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Gioacchino Acampora – “La mia bottega digitale”

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Come un’icona della carrozzeria italiana diventa capace di rivoluzionare un sistema produttivo e creare tutto: dall’automobile al tessuto e al cibo digitale. Per una nuova civiltà del fare, con il progetto al centro.

L’INTERVISTA A GIOACCHINO ACAMPORA SU THE GOOD LIFE ITALIA

Quando una vocazione si manifesta presto nella vita, quando sai cosa ti piace e il tuo talento si esprime già nell’infanzia, in un certo senso parti avvantaggiato. Navigare verso il successo, però, è un’altra storia. E’ un delicato equilibrio tra istinto e ragione. Tra casualità e progetto.
Gioacchino Acampora disegna automobili da quando sa tenere la matita in mano. E si fa subito notare. “Avrò avuto 3 anni. Ero all’asilo, e la maestra chiede alla classe di fare un disegno della propria famiglia. Ero appena stato in montagna con la nuova macchina del papà, così ci ho messi tutti a bordo. Risultato: Suor Adriana (ricorda pure il nome!ndr) mi mette in castigo. Faccia al muro, dietro alla lavagna.”

Se, sulle prime sorge il dubbio che il vivido ricordo sia condito di fantasia, quando arriva la punizione – la suora voleva il classico quadretto familiare in cui si tengono tutti per mano – capisco che la storia è vera. Grazie alla neuroscienza e alla psicologia sappiamo che le emozioni forti sono il collante della memoria e che i rifiuti coltivano resilienza.
“Ricordo tutto di quella macchina. Il tetto in vinile nero, la carrozzeria color tabacco, i fanali grossi, gli interni in legno.” Il castigo fa si che Gioacchino si ostini a disegnare sempre più auto. E per farlo le deve frequentare, guardare, studiarne i dettagli, accarezzarle, annusarle. E’ l’inizio di un amore. Oggi, con la Carrozzeria Castagna, Acampora realizza auto personalizzate mettendo a frutto il talento secolare dei suoi bottegai e digitalizzando la filiera, dalla progettazione alla produzione. Perché la manodopera d’eccellenza è in via di estinzione. Non ci sono più giovani da formare. Se da ragazzo lui non avesse conosciuto i migliori ingegneri e designer che hanno fatto la storia dell’auto, non saprebbe quanto bagaglio umano rischia di essere perso. “Quando ho scoperto il francobollo”, racconta Acampora, “ho iniziato a scrivere a tutti: Quattroruote, Gente Motori al signor Giugiaro e il signor Pininfarina. Erano lettere di un ragazzino a modo che voleva sapere tutto delle macchine. Ammetto che volevo anche mostrare loro i miei disegni. Ero appassionato, così i miei miti hanno esaudito i miei desideri e mi hanno invitato da loro.” E’ in prima superiore quando inizia a esplorare il mondo fuori dalle aule scolastiche.

“Tra le mie esperienze, sono stato alla Burago, a fare modellini. Lì potevo vedere i nuovi modelli con grande anticipo, perché le case produttrici le mandavano a riprodurre. Usavano fare il rilievo a mano col centimetro e scalarlo fino a ottenerne una miniatura. Ci mettevano mesi. Io, a scuola, avevo imparato a modellare in 3D e disegnavo con il “piano di forma”, gli stessi strumenti delle case automobilistiche. Rivoluzionai il loro sistema di riproduzione arrivando in poche settimane al risultato finale.”
Acampora diventa uno dei primi modellatori digitali in Italia e s’impratichisce di strumenti nascenti che oggi sono la chiave del suo successo.
“Sono 20 anni che parliamo di salvare l’artigianato e nel frattempo i più bravi sono quasi tutti morti. La digitalizzazione mi consente di trasferire al computer il know how maturato in 300 anni e di invertire il paradigma produttivo. Con i macchinari digitali puoi fare tutto, dal mobile all’auto, il tessuto e la bicicletta, la scarpa o la pastasciutta. Molto disruptive, come si dice adesso. Ma se manca il progetto, è solo tecnologia.”

Nel 2015, insieme allo chef Eugenio Boer, Acampora, mette alla prova la stampante 3D che ha costruito per preparare un pasto: uno spaghetto al pomodoro in omaggio al papà napoletano, un risotto giallo dedicato alla mamma milanese e un panettone, la sua grande passione. Piatti perfettamente cotti, pieni di benessere che vanno oltre l’aspetto, la forma. Al contempo, per non tradire il “core business”, l’eclettico imprenditore partorisce una nuova famiglia di auto elettriche, le C_Car configurabili con una App e adattabili a diversi utenti – dal figlio adolescente, alla mamma in città e il guidatore prestante. C_Product, una gamma composta da una bici, una lampada, mobili e dalla C_Car, è stata selezionata per il prossimo Compasso d’Oro ed è appena stata presentata alla Borsa di Milano come proposta di modello produttivo capace di rifondare il significato del Made in Italy.

Occorre una Brand Identity che torni a parlare di processo, di design sistemico, e non solo di prodotto. Un insieme che Acampora impara al Politecnico di Milano, dove si laurea in Architettura nel ’96, dopo varie peripezie. “Volevo fare una tesi sul corporate design, seguire l’esempio di architetti e designer che rivoluzionavano le aziende a partire dal prodotto. Penso a Peter Behrens con AEG, al suo allievo Walter Gropius che disegnò le Adler, Dieter Rams i cui prodotti per la Braun ispirano oggi quelli di Apple, al nostro Giò Ponti. Ma il corporate design era visto come la grafica coordinata per i bigliettini da visita. Nessuno mi capiva, così decisi di mettere a frutto le mie passioni. Avevo imparato a disegnare le mie idee, conosciuto persone capaci di dare loro corpo e forma, così pensai: faccio un’automobile. Scelsi di dedicare la mia tesi a loro e al mio marchio preferito: Maserati. Il risultato fu Auge, una supercoupé con il nome del vento che soffia in Costa Azzurra, un auspicio che il Tridente tornasse “in auge”, un “occhio” in tedesco, speranza che qualcuno me lo strizzasse. Mi sono presentato il giorno della tesi con un’automobile funzionante. E mi sono laureato.”

L’architetto Acampora progetta la sua casa di Milano e sperimenta con materiali tattili e intelligenti, quali il biossido di titanio che rilascia ozono. E rifonda Castagna, il più importante “carrozzaio” nell’Ottocento e la prima carrozzeria del Novecento, dove, nel 1913, nasce l’auto moderna. E’ lì, in via Montevideo 19, che l’ingegnere tedesco O. Bergmann, pioniere dell’aerodinamica in campo automobilistico, trova le competenze per realizzare un prototipo a forma di siluro, ed è lì che il facoltoso Conte Ricotti cerca un regalo per fare colpo sulla donna amata e commissiona quell’auto diversa da tutte le altre. Dalla metà degli Anni Sessanta, l’auto è solo più di serie. I carrozzieri fanno soprattutto riparazioni e i giorni gloriosi sono un ricordo. Quando Acampora prende in mano Castagna, era ancora viva la genìa del talento ma mancava la domanda di auto personalizzate: i costi erano troppo elevati per i privati. Approfondisce i temi della tesi e re-inventa un processo per tornare a disegnare e produrre auto su misura: MINI e 500 diventano tender, giardinetta o limousine che piacciono in tutto il mondo. La nuova C_Car è elettrica e non servono stampi per produrla. Ha la carrozzeria in DIBOND, materiale duttile e resistente usato in architettura per rivestire le facciate continue degli edifici. E le parti conformate sono prodotte con stampanti 3D. Oggi la sua bottega ha un’infrastruttura essenziale e può fare tutto in casa. Anche in questo il digitale aiuta: con le stesse persone di un tempo si possono costruire sino a 40 vetture l’anno e altri oggetti della grande famiglia Castagna. Prossimo progetto è fondare una scuola, per insegnare a fare bottega. Quest’estate Acampora ospiterà una studentessa che vuole imparare a stampare un tessuto. Lui ha l’esperienza con le finte pelli in poliuterano, che al tatto sembrano vitellino.

“Digitalizzando il processo, mi avvicino al linguaggio dei ragazzi, ma voglio insegnare loro anche a usare lo straccio e la scopa. In officina passiamo più tempo a pulire che a costruire, perché non puoi mettere un’idea su un altare, crearne la liturgia, se il marmo non è pulito. E’ il rito del rispetto, unito alla conoscenza. Anche ai ragazzi reduci dai Master mancano sovente le basi. Recentemente con studenti al corso di Transportation Design ho scoperto che non sapevano chi fosse Le Corbusier, padre nobile dell’architettura e padre della Voiture Minimum (1928), riesumata dopo la guerra e diventata la 2 Cv di Citroen! Questa è storia. Se non sai come nasce l’identità di un prodotto, non puoi pensare di innovarlo. Il salto di paradigma è comprendere che il progetto del prodotto, oggi, è anche il progetto del tutto. Tesla ha inventato l’auto elettrica, ma senza la fabbrica delle batterie, non sarebbe andata lontano. Come fu per AEG, Braun, com’è oggi per la Carrozzeria Castagna.”

