invita a progettare il primo summer summit. Lei struttura il suo seminario attorno a 4 oggetti, anziché per materia. La bistecca, il bitcoin, il mattone e il telefono diventano chiave d’indagine nel nostro tempo, toccando ogni aspetto dell’esperienza umana; Knotty Objects, oggetti annodati in un groviglio di significati. “Ho capito, facendo presentazioni sul design del futuro, che il modo migliore per diventare fluidi è di cambiare le tassonomie. Creare convergenze tra le cose, in orizzontale, non in verticale. Questo approccio sta crescendo anche in accademie e musei, quale il Science Gallery di Dublino, dove le sezioni espositive ed educative sono intersecate e raggruppate attorno a esperienze invece che epoche o specialità.”
Sempre più la tentacolare, Antonelli raduna persone di paesi e ambienti diversi, stupita ogni volta dalla magia che si crea. Alla domanda su quale impatto abbia avuto il suo seminario all’MIT racconta: “Hanno deciso di reclutare 3 persone che si occupino di design e sono stata invitata a parlare a tutti i presidi delle facoltà di MIT sull’importanza del design.” La sua voce è in levare, gli occhi brillano. Paola Antonelli apre sentieri, indaga. Segue con passione il lavoro della ricercatrice Neri Oxman, architetto. La sua intuizione è geniale: cooptare la natura per costruire. Nel Padiglione della Seta, per esempio, i bachi diventano operai, creando un bio feedback che consente al progetto di avanzare sia concettualmente sia costruttivamente.
Stravolgere le regole di forma e significati è una pratica che Antonelli allena al MoMA sin dagli inizi. Per la sua prima mostra, Mutant Materials in Contemporary Design, del 1995, vuole un sito web. “Nessuno sapeva cosa rispondermi, o chi dovesse autorizzarlo,” ricorda. “Mi diedero $340 che usai per andare alla School of Visual Arts dove imparai a scrivere codici. Il sito me lo sono fatto io.” Da quel seme nasce il primo sito del Museum of Modern Art.
La tempra forgiata dai passi laterali che Antonelli deve compiere per far avanzare le sue idee, la porta, nel 2005 a curare la prima grande mostra di design nel nuovo MoMA di Roshio Taniguchi: SAFE: design takes on risk. 300 prototipi e oggetti per proteggere il corpo e la mente in situazioni di emergenza, pericolose o stressanti. “Un design che va mano nella mano con i nostri bisogni, offrendo sicurezza senza sacrificare innovazione e invenzione”. Mine Cafron, la sfera antimina di bambù, abbastanza leggera per rotolare nel vento e abbastanza pesante per far esplodere le mine, è un pezzo icona per descrivere quel design in cui si fondono senso, equilibrio e bellezza.
Con Design and the Elastic Mind, nel 2008 Antonelli esplora la mutazione dell’oggetto e il cambiamento di comportamenti e bisogni umani causati dalle tecnologie.
Definita molto strana dal New York Times, la mostra crea stupore e disagio anche alla curatrice, quando Victimless Coat un piccolo cappotto confezionato in tempo reale da cellule staminali di topi, inizia a crescere esponenzialmente. Per evitare che si deformi, sono costretti a spegnere l’incubatrice in cui è esposto. In cui vive! Uccidere il cappotto cambia così il significato dell’opera. Anche le cellule possono essere vittime.
Per sottolineare quanto il design del XXI secolo si sviluppi sempre più attorno all’interazione tra noi e le cose, sia in forma materica, che subliminale e de-materializzata, Antonelli porta al MoMA Talk to Me: Design and the Communication between People and Objects (2011) “Comunico dunque sono è l’identità del nostro tempo e delle nostre cose, scrive nel compendio alla mostra, “Oggetti e sistemi, un tempo erano pregni di eleganza formale ed efficiente funzionalità, ora devono avere anche una personalità.” Ecco che design è anche messaggio, scritto, disegnato, multimediale e multiforme. Nel museo entrano processi e sistemi, come software, quali Pitch Initiatives, una piattaforma interattiva per raccogliere e mostrare il flusso di donazioni alla campagna di Barak Obama nel 2008. Questo potente esempio di communication design visualizza il fenomeno più sorprendente della campagna: il 90% dei contributi erano da piccoli donatori. Oppure Antiwargame, videogioco online dove, nel ruolo di Presidente degli Stati Uniti, devi combattere il terrorismo senza perdere popolarità. Il design è nel sistema di elaborazione dati, nel linguaggio, e nell’interazione coi nostri cervelli e i nostri valori.
Nella meravigliosa impalcatura mentale di Paola Anotnelli, ogni idea resta e si sviluppa nel tempo. Sarà pubblicato a breve un suo saggio Do Humans Dream of Robotic Seals? Gli umani sognano foche robotiche? La curiosità di indagare meglio la comunicazione uomo-oggetto la porta in Giappone (sempre durante il suo sabbatico!) da Maholo Uchida,curatrice del Miriakan, il museo nazionale di scienze nuove e innovazione a Tokyo. Due donne appassionate di tech e design, attraversano la Uncanny Valley quel campo in cui si studia l’interazione uomo-robot. L’attrazione diventa repulsione quando riconosciamo l’artificiale troppo simile a noi, ma ciò accade a livelli diversi, secondo le culture. Quella giapponese abbraccia più spontaneamente la robotica, mentre noi occidentali, scrive Antonelli nel saggio, “preferiamo interfacce funzionali e addomesticabili, che siamo certi, resteranno al loro posto. Vogliamo imparare da loro, ma vogliamo essere serviti.”
Il twitter name di Paola Antonelli è curiousoctopus, e non potrebbe essere più azzeccato. E’ proprio una piovra curiosa, e incuriosisce. Parlando del potere della bellezza, un segno di rispetto per l’essere umano e uno strumento efficace per comunicare e connettere le persone, fa l’esempio di Windmap, la mappa interattiva dei venti di Fernanda Viégas e Martin Wattenderg, pionieri della data visualization e analytics. Che tu abbia 3 o 85 anni capisci come girano i venti. E’ immediato e bellissimo da vedere.
Lo spazio in queste pagine non basta a racchiudere il vasto universo di Paola Antonelli, ma sul web potrete seguire il filo del suo ricco e stimolante discorso, dai Salons, a esperimenti curatoriali quali Design and Violence, mostra e simposio per aggiornare la nostra comprensione della violenza. Nell’anteprima della sua pagina Wikipedia leggiamo Lombard ancestry. Dunque finiamo a Milano, che si appresta a ospitare il Salone del Mobile (12-17 aprile). Anche qui, da sempre, lei è di casa.
“Doverebbe diventare la settimana del design. Il mobile, da solo, non ha abbastanza futuro. Vedo l’opportunità di creare un polo di comunicazione che ancora non esiste e che abbracci anche la città, non solo per esporre ma anche per progettare insieme. Sedie o mobili belli ne vedo pochi all’anno, mentre esempi di bio-design o commiunication design mi emozionano continuamente”, conclude.
Definita da Art Review una delle 100 persone più influenti nel mondo delle arti, c’è da darle retta. Anche perché crede nella Sesta Estinzione, ma merita elevare la reputazione dell’essere umano lasciando una buona impressione a chi arriverà dopo di noi.