Angelica Hicks, potere all’ironia

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Giovane, scanzonata, senza timori reverenziali, con il suo segno grafico naïf e i suoi arguti giochi di parole ha osato fare il verso al fashion system e ai vizi della pop culture. Il suo stile conquista.

L’INTERVISTA AD ANGELICA HICKS SU THE GOOD LIFE ITALIA

Sottile e pungente, ma anche poetica o sfacciata, Angelica Hicks usa uno spiccato umorismo britannico per dare sprint al suo tratto felice. È Instagram a creare la cornice ideale per il suo connubio tra parole e immagini, e dal gennaio 2015, quando inizia a postare disegni, parte la sua ascesa. Oggi è seguita da 51.300 persone e si è costruita una solida reputazione di commentatrice sociale. La maggior parte dei post sono sul mondo della moda del quale sa cogliere un bisogno di leggerezza. Hicks debutta in chiave un po’ dark: Darth Jacobs gioca sul nome Mark Jacobs, e la giovane penna lo associa alla figura oscura di Guerre Stellari, Darth Vader, perché lo stilista americano aveva aperto il suo profilo Instagram raggiungendo 20.000 seguaci senza postare nemmeno un’immagine. O Helle Magazine che suona come la celebre testata, ma con l’H diventa metafora dell’inferno che può essere il fashion system. “Era un modo per rispondere ai tipici commenti dei miei coetanei che dicevano: “la moda è sfigata!”, racconta via FaceTime dall’appartamento a New York che condivide con un’amica. “Erano i tipi trendy di Londra e anche se c’era un che di vero, pure loro curavano molto il look! Così m’è venuta voglia di fargli un po’ il verso, cogliere le ironie. La moda non riguarda solo i modaioli. High Street diventa cultura popolare dal momento che gli stili vengono subito copiati e massificati. Osando un po’, ho capito che nel mondo della moda piace ridere.”
Donut-Ella Versace ritrae la stilista in una ciambella, caPUCCIno ha la tazza decorata con l’inconfondibile pattern del marchio fiorentino, l’iconica direttrice di Vogue America è banANNA Wintour. Ogni giorno la fantasia di Angelica dialoga con la realtà.

Londra sta stretta all’illustratrice ventiquattrenne che ora osa definirsi anche artista. E lo fa dopo aver varcato l’oceano, in cerca di libertà. I successi legati al suo cognome – padre Ashley architetto e cugino del Principe Carlo d’Inghilterra, madre Allegra designer, zia India modella e imprenditrice, e alle sue nobili discendenze –Lord Mountbatten, ammiraglio e uomo di Stato Britannico, era suo bisnonno – “non fanno parte della mia narrativa”, dichiara Angelica con voce ferma.

Lei preferisce misurarsi con le sfide di una ragazza che vuole fare strada sulle proprie gambe. Tenta di mettere a frutto le sue idee ancora studente a UCL (University College London) facendo Tshirt serigrafate che vende al mercato di Portobello, poi le fotografa e le posta online. “Mi piaceva, ma il processo era lungo e alla fine mi costava invece che farmi guadagnare. Con i disegni è stato tutto più facile e immediato. Sono stata fortunata a trovare un’agente e ora sono freelance.” Il timbro della sua giovane voce ha la determinazione di chi si dà da fare e non senza fatiche. Ha dipinto murales per Gucci, Unilever, Bumble (una app per single), collabora con diverse testate e, misura della sua ascesa, ha contratti coperti dal segreto dei NDA (non disclosure agreements). Aumentando le responsabilità, aumenta anche la sua disciplina. Lavora al disegno del giorno la mattina presto, dopo aver dato un occhio alle notizie. E i suoi commenti hanno connotazioni sempre più sociali. Tempo fa aveva fatto il verso alla campagna contro la censura di Instagram #Free The Nipple (libera il capezzolo) con FridaNipple, e recentemente ha dovuto diffidare chi vendeva magliette stampate con il suo disegno scaricato da internet. “Non vendo i disegni e non saprei nemmeno come deciderne il prezzo!”, racconta mentre mi mostra lo scaffale zeppo di fogli disegnati a matita e dipinti a mano.
Frida Khalo diventa protagonista inattesa di diverse circostanze. Angelica usa quell’immagine su un mobile vintage di Kartell, (un invito rivolto a lei a ad altri giovani artisti) e tra i commenti trova una richiesta di sostegno per le vittime del terremoto in Messico. “Io cerco di aiutare, ma è difficile. Non guadagno ancora abbastanza per destinare fondi alle cause in cui credo!” Se l’invito è un riconoscimento, il plagio è un’offesa. Un’azienda fa una brutta copia dell’iconica immagine per decorare tazze e custodie per iPhone. Angelica denuncia, postando gli oggetti con questo testo:
“posso copiare il tuo compito?”
“si, cambialo solo un po’ così non si capisce che hai copiato.”
“ok”
E affonda, svelando l’ironia del marchio Brave New Look. (nuovo look coraggioso)

La giovane influencer stuzzica non solo l’umorismo ma il pensiero. Construct My Gender, sulla libertà di genere, è accompagnato da una frase di Simone de Beauvoir: Donne non si nasce, si diventa. E subito una follower le suggerisce di usare l’immagine per attirare fondi per l’educazione nelle scuole concludendo: “Supereresti le più rosee aspettative!”.
La traiettoria di Angelica dimostra che quando un talento viene riconosciuto, fiorisce.

Per la morte dell’editore di Playboy, Hugh Hefner, ha un colpo di genio. Semplicemente, toglie la P. Layboy la dice tutta – lay – riposa, ma anche, in gergo, andare a letto con.

Ed è sempre una lettera a fare la differenza tra Macaron e Macron. Harvey Weinstein, il produttore di Hollywood caduto in disgrazia, diventa Swine-stein. Swine significa suino. Trump finisce sotto le ascelle. Che in inglese si chiamano arm pits. Ma pit è anche la fossa. Il detto è subito chiaro.
Ed è chiaro che Angelica ha molto da dire.

Nadia Pinardi, la signora delle correnti marine

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Seppure siano ancora poche le donne che occupano ruoli chiave nella ricerca, le bolognesi sono pioniere. Da Laura Maria Caterina Bassi, prima scienziata ad avere una cattedra universitaria nel 1732, all’oceanografa Nadia Pinardi, che nello stesso ateneo felsineo svolge un lavoro di rilevanza strategica per comprendere i cambiamenti climatici. E non solo.

L’INTERVISTA A NADIA PINARDI SU THE GOOD LIFE ITALIA

Questa è una storia d’amore. Per la scienza, per un uomo, per il mare. È una storia di unioni tra persone, menti e discipline. Siamo alla fine degli anni Settanta quelli della crescita esponenziale della meccanica quantistica della fisica delle particelle e dei primi grandi esperimenti al Cern. Nadia Pinardi studia fisica all Università di Bologna Con Antonio Navarra e altri studenti crea un gruppo di lavoro per scoprire l’affascinante mondo dei principi primi della materia. Antonio è un “mostro” di bravura e i due hanno molto in comune. Entrambi trovano nelle scienze della Terra quella combinazione ideale tra la fisica classica e quella più avanzata. Il loro cammino di studi però si divide. Lui cambia corso e parte per la Princeton University. Diventa climatologo e studia il sistema atmosfera oceano e il cambiamento climatico globale. Pinardi completa la sua tesi sulla fisica delle particelle e si laurea cum laude ma non è soddisfatta. Incontra un suo vecchio professore e conversando con lui emerge lopportunità di lavorare con un gruppo di meteorologi e oceanografi che si è appena costituito a Colonia. Opportunità che la porta a conoscere Allan Robinson, celebrità della fluidodinamica geofisica e docente ad Harvard. È un pioniere dello sviluppo dei modelli delle dinamiche oceaniche. Così Pinardi parte per Boston dove consegue un dottorato in Scienze applicate. Oggi insegna Fisica dell’atmosfera e Oceanografia all Università di Bologna e collabora con le più importanti istituzioni del mondo. «Ancora oggi, in Italia, le discipline dell’atmosfera e dell’oceano sono relegate a scienze minori all’interno dei dipartimenti di Fisica, Ingegneria, Chimica o Scienze ambientali» racconta Pinardi sconfortata «Non hanno, come in molti Paesi, dipartimenti propri».

Pioniera delle previsioni oceaniche

L’esperienza americana allarga gli orizzonti di Nadia e di Antonio. Il loro legame diventa indissolubile anche fuori dal lavoro. Si sposano e hanno un figlio ed è grazie al marito che lei trova l’equilibrio tra il suo ruolo di madre e il percorso accademico. «È un compagno eccezionale ed è napoletano, che secondo me è il mas- simo». Stanno insieme da 40 anni e sono sposati da 31. Il figlio eredita il gene della fisica ed emula il percorso dei genitori, laureato in Fisica teorica è da poco partito per il Georgia Tech dove ha vinto una borsa di studio per un dottorato in Computer and Climate Science. Anche lui vuole avere un impatto sulla realtà. Pinardi è moglie e madre fiera e la sua missione è di unire i saperi. Le motivazioni con cui l’Università di Liegi le ha assegnato una laurea honoris causa lo scorso marzo riassumono bene il valore di un curriculum vitae lungo pagine e con centinaia di pubblicazioni. «Per i progressi della conoscenza scientifica nell’ambito delle previsioni del mare, l’applicazione di risultati scientifici ad ambiti ambientali e socioeconomici, la capacità di attrarre fondi verso la ricerca scientifica, l ‘energia e il dinamismo unici nel coinvolgere giovani studenti in progetti europei e internazionali per la ricerca avanzata». Il prestigioso ateneo belga che negli anni ha premiato Winston Churchill e Nelson Mandela conclude «Se chiedete a un oceanografo chi più di tutti abbia contribuito a dar forma al panorama europeo delle previsioni oceaniche probabilmente la risposta sarà Nadia Pinardi.»

Sempre sul campo

«Chi lavora nei laboratori e non va sul campo non capisce quanto sia difficile il mestiere dello scienziato che studia la natura e le sue componenti» spiega. Noi le verifiche delle teorie le abbiamo tutti i giorni. Quotidianamente confrontiamo i dati reali rilevati dai satelliti con quelli dei nostri modelli matematici. C’è una continua validazione dei dati teorici, come in nessun’altra scienza». Per capire meglio come si svolge il lavoro all’interno del suo dipartimento Pinardi racconta: «Il mare è difficile da scrutare. I satelliti rilevano dati sulla superficie ma sotto è diverso. Usiamo tecniche avanzatissime di robotica per poterlo campionare a 4.000 metri di profondità. L’Italia ha contribuito a costruire il sistema Copernicus per il monitoraggio dell’ambiente, che unisce dati marini e terrestri ricevuti da satellite. Io ogni giorno consulto la parte marina di Copernicus e posso vedere il livello del mare in diversi punti del Mediterraneo, la temperatura in superfiicie e la quantità di clorofilla. Poi raccolgo i dati delle boe Argo, sonde robotizzate sottomarine che stanno a una determinata profondità per 5-10 giorni e vanno alla deriva con le correnti misurando parametri quali temperatura e trasparenza dell’acqua. Questo consente di mettere in relazione ciò che si vede dal satellite con quello che avviene sotto la superficie del mare. Quindi prendo informazioni dal glider, un aliante comandato a distanza che vola su rotte prefissate raccogliendo dati. Può per esempio essere indirizzato verso una parte di mare dove ci sono emergenze o fioriture di alghe. In fine prendo tutti questi dati e li passo a un gruppo di ricercatori che ho contribuito a organizzare presso il Centro Euromediterraneo sui Cambiamenti Climatici (CMCC), che li analizza in tempo reale. Abbiamo creato un sistema per mettere in relazione i dati con i modelli e, grazie a questo confronto, correggere i modelli per migliorare le previsioni. Per essere efficaci occorre un enorme network internazionale: tanti satelliti, tante boe in tutte le parti del mondo Il mare è un fluido interconnesso, tutte le parti interagiscono tra di loro».

Il CMCC è diretto dal marito di Nadia. Insieme stanno portando l’Italia a livelli europei collaborando con il mondo intero. Le ricadute pratiche sono tante come spiega la scienziata: «Usiamo i nostri modelli previsionali quando c’è uno sversamento di petrolio, per capire dove è più probabile che si sposti nei giorni successivi all’incidente, in modo da piazzare le panne che assorbono gli idrocarburi e prevenire impatti devastanti sulle coste. Lo facciamo da oltre un decennio ed è molto più complicato di quanto sembri, perché una macchia di petrolio in mezzo al mare può teoricamente espandersi a gradi. Le informazioni che forniamo consentono un grande risparmio di risorse e una maggiore efficienza Sempre dal punto di vista ambientale, sviluppiamo modelli previsionali che indicano la presenza di alghe, per esempio quelle pericolose per la salute umana. In Italia siamo particolarmente avanzati in questo. Il nostro prossimo passo è applicare tali modelli allo studio della maricoltura off-shore: enormi gabbie in mare aperto dove il pesce è libero di muoversi e non è intrappolato, come accade negli allevamenti ittici costieri. Il Mediterraneo è molto profondo, specie nel Tirreno e nello Ionio già a chilometri dalla costa, ma bisogna convertire parte del lavoro della pesca alla maricoltura, e questo è un problema».

Il racconto di Nadia Pinardi è fluido e interconnesso come il mare che studia. Prevedere onde e correnti può ridurre il consumo di carburante delle navi e sempre in campo energetico contribuire allo sfruttamento di energie rinnovabili, quali le correnti marine o il moto ondoso. L’ultima frontiera della ricerca riguarda l’estrazione di minerali «Il fondale dell’oceano è ricco di minerali importantissimi per lo sviluppo dei computer. Le risorse terrestri sono pressoché esaurite, ma per andare a vedere cosa c’è sotto il mare bisogna conoscere le correnti in profondità, che sono fortissime. L’umanità per progredire ha bisogno di quelle risorse, ma dobbiamo gestire la loro ricerca in maniera corretta. Le nostre previsioni forniscono informazioni per ottenere risultati accettabili in relazione allo sforzo richiesto».

Il grande gigante gentile

Nell unire tecnologie e saperi non poteva mancare l’intelligenza artificiale applicata ai nuovi sistemi di osservazione satellitari della Terra e degli oceani «Sto seguendo il lavoro che si svolge a Boulder, in Colorado, dove c’è il più grande centro di studi meteorologici oceanografici americano, ho parlato con loro delle possibilità in questo settore». Le esperienze ad Harvard e a Princeton uniscono Nadia Pinardi e Antonio Navarra alla comunità americana che studia il clima della Terra anche per ciò che concerne le previsioni di eventi estremi come l’uragano Harvey che si è abbattuto sul Texas lo scorso agosto «Esiste un programma con il quale collaboriamo, allo Stevens Institute of Technology, nel New Jersey che si chiama Urban Oceanography. Da parecchi anni i nostri modelli sono in grado di prevedere con un anticipo di ore le inondazioni dovute a eventi meteorologici estremi, ma non sono molto usati. La ricerca è accurata. Adesso sono la società civile l’industria privata, i governi che la devono adottare».

Nadia Pinardi si muove sull’onda di un altro bolognese oggi semidimenticato, il conte Luigi Ferdinando Marsili ingegnere militare e scienziato vissuto a cavallo fra Sei e Settecento. Fu lui a comprendere che l’oceano ha due correnti, una in profondità che va in una direzione e una in superficie che va in quella opposta. Pinardi lo chiama il serpentone che si muove nel grande gigante gentile. Perché l’oceano è uno ed è tutto collegato. E a lui siamo indissolubilmente collegati anche noi.

Maria Grazia Mattei

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Ha intuito subito, tra i primi in Italia, l’impatto che avrebbe avuto il digitale. E subito si è messa in pole position: 12 anni fa ha dato vita a Meet the Media Guru, una serie di incontri, a Milano, con i protagonisti della rivoluzione digitale.

L’INTERVISTA A MARIA GRAZIA MATTEI SU THE GOOD LIFE ITALIA

The Good Life: Quale intuizione l’ha portata in prima linea?

Maria Grazia Mattei: Il mio ruolo è sempre stato quello…

TGL: …della miccia?

M.G.M.: Che bella definizione! Si. Quando ho sentito parlare per la prima volta di Facebook a Toronto nel 2004 ho capito che stava per accadere qualcosa di rivoluzionario. Nel 2005 ho pensato di cogliere questa trasformazione. Non con l’ennesimo convegno, ma in modalità 2.0. Ho creato un appuntamento culturale, trasversale, rivolto al grande pubblico, per indagare e stimolare i cambiamenti culturali e sociali di cui avevo intuito il potenziale negli Anni 80. Da una partecipazione iniziale di 2.000 persone, siamo arrivati a 60.000 senza budget per la pubblicità.

TGL: Qualche esperimento particolarmente riuscito?

M.G.M.: Nel 2005 nessuno faceva eventi dal vivo collegati online. Quando abbiamo lanciato il format di MtMG, abbiamo “abbattuto” le pareti delle sale che ci ospitavano. Con il livestream Mogulus facevamo una semplice regia video online, in bassa definizione. Man Mano ci siamo evoluti. Non c’era Twitter, avevo dei Blackberry che davo ai giornalisti e al pubblico invitandoli a mandare messaggi in diretta mentre seguivano l’evento… Ora stiamo indagando la contaminazione tra mondo reale e digitale, dall’infografica alla realtà virtuale e aumentata, per abbinare conversazione, narrazione e pratica.

TGL: In che modo il vostro lavoro contribuisce a far diventare Milano più smart?

M.G.M.: Abbattiamo i confini. nel 2005 faticavo a convincere i personaggi che invitavo a venire fino a Milano. MtMG ha contribuito a rendere la città meno provinciale, mettendo i milanesi a confronto con il pensiero e le pratiche internazionali, aprendo le menti oltre gli schemi abitudinari per percorrere nuove traiettorie.

TGL: Come vede la smart Milano futura?

M.G.M.: Una città dove la pubblica amministrazione offra i mezzi e le opportunità ai cittadini per vivere in maniera semplificata. C’è tanto da fare. Un città smart non ostenta la tecnologia, bensì lavora affinché i cittadini siano smart. Milano ha bisogno di accelerare la digital literacy. Da parte nostra stiamo creando uno spazio di interscambio dove, in maniera continuativa, i cittadini possano trovare gli strumenti per orientarsi nel mondo digitale: ci affiancheremo ad altre realtà per creare laboratori, workshop, mostre.

Marva Griffin – SaloneSatellite Award 2017

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In occasione dei 20 anni del SaloneSatellite, condivido con grande piacere la storia della sua ideatrice e curatrice Marva Griffin che ho raccolto per The Good Life Italia. E ringrazio Marva per avermi voluta nella giuria del SaloneSatellite Award 2017. Presieduta con la sua consueta visione e tenacia da Paola Antonelli, insieme al critico Marcelo Lima, gli imprenditori Alessandro Sarfatti, Franco Caimi, Giuseppe Pedrali e Nick Vinson di Wallpaper, abbiamo valutato i 108 progetti candidati, ci siamo confrontati e abbiamo votato i 4 vincitori. Il taiwanese Pistacchi design per Comma Stool, una seduta pubblica in pietra e resina, una forma organica e accogliente per una breve sosta. Il cinese Edmond Wong con X Bench, una panca che si trasforma in attrezzo fitness, lineare e utile in una casa piccola. La russa Tanya Repina con Ëo, un pannello fonoassorbente e aromatico in aghi d’abete, materiale interessante e di riciclo. Il premio Intesa Sanpaolo è andato al belga Laurent Verly per O-Line, una lampada sinuosa che prende diverse forme. Verly trasforma un materiale solitamente usato in edilizia in un arredo.

L’INTERVISTA A MARVA GRIFFIN SU THE GOOD LIFE ITALIA

“Milano è il posto che fa per te.” Marva Griffin ha da poco finito gli studi all’Università per stranieri di Perugia e si appresta a cercare lavoro. Poco più che ventenne, venezuelana, madre del piccolo Gustavo, sa che vuole restare in Italia, ha una passione per il design, è attratta dalla bellezza del nostro paese e dalla sonorità della lingua. Secondo l’amica, le occasioni giuste per lei sono nella metropoli lombarda. Incontro la creatrice e curatrice del SaloneSatellite, il padiglione del Salone Internazionale del Mobile di Milano dedicato ai giovani, nel suo piccolo ufficio in Foro Bonaparte. Circondata da pile ordinate di libri carte e riviste, sa subito dove mettere le mani per mostrarmi una foto, un articolo o una lettera. È il ventesimo anniversario della sua creatura, ma aver avviato al successo migliaia di designer non è un traguardo bensì uno stimolo a continuare la sua ricerca di talenti in erba. Ed è occasione, per noi, di percorrere le tappe di un appassionante cammino.

Marva Griffin Wilshire nasce a El Callao, Venezuela, in una grande famiglia. Il carattere solare e la forte tempra sono forgiati da un’infanzia allegra ma anche dalla precoce indipendenza, conquistata in collegio dove viene mandata ancora bambina. “Guarda che è solo qui in Italia che il collegio è considerato una punizione. Nel mio paese è normale mandarvi i figli ancora piccoli”, puntualizza con tono forte e chiaro. Lascia il suo paese nel 1968, madre del piccolo Gustavo. Destinazione, Perugia. Le chiedo se era ribelle. “Ribelle? Sgrana gli occhi, fa una pausa, poi, “No, non m’interessava quel modo di vivere”, come dire, Hippy io? Ma no. Il senso di responsabilità verso un figlio da crescere e una vita tutta da costruire non si concilia con la contestazione. Affronta la vita a testa alta, pronta a mettersi alla prova. Nel 1971 arriva a Milano, ed è ancora un’amica a segnalarle due annunci classificati sul Corriere della Sera. Uno è di Cathay Pacific che sta aprendo il mercato italiano, l’altro è di C&B, il già celebre mobilificio di Cantù. Risponde a entrambi, dal primo ha subito un’offerta, ma la seconda posizione, come assistente della Direzione per viaggi e comunicazione, le interessa di più. Conosce la reputazione dell’azienda ma non capisce perché, dopo il primo colloquio, le chiedono di tornare altre tre volte. Si sente avvilita da domande che ritiene inopportune. Così, quando la cercano presso l’amica di cui aveva lasciato il recapito (quanto era tutto più complicato prima della telefonia mobile!), questa risponde: “Marva non c’è ma le dico già che è molto seccata e non vuole venire da voi.” “Dica alla Griffin che è stata selezionata tra più di 100 candidati!”, esclama il chiamante. Spavalderie di altri tempi. “Avevano fatto di tutto per mettermi in crisi”, ricorda Marva, “cercavano di spiazzarmi con domande tranello per vedere come reagivo. Tante donne si erano candidate, attratte dall’idea di viaggiare. Poi non avevo capito quanto la C&B fosse conosciuta nel mondo”, racconta con candore. “Tobia Scarpa aveva appena fatto Coronado, il divano di cui parlavano tutti.”

A Cantù, il primo giorno di lavoro, l’accoglie il direttore del personale scusandosi: “Sa, avrà a che fare con personaggi molto particolari.” E la accompagna in un salottino. Quando entra l’uomo barbuto, vestito di bianco, lei non sa che è Piero Busnelli. Che si presenta e la porta subito nel suo ufficio. “La sua scrivania è qui”, e indica il tavolo davanti al suo. Un attimo dopo entra Cesare Cassina, e dice: “mi siedo volentieri vicino a questa bella tusa”. Alla fine del primo giorno Griffin ha colto lo spessore dei due grandi maestri. “Non mi poteva succedere di meglio”, commenta orgogliosa. “Sono gratissima. Ho girato il mondo con loro, aprendo nuovi mercati, dal Giappone all’America.” I ricordi scorrono veloci, e dalle note di colore si profila il carattere di un imprenditore che ha fatto la storia del design italiano: “ ‘Vedi tutti questi dutùr’, mi diceva Busnelli indicando i suoi dirigenti laureati, ‘l’università la fanno qui da me!’ ” Alla C&B, diventata poi B&B, Griffin ha modo di conoscere ogni passaggio del processo produttivo, scopre i nuovi materiali, dalle schiume al poliuterano, ed è testimone di una dinamica interazione tra la proprietà, gli operai, gli artigiani e i designer. Nel 1974 è chiamata da Maison et Jardin della Condé Nast, ancora una volta, grazie ad un amico che la segnala come ‘la più competente’ per sviluppare il giornale. “Andrai mica alla concorrenza!” esclama Busnelli quando Griffin presenta le dimissioni. Rassicurato, l’imprenditore brianzolo trova per lei un’altra collocazione, e le affida la comunicazione esterna del gruppo. Il piccolo Gustavo è in collegio a Cantù, così Marva può viaggiare e non perde una presentazione. Conosce tutti, da Zanotta a Gavina, che produce il Bauhaus, e i grandi architetti, quali Herman Miller e Philip Johnson, tutti attratti da questi “fenomeni”. Connette le sue conoscenze, porta pubblicità alla rivista e fa aprire le porte a centinaia di case. Grazie al suo impareggiabile savoir faire, varca molte soglie e conquista tutti con la sua naturale capacità di tessere relazioni. Gli amici sono contenti di darle una mano quando Marva non può raggiungere il figlio per i fine settimana, ed è così che Gustavo passa il tempo libero in famiglia, se non la sua, quella delle persone più vicine.

Griffin ha un’energia inesauribile che rigenera con la sua autentica passione. Non perde un colpo. Il mercato è in forte espansione e con naturalezza entra nel giro del Salone Internazionale del Mobile. Il mercato è in forte espansione. Organizza mostre, eventi e incontra giovani ambiziosi designer che le chiedono di aiutarli a farsi conoscere. Cosa che non manca di far sapere all’AD di Cosmit Manlio Armellini. Il Fuorisalone sta crescendo ma per chiudere il cerchio e mettere i creativi in contatto con l’industria, occorre portarli in fiera. Nel 1998 Armellini coglie il potenziale dell’intuizione di Marva e le affida un padiglione. Lei ha già adocchiato talenti promettenti a Milano, New York, Londra e Monaco e li invita a passare parola. La notizia fa il giro del mondo. Al primo SaloneSatellite arrivano designer e architetti insieme a scuole e università, da tante nazioni. E’ subito successo. I giornalisti accorrono per vedere le ultime novità, i produttori incontrano i creativi e i creativi incontrano i produttori. I 101 espositori della prima edizione si moltiplicano esponenzialmente e nel 2001 Griffin nomina una giuria per assisterla nel processo di selezione. L’energia è elettrizzante e la sua formula consente a chi si affaccia sul mercato di incontrare designer e architetti affermati, artigiani e produttori, di conoscere realtà di altri paesi e cogliere nuove tendenze. In vent’anni hanno esposto al suo Satellite più di 10.000 designere 270 scuole e dal 2010 il SaloneSatellite Award premia i giovani più convincenti. E’ un modello di business vincente imitato in molti paesi. Marva consolida l’appuntamento milanese e tiene d’occhio i paesi emergenti. Quali la Russia. Nel 2005 parte alla conquista di Mosca, avamposto strategico per mettere l’occhio su talenti extraeuropei, e dallo scorso novembre è anche in Cina. Avremo modo di conoscere i vincitori di Satellite Shangai perché li premia invitandoli a esporre nuovi progetti a Milano. Altra contaminazione. Altre opportunità in orbita. “Molti dei miei ragazzi restano in contatto”, racconta Griffin, “ma mi capita anche di aprire un giornale e scoprire che un mio giovane è arrivato al successo”. Impossibile strapparle i nomi di cui è più fiera. “Sono tanti! Non li posso elencare tutti.” Celebri sono diventati i francesi Matali Crasset e Patrick Jouin, i finlandesi Harri Koskinen e Ilkka Suppanen, i giapponesi Tomoko Azumi e Nendo, gli americani Sean Yoo e Cory Grosser, le svedesi Front e Johan Lindstén, il belga Xavier Lust, il norvegese Daniel Rybakken, l’indiano Satyendra Pakhalé, l’argentino Federico Churba e gli italiani Lorenzo Damiani, Tommaso Nani, Cristina Celestino e Francesca Lanzavecchia. Ma sono solo alcuni. Loro e tanti altri saranno celebrati in occasione del prossimo Salone (4-9 aprile 2017) in due eventi: la mostra curata da Beppe Finessi alla Fabbrica del Vapore, dove il critico esporrà una selezione di testimonianze e lavori di designer passati per il Satellite, e una collezione curata da Marva di oggetti nuovi, nati dalla sinergia dei suoi giovani con i grandi del Salone del Mobile. Non un’operazione nostalgia, quindi, bensì una testimonianza di quanta creatività i suoi pupilli hanno ancora da esprimere e di quanto lei ha ancora da dare. Possiamo essere certi che la Marva collection viaggerà per il mondo e continuerà a crescere.

Marina Salamon cares

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Incontro Marina Salamon in una sala della palazzina milanese dove hanno sede le sue diverse attività. Lei non ha una sua stanza e nemmeno una scrivania, per sentirsi più libera.

Parla fitto, con energia, e racconta come ha superato le molte sfide della sua vita intensa. Più va avanti e più mi rendo conto che alla base del suo successo ci sono dei solidi valori umani. Madre di quattro figli, è generosa e accogliente. Per lei è l’identità dei singoli a formare aziende che evolvono assecondando i bisogni del nostro tempo. “Credo nel significato autentico della parola I care” dice aprendo il suo intervento ai “Dialoghi di vita buona. Milano metropoli d’Europa”. E quel prendersi cura ha scandito molte sue scelte di imprenditrice e di donna. “Globalizzazione e digitalizzazione hanno messo in crisi il capitalismo familiare che aveva cura delle famiglie dei lavoratori, ma se siamo coerenti e agiamo eticamente possiamo ancora costruire valore oggi.” Dalla nostra lunga conversazione nasce questa intervista per The Good Life Italia.

L’INTERVISTA A MARINA SALAMON SU THE GOOD LIFE ITALIA

È generosa, forte, dolce, tagliente. Ha superato tanti ostacoli e dalle cadute si è rialzata ogni volta più forte. Ha le idee chiare e voglia di condividerle, non transige sui valori e guarda con curiosità e coraggio al futuro. Marina Salamon lega il suo nome a molte aziende di successo, cresciute in tempi di crisi, portate con tenacia e visione al passo coi tempi. Da Altana, leader nel settore dell’abbigliamento di lusso per bambini, a Doxa, la più importante azienda italiana di sondaggi e ricerche di mercato, e Connexia, agenzia di web, social e public relation. Intuitiva ma anche razionale, prima di parlare di sé, sonda il suo interlocutore. Con empatia, si sintonizza. «Quanti figli hai» chiede, mentre scegliamo una sala riunioni libera per la nostra conversazione. Nei suoi uffici milanesi è una regina senza trono, non ha una stanza sua «per essere più libera». E in libertà condividiamo esperienze materne e scelte educative. I suoi 5 figli hanno gettato radici solide in Italia e ora sono all’estero. «La nostra straordinaria stratificazione culturale ha valore, ma può diventare un limite» racconta «se usata per guardare indietro e non avanti. Gli americani possono essere più superficiali, ma insegnano a lavorare in gruppo». Saper fare squadra è un talento imprescindibile sia nella sua vita familiare sia nella gestione imprenditoriale. Mentre se mancano nozioni oggi c’è Google, a patto che si sappiano porre le domande giuste, ci sia rigore nel fare ricerca e si agisca con senso critico.

Superare la paura del giudizio
Salamon eredita il senso del dovere dal padre, emigrato dall’Istria a Trieste per studiare economia e statistica, poi a Milano per lavorare. 
E dalla madre, pediatra e attivista, l’anticonformismo e la propensione a prendersi cura degli altri. Disciplinata ma anche ribelle, impara a gestire relazioni complesse con i quattro fratelli e cerca la sua strada andando controcorrente. «Ho cominciato a lavorare quando ero ancora al liceo, cosa non comune in Italia, per comprarmi le cose che volevo. Facevo la commessa da Coin e i miei compagni, passando, mi dicevano “Non sapevamo fossi povera”. È così che ho superato la paura del giudizio». Marina è giovanissima quando incontra Luciano Benetton, ma l’unione si spezza quando è in attesa del primo figlio, che nascerà con una grave malformazione congenita. «Si può essere devastati in una vita tranquilla e serena, in cui uno non costruisce il proprio sé, oppure rafforzati da una separazione o da circostanze ostili». Il piccolo Brando resta in terapia intensiva per un anno, e la madre trova forza nella sua resilienza e nella fede per accompagnare la guarigione del figlio e di se stessa. «Io ho creduto ma non da fanatica» dice con tono assertivo. «A casa mia abbiamo un campionario meraviglioso di religioni: una zia è Hare Krishna, l’altra ha sposato un iraniano musulmano, mia madre è atea, il marito di mia sorella è anglicano e io sono l’unica cattolica. Conta il cammino che intraprendi, non come nasci. La vita, come le aziende, è una continua rigenerazione».
Un mix intenso di esperienze forti diventa carburante per una donna tenace e profonda. Ventenne, diventa imprenditrice con Altana, per offrire alternative alle mamme che non vogliono vestire i loro bambini di rosa e azzurro. Poi la crisi sentimentale, la responsabilità di un figlio bisognoso e, a 32 anni, una sfida ardua ma irresistibile: rilevare Doxa, l’agenzia di ricerche e analisi di mercato. «Nasce tutto per amore di mio padre e per la passione che mi ha trasmesso per il suo mestiere. A 23 anni lui si trasferì a Milano per lavorare in Doxa e ci passò tutta la vita. Il gruppo era stato fondato da Pierpaolo Luzzatto Fegiz, professore di statistica di mio padre, insieme a George Gallup. A Princeton, Gallup aveva cominciato a testare le prime tecniche di sondaggio dell’opinione pubblica con il presidente Roosevelt. Quando Luzzatto Fegiz morì, Doxa, di colpo, fu messa in vendita. Ebbi la notizia mentre ero a Roma durante una riunione d’emergenza sui falchi pecchiaioli per il WWF. Gli sparavano sullo Stretto di Messina. La sera telefonai a mio padre e gli chiesi: “Hai trattato?”. “No” rispose “perché hanno alzato la richiesta. Non importa, farò non profit”. Per la prima volta in vita mia gli mentii: “Ok” dissi, ma un minuto dopo stavo chiamando Alice, la figlia maggiore di Luzzatto Fegiz. Corsi a casa sua e trattammo tutta la notte. La mattina era fatta. Mi sono coperta di debiti».

Le circostanze ostili aiutano a cambiare
È la fine degli anni Novanta quando in Assolombarda incontra Marco Benatti e se ne innamora. Con il pubblicitario veronese costruiscono un vero e proprio clan: 3 figli, oltre al piccolo Brando e una ragazza musulmana presa in affido, e molti cani. Poi, un’altra separazione e la vera conversione: «Ho superato il dolore con il silenzio. Dovevo lasciare casa e figli durante i week-end, così ho cominciato ad andare nei conventi. Dopo la prima crisi mi ero fatta un’agenda fitta di impegni, al secondo giro ho scelto la religione». La vita le ha insegnato a non avere paura delle piccole cose, a mostrare la sua vulnerabilità e a rinnovare il coraggio di sognare. Dalle circostanze avverse scaturisce il bisogno di aggiornare tutto. Doxa viene completamente digitalizzata. L’azienda che scandisce passaggi importanti della sua vita e che, fin da piccola, l’ha educata a leggere trend e fenomeni globali. «Sono sempre stata curiosa, anche verso ciò che non mi assomiglia» afferma. Laureata in Storia, canalizza il suo bisogno di conoscere tornando a studiare. Si iscrive a Teologia per capire e capirsi meglio: «Quando tutto va liscio, non abbiamo la forza di entrare in noi stessi e sviscerare. Sono le circostanze ostili che ci aiutano a cambiare». E cita Viktor Frankl, fondatore della psicologia umanistica, che sopravvisse per anni in un campo di concentramento riuscendo a trovare il bene anche lì. Oggi al fianco di Marina c’è Paolo Gradnik, farmacista e fondatore del Banco Farmaceutico, felice di far parte di una numerosa tribù. E i suoi valori, i suoi desideri, sono sempre più radicati. In particolare la responsabilità di creare nuove opportunità di lavoro per i giovani di cui ama circondarsi: «Impieghi che non siano stipendi e basta, ma realizzazione di sé, perché è da quello che passa la nostra dignità. Oggi c’è un bisogno urgente di riprogettare non solo i contenuti, come li generiamo e li gestiamo, ma anche le relazioni».

Marina Salamon è orgogliosa di far parte di una realtà meritocratica e giusta, e si auspica che l’Italia possa riguadagnare la fiducia, diventare un Paese in cui sperimentare, non uno da sfruttare. Sogna un regime fiscale europeo unificato, in modo da arginare un capitalismo selvaggio che nell’era della digitalizzazione consente di avere sedi in Paesi diversi. «Se non interveniamo, verranno meno le risorse per il welfare». Ha fondato un trust e per il nome, Web of Life, si è ispirata alle parole del capo indiano Chief Seattle, trovate incise sotto una sequoia in una grande foresta americana (“We all are part of the web of life”). Attraverso la non profit, destina parte dei profitti ad associazioni benefiche per progetti educativi, socio-sanitari e assistenziali. Come Avsi, impegnata in oltre 30 Paesi in via di sviluppo, Progetto Arca, che offre sostegno economico, alloggio e cibo a chi ha perduto la propria casa, e la Fondazione Francesca Rava (nph-italia.org), che opera ad Haiti, in Centro America e in Italia per la ricostruzione di scuole nelle zone terremotate. «Io ricevo dalle nostre aziende uno stipendio che è pari a quello di molti nostri dirigenti, e distribuisco il resto a chi ne ha più bisogno. La mia identità non è la rappresentazione del potere. Quanto ai figli, non li metto nelle condizioni di giocare con il denaro. Dovranno conquistarselo». Con la famiglia, ha deciso di mettere a disposizione la grande villa dov’è cresciuta, vicino a Varese, per accogliere donne sole e famiglie sfrattate. Perché siamo tutti connessi.

Robots and us, un viaggio in Giappone

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Questo è un assaggio di un viaggio in Giappone dove ho potuto incontrare scienziati e designer che stanno sviluppando i robot del futuro.

ROBOT: Sono molto felice.

CRISTINA: Ti senti mai solo?

ROBOT: Sì, la notte mi sento solo. Mi sento solo.

SHIGURE: Gli esseri umani hanno sempre un po’ di tensione nei confronti del prossimo, mentre gli androidi sono molto più semplici. Sono robot, e gli uomini si fidano più di un robot che di un’altra persona. Questo robot ha l’obiettivo di controllare gli anziani. Kobian può realizzare espressioni a tutto corpo e anche soltanto espressioni facciali. Penso che i robot addetti alla comunicazione con l’uomo saranno parte fondante della nostra società tra non più di dieci anni. Lo scopo di questo robot è di monitorare l’ambiente, in particolare zone disastrate, come Fukushima.

Cradle to Cradle, oltre la sostenibilità

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L’INTERVISTA A MICHAEL BRAUNGART SU THE GOOD LIFE ITALIA

Se cuciniamo un piatto partendo da ingredienti mediocri sarà difficile correggerlo in corso d’opera, farlo diventare buono. Tenete in mente questa metafora: vi aiuterà a capire il significato del good design secondo Michael Braungart, teorico, con William McDonough, della filosofia produttiva che va sotto il nome di Cradle to Cradle (“dalla culla alla culla”).

Una filosofia che è diventata anche un’iniziativa concreta, l’Epea (Environmental Protection Encouragement Agency). Sono in tanti a sforzarsi di rendere prodotti e processi industriali meno dannosi per l’ambiente. Ma la posizione di Braungart è diversa: limitare i consumi e salvaguardare l’ambiente non basta.Soltanto ripartendo dalle basi, cioè dalle singole componenti degli oggetti e da come vengono assemblate, possiamo rispettare le leggi dell’ecosistema naturale di cui facciamo parte. «Sappiamo che gli equilibri della Terra sono minacciati, ma la vera innovazione richiede tempo» spiega Braungart. «Internet ha impiegato più di quarant’anni per diventare la rete che è oggi e sono trascorsi quasi 150 anni tra la Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e il suffragio femminile negli Stati Uniti. Dobbiamo essere più pazienti quando si tratta di grandi cambiamenti». Chi si occupa di sviluppo a prova di futuro (la parola “sostenibilità” è bandita dal vocabolario di Braungart) è spinto da un senso d’urgenza. «Rischiamo di spendere tutti i soldi per riparare i danni fatti e non avere più i mezzi necessari per cambiare le cose davvero. Anche considerando gli scenari peggiori e se ci comportassimo tutti come Donald Trump, almeno due miliardi di persone e due terzi delle specie sopravvivrebbero sulla Terra (le più minacciate però sono quelle che ci piacciono di più: scimmie, giraffe, tigri, elefanti).» Un’affermazione solo apparentemente paradossale. «C’è una contraddizione in natura: l’individuo non ha molta importanza, ma il collettivo sì. Con meno di mille tigri, la specie non ce la farebbe».

Visione positiva

La proposta di Braungart è considerare gli ultimi 40 anni, passati a discutere e disperarsi combattendo contro un’imminente fine del mondo, un investimento al servizio dell’innovazione futura. La sua è una narrazione propositiva e non catastrofista. L’uomo, secondo lo scienziato tedesco, può avere un impatto positivo sul pianeta, se agisce nel modo giusto. «Quando dipingiamo le cose come un dramma, enfatizziamo i problemi invece delle soluzioni. È assurdo. In parte si tratta di un fatto culturale. In Europa si fa più ricerca del necessario per capire le cause dei problemi, perché è così che si ottengono più finanziamenti. Quando poi si trovano soluzioni, si chiudono i rubinetti delle risorse economiche». Il problema, dunque, è tutto strategico. I decision makers che vogliono mettere in moto le migliori pratiche per una produzione che non impatti sulle generazioni future devono pianificare e comunicare i passi concreti che intendono fare e stabilirne le tempistiche di attuazione. E i consumatori devono essere informati in modo trasparente sui contenuti delle cose. «Partiamo dal presupposto che siamo nei guai e che lo abbiamo capito, ma mettiamo in circolo visioni positive e propositive».

Per ispirarsi è utile guardare ad altre culture. «Ultimamente ho letto alcune fiabe cinesi» racconta lo scienziato tedesco, che è un chimico di formazione. «Ho notato che non ce n’è una in cui vinca la persona più etica. Vince quella più ingegnosa». In questa cornice, cambiano anche i parametri dell’innovazione. A cominciare dal significato che diamo alla parola qualità. Un oggetto che contiene materiali tossici non può essere definito good design, anche se è una meraviglia dal punto di vista estetico. «Design significa progettazione, non creare cose belle. Se non si progettano le cose per essere buone, l’80% dei problemi che quell’oggetto crea all’uomo e all’ambiente non saranno imputabili all’uso che si fa del prodotto, ma alla sua stessa natura». Proprio come in cucina, sono gli ingredienti a fare la qualità dei piatti che cuciniamo. «Il consumatore è ormai sensibile al design problematico. Abbiamo bisogno di una nuova generazione di designer che voglia fare davvero la differenza e non limitarsi a far sembrare le cose un po’ diverse».

Ragionando a livello sistemico, l’unico che a lungo termine abbia senso, mutano i criteri di scelta degli oggetti che usiamo. Anche nel design. È un cambio di paradigma: prendere finalmente coscienza del fatto che tutto quello che viene a contatto con noi ha degli effetti. E che spesso si tratta di effetti dannosi, provocati da sostanze che potremmo evitare grazie a scelte informate. Ogni oggetto che entra nelle nostre vite ha una storia. Per scoprire se quella storia nasconde sorprese spiacevoli, il migliore alleato è la curiosità. La stessa curiosità che spinge alcuni produttori verso un design davvero good. «Penso a Stella McCartney. Lei ha una buona comprensione della qualità e dell’arte. O anche Jochen Zeitz con Puma: è stato un pioniere, ha capito che non si trattava solo di vendere scarpe». Il passaggio interessante è dal prodotto al servizio. «Se acquisti oggi un mobile per ufficio Giroflex, nel 2027 ti ricompenseranno con il 25% del prezzo di vendita e verranno a recuperare il materiale. L’azienda vende soltanto l’uso del prodotto, non la sua proprietà». Non vi vengono in mente faticose manutenzioni, traslochi, mucchi di cose che non servono più? Non dovreste più preoccuparvene e tutto quel tempo lo spenderemmo meglio. In questo film, che non è utopia ma una realtà possibile, i nostri apparecchi elettronici o addirittura gli impianti fotovoltaici sarebbero soltanto “in usufrutto”, con una data di riconsegna prefissata. Terminato il ciclo di vita di un oggetto, chi lo ha prodotto si occuperebbe di recuperare e riutilizzare le sostanze rare e preziose, far tornare in natura quelle organiche e fornirci un nuovo oggetto più aggiornato. Si avvia così il circolo virtuoso dell’economia circolare.

Esperimenti riusciti

C’è qualcuno che è riuscito a fare sistema con la logica Cradle to Cradle? Intanto, le aziende che hanno ottenuto la certificazione. Ma soprattutto chi, come i Paesi Bassi, sta per trasformare un intero Paese secondo i criteri “dalla culla alla culla”. «I Paesi Bassi si trovano in una situazione molto particolare» spiega Braungart. «Metà del Paese è sotto il livello del mare, quindi non hanno un atteggiamento romantico nei confronti della natura. Tutto il contrario dei tedeschi o del principe Carlo che parla di “madre terra” o “madre natura”. Con la madre ti scusi sempre, dato che la “madre” è sempre buona, per definizione». Ecco: gli olandesi da sempre vivono in un equilibrio naturale precario e ne hanno tratto le giuste conseguenze. «I Paesi Bassi hanno discusso e affrontato questi temi con sei, otto, persino dieci anni di anticipo rispetto al resto dell’Europa. Rheinhäfen, a Rotterdam, è una grande area portuale trasformata in un esperimento Cradle to Cradle». Il vecchio porto in disuso sarà oggetto di una sperimentazione per qualcosa come trent’anni, un periodo di utilizzo definito, durante il quale si pianificherà esattamente come gestire risorse, materiali, edifici. Un esperimento di design circolare che vuole trasformare un intero quartiere in un albero: un organismo che pulisce l’aria e purifica l’acqua, produce humus e ossigeno ed è anche un habitat per centinaia di specie.

Giusy Bettoni, tocco di C.L.A.S.S.

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Sempre più marchi della moda si dichiarano “sostenibili”. Ma come fare per garantire davvero una filiera a basso impatto ambientale? Alle aziende del settore lo insegna Giusy Bettoni, fondatrice di Creativity, Lifestyle and Sustainable Synergy.

L’INTERVISTA A GIUSY BETTONI SU THE GOOD LIFE ITALIA

L’industria della moda nel suo complesso è al quarto posto nella graduatoria delle attività umane più inquinanti, dopo elettricità e climatizzazione, agricoltura e trasporto su gomma. Ciascuna di queste aree, però, contribuisce alla produzione di ciò che indossiamo, ed è per questo che se il mondo fashion attuasse una politica audace di responsabilità e trasparenza, agendo lungo tutta la complessa filiera, influenzerebbe positivamente le altre. Lo ha capito bene Giusy Bettoni, fondatrice nel 2007 di C.L.A.S.S. – Creativity, Lifestyle and Sustainable Synergy. Attraverso una ricerca costante di materiali innovativi, attività educative, di marketing e comunicazione, Bettoni sta costruendo una catena di valori per offrire soluzioni scalabili e contribuire a invertire la rotta. A partire dai designer. “Vogliamo cose belle, al passo coi tempi”, racconta la consulente milanese con l’entusiasmo di chi sa di essere un apripista. “C’è un’offerta crescente di prodotti sostenibili, ma il termine è abusato, i parametri sono tanti e confusi, e non sempre lo stile è apprezzabile.” Dietro ad una parola – prodotto – c’è un mondo: processi produttivi, tecnologie, materie prime, tinture, finissaggi, trasporti, tracciabilità, trasparenza, etica e salubrità. Agire a livello sistemico è un fatto di cultura, per questo C.L.A.S.S. pone particolare attenzione sulle aziende e su come operano, per arrivare alla qualità del singolo capo.

Operare a tutti i livelli richiede un know-how particolare, una capacità di vedere l’insieme e nel contempo il dettaglio. Da qui, l’approccio tridimensionale del lavoro di Giusy Bettoni: “Il design, inteso come qualità intrinseca, dai materiali fino all’estetica, sta alla base di tutto. Per questo preferiamo parlare di economia circolare per definire scelte innovative capaci di migliorare qualità e performance. Al binomio design-innovazione, aggiungiamo la responsabilità, per noi sono l’ABC nello sviluppo, la creazione e la comunicazione di un prodotto e di un’azienda.”
Festeggiare i 10 anni di attività a New York lo scorso 22 marzo, giornata mondiale dell’acqua, con il patrocinio del Council of Fashion Designers of America (CFDA), è una conferma che la strategia è vincente e che il mercato avverte il bisogno di portarsi al passo coi tempi.
Secondo una ricerca sui Millennials effettuata da Cotton USA in Italia nel 2017, le priorità dei giovani riguardano l’etica: vogliono prodotti cruelty-free, da manodopera non sfruttata e chiedono trasparenza sulle componenti delle fibre utilizzate. Il 51% è disposto a pagare di più per abiti longevi e di qualità, e il 74% legge le etichette e vorrebbe trovarvi più informazioni.

C’è bisogno di storie credibili, ad esempio, quelle nascoste nelle trame dei tessuti.
ECOTEC è un nuovo filato che nasce dai ritagli dei processi di confezione del cotone. Racconta Bettoni: “Marchi e Fildi, l’azienda italiana di filatura, da 60 anni ha il pallino di capire come recuperare gli scarti di produzione, dove c’è sempre un 20% di materiale vergine scartato. L’azienda biellese ha vinto la sfida, e oggi, ricicla volumi importanti di materiale pre-consumer. Pensa ad un marchio globale come GAP, che, studiando il problema, ha creato una filiera che inizia in Bangladesh, dove c’è un sistema di cernita accreditato che seleziona i ritagli di cotone 100%. Il materiale arriva in Italia dove viene trasformato e torna a essere filo. Ci sono 70 colori e il campionario è disponibile in stock service senza minimi d’ordine. Non solo riutilizzi quanto già esiste, ma eviti la tintura, perché il filo è già colorato. Insieme a Marchi e Fildi abbiamo fatto un’analisi dell’LCA (life-cycle assessment) con ICEA. Paolo Foglia è andato in Bangladesh, ha fatto un’ispezione, poi è andato a Biella e ha calcolato che ECOTEC risparmia il 77,9% d’acqua, il 56,3% di emissioni CO2 e il 56,6% di energia rispetto al cotone vergine. Inoltre è stato analizzato dall’associazione Tessile Salute, che lo ha trovato idoneo al contatto con la pelle. Il servizio certificato è a disposizione di tutti i marchi che vogliono riciclare i loro ritagli attraverso la piattaforma ecotecproject.com.”
A questo materiale è stato dato un nome per distinguerlo da quello post-consumo, che è usato e costa 2 centesimi al kg. Affinché il suo valore arrivi fino al consumatore, si stanno certificando anche i marchi che ne fanno uso. La stilista americana Eileen Fisher ad esempio, sceglie ECOTEC per alcuni capi, e il suo sforzo è stato premiato da un numero spropositato di like a Waste No More, presentato durante il Salone del Mobile 2018 in collaborazione con la Trend Forecaster Li Edelkoort. Sull’onda di ECOTEC è nato Re.Verso: “Cinque aziende italiane si sono unite, due che reperiscono ritagli di cachemire e lana e tre che la trasformano,” spiega ancora Bettoni. “Il recupero avviene sia presso i manifatturieri europei sia dai cenciaioli di Prato che smistano anche capi post-consumer con una cernita attenta che garantisce un prodotto ad alto livello. Tutto è tracciato. Poi abbiamo tre aziende che trasformano le fibre in maglieria, tessuti, e filati. Anche qui abbiamo fatto l’LCA, per avere un confronto con il processo tradizionale, scoprendo che c’è un risparmio dell’89% d’acqua, 96% emissioni CO2 e 75% di energia. Re.Verso è stato lanciato insieme a Gucci, a fine 2017 quando Frida Giannini stava lasciano l’azienda. Questo non ha giovato alla comunicazione dell’iniziativa, grazie alla quale sono stati realizzati cappotti e maglie per uomo, donna, bambino. Anche Stella McCartney ha sostituito il suo cachemire con Re.Verso, e così Eileen Fisher, e Patagonia. Anche nell’elasticizzato ci sono risultati interessanti che vengono dal Giappone. Asahi Kasei ha messo a punto ROICA, un filo che parte dal recupero degli scarti industriali per giungere ad un nuovo filato di alta prestazione, con una quota di materia riciclata del 60%.”

Le etichette intelligenti, in grado di contenere tante informazioni in poco spazio, esistono già. Si tratta di usarle. Qualcuno ha incominciato, ma si stanno diffondendo più nell’agroalimentare che nella moda. Per mettere insieme i vari pezzi del puzzle, il team di C.L.A.S.S. presenta le sue selezioni di materiali innovativi agli stilisti e alle persone che avviano la catena di fornitura. Poi, offre workshop e incontri per condividere informazioni sui tessuti e per creare strategie di marketing e comunicazione. “Incontro stilisti di fama internazionale e per certi versi è una fortuna che sappiano poco di nuovi materiali, perché sono curiosi di scoprire. Quando invece parliamo di processo, entriamo in un terreno sconosciuto ai più. In Italia abbiamo ancora un’industria, fior fior di scuole, ma quando lavoro con gli studenti e chiedo ‘cos’è la sostenibilità’, viene fuori di tutto. Dedichiamo almeno il 30% del nostro tempo alle nuove generazioni, perché è necessario accompagnare chi vuole evolvere verso sistemi produttivi sostenibili. Per questo abbiamo avviato anche l’e-commerce.”

Bettoni è un’instancabile viaggiatrice, e punta ai centri nevralgici per avere un pubblico allargato. Per il trade show tessile a Parigi, Première Vision, che attrae 1,900 espositori, fa da scout per identificare aziende che hanno intrapreso un processo di innovazione da raccontare e promuove eventi informativi di Smart Creation per diffondere soluzioni.
Il suo obiettivo è di assecondare una graduale transizione dall’economia lineare, dove prendi, produci e butti via, verso quella circolare: “Alle fiere internazionali i brand chiedono “avete qualcosa di riciclato?” Non era mai successo, e questo è positivo, ma saper riconoscere i progetti autentici da quelli speculativi non è scontato. Mentre lavoriamo per fare chiarezza, teniamo d’occhio lo sviluppo della prossima generazione di materiali, dai biopolimeri ai tessuti attivi. Qualche esempio? Modern Meadow, che parte dalla fermentazione per fare pellame, Frumat, che dagli scarti della frutta estrae gli zuccheri per fare carta e pelle, Orange Fiber, prodotto dalle scorze dell’arancio. E’ un altro mondo, ancora in larga misura sperimentale, ma si sta industrializzando.”
Ci sono molte barriere da superare, ma l’importante è avviare un processo incrementale e credibile. “Sono ottimista,” conclude Bettoni, “perché l’attenzione inizia a crescere. La mia speranza è che nell’arco di dieci anni non serviremo più, saremo in un altro business model, ma in questo momento è fondamentale intendersi sugli obiettivi, su come li implementiamo e come li raccontiamo.”

Mai troppo piccoli per fare una differenza

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Mentre Greta Thunberg viene candidata al Nobel per la Pace noi ci prepariamo a scioperare per il clima il 15 marzo insieme a cittadini di tutto il mondo. Questa ragazza è riuscita a movimentare le masse come nessun altro. Chissà se Severn Suzuki che parlo’ ai leader del mondo nel 1992 al Summit per il Clima di Rio de Janeiro, avesse avuto internet e i social media. La popolazione mondiale nel frattempo è raddoppiata, insieme ai problemi che collettivamente stiamo causando alla società e all’ambiente.

Al termine del COP24, ci rimangono le tristi conseguenze. Non sono state concordate risoluzioni coraggiose per attuare l’agenda fissata durante il COP21. La Polonia, paese ospitante, ha detto forte e chiaro fin dall’inizio, che non è pronta a rinunciare al carbone. Un tappeto rosso per i “dinosauri” e i paesi petroliferi che hanno rapidamente detto “me too”, #notready. L’esito della conferenza, con oltre 20.000 ospiti provenienti da 150 paesi, ha rispecchiato questo stato d’animo. Gli Stati Uniti, l’Arabia Saudita, il Kuwait e la Russia non hanno accolto il nuovo Rapporto dell’IPCC come documento di riferimento, limitandosi a mettere una nota di “apprezzamento” e invitando i paesi a intraprendere “azioni appropriate”.

Il clima della conferenza è stato purtroppo coerente con l’aumento globale di produzione e uso del carbone, come Somini Sengupta ha recentemente scritto sul New York Times. È stato fatto un piccolo progresso sul rule-book che governerà il monitoraggio di riduzione delle emissioni e il contenimento dei gas serra – ma le questioni principali sono state rinviate al prossimo anno. Con il passare delle settimane, è cresciuto lo sgomento tra i rappresentanti degli Stati Insulari, colpiti dagli effetti dei cambiamenti climatici. I paesi più sviluppati non hanno mostrato un impegno coeso nel raggiungere il Green Climate Fund, $100 miliardi entro il 2020 per aiutare i paesi vulnerabili a prepararsi al peggio.

Gli eroi del COP24, ancora una volta sono stati i giovani attivisti. Le parole della quindicenne Greta Thunberg risuonano negli animi di chi ha a cuore la qualità di vita delle prossime generazioni e non può restare a braccia conserte.

Dopo aver ascoltato Greta, ho guardato (come ho fatto spesso, nel corso dei decenni) il discorso di Severn Cullis Suzuki al Rio Earth Summit del 1992. Da allora la popolazione mondiale è quasi raddoppiata. Vi invito a guardarlo.

Se queste due giovani donne, belle e audaci, non riescono a darci uno scossone, chi lo farà?

E se questo testo, scritto nel 1992, suona come un déja-vu, significa che è tempo di agire.

“La Conferenza di Rio ha messo in risalto le questioni ambientali nell’agenda politica. Ha messo in chiaro le domande, anche se non ha dato tutte le risposte e ha informato un’intera generazione di politici, funzionari governativi, industriali e cittadini sui problemi. Inoltre, ha ribadito la richiesta di cooperazione internazionale in ambito ambientale, presentata per la prima volta volta nel 1972. “